Postille a Nero ananas
Lo chiamavo il romanzone. Gli altri erano romanzi che cominciavo, sviluppavo, finivo, a cui attribuivo un titolo, che venivano poi pubblicati. Lui no. Lui stava lì. Imprigionato in schemi cronologici e diacronici suddivisi in cartelle dai nomi strani, in schede di personaggi, in ritagli di giornale, in pacchi di fogli alti trenta centimetri contenenti dispositivi di rinvio a giudizio o motivazioni di sentenze. Ma in gran parte, la parte assolutamente preponderante, stava nella mia testa. O nel mio cuore. O nel mio corpo. Insomma, dove stanno i romanzi quando emergono come possibilità ma ancora non sono stati scritti. E quindi, a pensarci meglio, ho sbagliato a dire che stava da qualche parte. Perché un romanzo esiste solo a partire dal momento in cui lo si scrive.
«Il concepimento è ben poca cosa in confronto al parto» dice Philip Roth. «Intendo dire che, fino a quando non sono state assorbite in una strategia narrativa d’insieme, le mie “idee” […] non [sono] diverse da quelle di chiunque altro. Tutti hanno “idee” per romanzi, la metropolitana è piena di persone che si reggono alle maniglie rigirandosi per la testa idee per romanzi che non riusciranno mai a scrivere. Spesso anch’io sono una di loro».[1]
Quindi per lunghi anni il romanzone non stava lì, mentre la “strategia narrativa d’insieme” che era necessaria a dargli vita veniva a poco a poco componendosi. Non riesco a contare le volte in cui ho pensato che non ce l’avrei mai fatta a finirlo.
Tutto era cominciato una sera di gennaio del 2002 quando, appena terminata la lettura di Libra di Don DeLillo, mentre steso sul divano mi stavo domandando quale nuovo libro iniziare a leggere, pensai che mi ci sarebbe voluto un romanzo italiano che parlasse in un certo modo dei fatti oscuri di casa nostra, quelli che magistratura e storici non erano ancora riusciti a decifrare fino in fondo. Un romanzo che ripercorresse una vicenda fondamentale della nostra storia recente, che sposasse una versione dei fatti tra le molte possibili ma che allo stesso tempo non fosse un libro ideologicamente schierato, non grondasse indignazione e polemica politica da ogni rigo, ma cercasse invece di entrare nelle teste, nelle pance e nelle scarpe dei protagonisti visibili o nascosti di quella vicenda, per portarne alla luce i moventi più intimi, le irresolutezze, le crudeltà, le paure, in sintesi il loro essere comunque uomini.
Ma un romanzo così, pensai, non c’è. O almeno, io non lo conoscevo. L’avrei dovuto scrivere, anziché leggerlo.
E mentre su quel divano tratteggiavo a me stesso per la prima volta un obiettivo di questo tipo, mi si veniva chiarendo l’idea che l’evento in questione doveva essere qualcosa di grosso e di opaco, di molto visibile e molto sfuggente. Da non molto erano cominciate a uscire sui giornali le rivelazioni dei primi pentiti dell’eversione nera di fine anni ’60-primi anni ’70, che mostravano un quadro di azioni e relazioni fino a quel momento ignoto. A suo tempo l’emergere di una “strategia della tensione” (Piazza Fontana, ciò che vi aveva condotto e ciò che ne era seguito) aveva rappresentato un cambio di rotta nel sentire e nell’agire della coscienza collettiva italiana. Non solo per chi ne aveva subite dirette conseguenze o per gli adulti dell’epoca, ma anche per chi, come me, a quel tempo era un bambino e aveva percepito il cambiamento in modo subliminale, sì, ma potente.
Decisi di concentrarmi su quel periodo buio. In particolare sulla preparazione e l’esecuzione dell’attentato alla Questura di Milano del 17 maggio 1973. Intanto perché, essendo il meno ricordato tra tutti gli attentati “neri”[2], metterlo al centro della scena evitava, almeno in partenza, il rischio di scivolare su strade già battute. E poi perché fu proprio quell’attentato, il primo dopo Piazza Fontana, a togliere ogni residuo dubbio sul fatto che la strategia della tensione non era un’invenzione giornalistica o dei partiti e movimenti della sinistra più o meno estrema, ma una forma di guerra civile mai sperimentata in precedenza: il 17 maggio 1973 divenne chiaro a tutti che, purtroppo, il 12 dicembre 1969 non sarebbe rimasta l’unica data infausta nella recente storia italiana.
Per qualche istante, su quel divano, vidi il romanzo: una frastagliata, complessa serie di vette montagnose illuminate dallo schiocco muto di un lampo. E poi, subito dopo, il buio. Avrei dovuto fissarmi nella mente una volta per tutte quell’immagine e provare a ricrearla, giorno dopo giorno, con le mie parole.
Mi tirai su, attraversai la casa silenziosa e mi infilai a letto con una strana euforia sotto pelle, la stessa provata le volte in cui ho conosciuto una donna di cui di lì a poco mi sarei innamorato. Magari, più tardi, finendo per pentirmene.
La documentazione. In principio fu cartacea, o comunque su supporti analogici. Internet c’era già, ma ai primi degli anni 2000 vi si trovavano molte meno cose rispetto a oggi. Quindi: microfilm in biblioteca per spulciare i giornali d’epoca attraverso quei grossi macchinari che fanno tanto noir con detective privato, atti giudiziari e di commissioni d’inchiesta, libri di storici, di divulgatori, di giornalisti. Biografie lacunose, autobiografie indulgenti, lunghe interviste spesso elusive. Poi, via via che la rete si infoltiva, filmati, fotografie, memoriali mai stampati, blog riepilogativi, riviste on-line che apparivano e sparivano dall’oggi al domani.[3]
A un certo punto ti sembra di sapere tutto. Il giorno dopo sei convinto che non saprai mai niente. Finché una buona volta metti a fuoco che non stai scrivendo un saggio, né un reportage narrativo. Che a documentarti, in linea teorica, potresti andare avanti tutta la vita. Che però ciò che tu vuoi fare è scrivere un romanzo. Basato sì su fatti storicamente accertati ma che poi si sviluppi autonomamente, per le tipiche vie attraverso cui si sviluppano i romanzi, e cioè su (giù) per gli intricati rami dell’immaginazione e della memoria. Insomma, un giorno ti rendi conto che devi cominciare a digerire tutta quella mole di documenti per trasformarla in materiale narrativo.
Naturalmente la realtà non è così schematica. Continuai a cercare, a leggere e a prendere appunti fin quasi alla fine della stesura. Però è vero che un giorno avvertii la necessità di buttar giù almeno due-tre paginette, forse per dimostrare a me stesso che il romanzone, oltre che prepararlo e pensarlo appeso alle maniglie di un autobus (la metropolitana a Firenze non c’è, e all’epoca non c’era neanche la tramvia) ero anche in grado di scriverlo. E la prima cosa che scrissi fu l’inizio del capitolo in cui entra in scena l’anarchico senza nome (forse perché – sfida nella sfida – lo sentivo come il personaggio più lontano da me? È solo un’ipotesi, e non ci giurerei che sia davvero il più lontano), che nel libro stampato adesso si trova a pagina 111. Immaginai una Venezia del 1949, una palestra di boxe, un Boss. E iniziai a dare del tu a questo ragazzo che diventerà un uomo senza mai smettere di fare a pugni con la vita.
La struttura. È (o almeno io la definirei così) il modo che si sceglie per raccontare una determinata storia: rispettare il senso cronologico o muoversi avanti e indietro nel tempo? Far parlare un narratore onnisciente alla Tolstoj, o una prima persona alla Salinger, o una serie di prime persone alla Faulkner, oppure un’altra soluzione ancora? Fare pochi capitoli lunghissimi, tanti capitoli brevissimi, o una delle mille vie di mezzo? Adottare rigidamente un unico ritmo o modificarlo a seconda dell’evento e del personaggio in scena in quel momento? Far salire sul palco anche l’autore che sta scrivendo o lasciarlo fuori dai giochi? Mi arrovellavo tra queste e decine di altre domande del genere. Mi occorreva una “gabbia” che fosse abbastanza articolata per riuscire ad accogliere i tanti fatti e personaggi di cui veniva affollandosi il romanzo, ma che permettesse una fruizione sufficientemente immediata per consentire al lettore di non perdersi dopo poche pagine. Volevo evitare di diventare didascalico citando il contesto storico a ogni piè sospinto, ma non potevo neanche presupporre la conoscenza da parte del lettore di tutti i fatti accaduti in quel periodo (che sono tantissimi, e quasi sempre interagiscono gli uni con gli altri). A un certo punto mi resi conto che dovevo architettare una struttura “parlante”, che servisse a orientare il lettore nel processo di avvicinamento a una materia così caotica, popolata e ampia (si va dagli anni ’20 ai primi anni ’70, anche se l’azione vera e propria è situata tra il 1969 e il 1973). Così cominciai ad alternare capitoli che trainano cronologicamente l’azione ad altri che si intrufolano nell’intimo dei personaggi, ad “aprire” la narrazione attraverso i vari luoghi geografici e a scandirla col ritmo del tempo che passa, a utilizzare la prima, la seconda, la terza persona, a mantenere il controllo delle proporzioni via via che si sviluppavano le singole parti, e altro ancora, di più difficile definizione.
Quando ebbi la sensazione di aver messo a punto la struttura più adatta alla storia che volevo raccontare, capii che avevo qualche possibilità di riuscire a portare avanti il romanzone.
Calimero. Per un po’ di anni rimasi convinto di voler scrivere un romanzo incentrato esclusivamente sulle questioni eversive-criminose-politiche e dei servizi segreti. Poi, un giorno di inizio primavera del 2012 (sì, erano passati già dieci anni dalla sera dell’illuminazione sul divano: per fortuna nel frattempo ero riuscito a iniziare, sviluppare, portare a termine e pubblicare altri due o tre libri; il romanzone si gonfiava piano piano, un po’ troppo piano, come se avessi voluto risparmiare sul lievito), lessi la notizia che stava per uscire il nuovo film di Marco Tullio Giordana. Sobbalzai. Non perché un nuovo film di MTG mi facesse emozionare a prescindere: da ragazzo avevo amato Maledetti vi amerò, qualche tempo prima avevo apprezzato La meglio gioventù, ma MTG non era e non è uno dei registi che più mi facciano emozionare. Sobbalzai perché quel suo nuovo film in uscita aveva un titolo che mi raggelò: Romanzo di una strage.
Lo andai a vedere, da solo, il pomeriggio in cui arrivò nelle sale: venerdì 30 marzo (su internet si trova davvero tutto, ormai). In quelle due ore, i miei peggiori presentimenti diventarono realtà.
MTG aveva girato il film che io avrei desiderato venisse tratto dal romanzone, una volta che fossi riuscito a finirlo. Cosa già improbabile di per sé (se non ce l’hai fatta in dieci anni perché mai ce la dovresti fare nei prossimi dieci?) e adesso praticamente impossibile, visto che appunto MTG aveva adottato il mio stesso registro, la mia stessa “strategia narrativa d’insieme”, evidenziando gli intrecci tra politica, servizi ed eversione nera, mettendo in scena un gran numero di personaggi, riuscendo a trovare il filo del racconto in mezzo a quella complessità apparentemente inestricabile. Certo, lui parlava solo della strage di Piazza Fontana mentre io partivo da lì per concentrarmi sui tre anni successivi, ma l’ambiente era quello, gli eventi, i personaggi e la struttura più o meno erano quelli. Mi aveva bruciato.
Rimasi tramortito, sicuro di aver gettato al vento dieci anni di lavoro. La Letteratura non se ne sarebbe mai accorta, ma nel mio piccolo era una mezza catastrofe. Come per le delusioni amorose, cercai di dimenticare.
Due anni dopo, dall’alto di un’apparentemente ritrovata serenità (“possiamo rimanere buoni amici”) mi decisi a riprendere in mano quel centinaio di cartelle che avevo scritto fin lì. D’accordo, mi dissi, c’è un’assonanza col film di MTG, ma in fondo il cinema è una cosa e la letteratura un’altra: certe anse di approfondimento, lo spazio per le sfumature, la musica interiore delle parole che diventano frasi che diventano periodi che diventano capoversi che diventano capitoli che diventano libro, un film non ce li poteva avere. E quindi? Dovevo ricominciare?
Sì. No. Non senza cambiare qualcosa.
Proprio quella rilettura a distanza di tempo mi fece capire che nella versione che avevo architettato fin lì c’era un problema. Era tutto troppo interno a quella galassia di persone che avevano agito sotterraneamente. Mancava l’aria (come un po’ mancava nel film di MTG). Ci voleva un’apertura, uno squarcio che portasse movimento, ossigeno, nel mondo subacqueo e torbido in cui mi ero addentrato. Ci voleva un contraltare di vita chiamiamola normale, che oltretutto per contrasto avrebbe dato ancora più forza alla caratterizzazione dei luoghi oscuri sui quali stavo cercando di gettare una luce.
Nacque così Calimero, il ragazzino di dieci anni, nacque la sua famiglia (compreso il ramo calabrese, che mi consentì di raccontare dall’interno la rivolta di Reggio Calabria in uno dei capitoli che sono più contento di aver scritto) e in particolare nacque sua sorella, ponte tra mondo di sopra e mondo di sotto. Ponte quasi invisibile, da un certo punto in poi, eppure solido e persistente. Il rapporto tra i due fratelli forma l’arco sentimentale che sostiene emotivamente tutto il libro.
L’arrivo di Calimero e della sua famiglia rappresentò il punto di svolta nel processo di scrittura. Tutto prese vita, anche le parti nere più lontane da quel piccolo e colorato mondo famigliare, come se quel soffio di aria fresca facesse bene un po’ a tutti, pure ai cattivi.
Detto questo, non si può negare che permanga una certa affinità tra il libro Nero ananas e il film Romanzo di una strage. Evidentemente è quella materia lì che spinge per essere raccontata in modi analoghi. O vai a sapere. Ci sono comunque somiglianze peggiori.
Speleologia. Il romanzo è costruito come un puzzle. Le storie dei personaggi iniziano, vengono sospese e poi riprese un po’ più in là. Una delle maggiori difficoltà nella stesura fu quella di calarmi nella loro interiorità ogni volta che la storia lo richiedeva. È un libro corale e sono tanti, e molto diversi tra loro, i personaggi con un ruolo rilevante: il Dottore, Falstaff, Zio Otto, il Samurai, l’anarchico senza nome, il Pio, Calimero… Diventare uno di loro era come introdursi in un cunicolo, assicurato a funi che non sai mai fino a che punto reggano. A un certo punto mi venne la tentazione di scrivere tutta d’un fiato ciascuna delle loro storie (almeno per quanto riguardava Calimero, l’anarchico senza nome e il Pio) per poi montarle a posteriori, come si farebbe nella lavorazione di un film, così da risparmiarmi la fatica, ogni volta, della reimmedesimazione speleologica. Ma poi pensai che il lettore lo avrebbe avvertito, avrebbe percepito un eccesso di costruzione a tavolino. O meglio, avrebbe percepito il tavolino. Volevo che ogni capitolo si sviluppasse in vivo, non in vitro, in modo che il processo di creazione si riverberasse anche per aree tematiche lontane, che ci fossero slittamenti imprevisti, osmosi non pianificabili in anticipo: anche l’inconscio doveva avere la sua parte. Quindi ripresi a infilarmi nei cunicoli, a scavare un altro po’, a risalire in superficie, a prendermi qualche giorno o settimana di pausa, a cambiare imbracatura, a entrare in un nuovo cunicolo…
Nomi e soprannomi. I personaggi della galassia eversiva e dell’ambito politico sono ispirati a persone effettivamente vissute, a volte ancora viventi. Ho scelto di non nominarli con nome e cognome per un paio di motivi, forse tre. Il primo è che nella realtà (almeno quella dichiarata dai collaboratori di giustizia) gli appartenenti ai gruppi di estrema destra spesso si riferivano l’uno all’altro, o nei confronti degli avversari (che a volte diventavano obiettivi da eliminare), con dei nomignoli anziché col nome e cognome: un motivo quindi di realismo (ho usato ove possibile quei nomignoli, cambiandoli quando dal punto di vista grafico o fonetico ne avvertivo la necessità). Il secondo motivo va in direzione opposta. Ci tenevo che fosse e rimanesse chiaro (sia a me stesso mentre scrivevo, sia al lettore) che il romanzone era… un romanzo(ne). Che mi stavo addentrando in un territorio sconosciuto (e parlo sia dei fatti storici sia, soprattutto, dell’intimità dei personaggi) con le sole armi offerte dalla letteratura. Che stavo sfruttando i buchi neri, le nebbie, i salti logici e la mancanza di coerenza delle ricostruzioni giudiziarie, storiche e giornalistiche proprio per far correre l’immaginazione. I soprannomi sganciano i personaggi dalle persone a cui sono ispirati. Non è vietato usare nomi di personaggi pubblici all’interno di un romanzo, purché non venga offesa la loro immagine conosciuta (io stesso li ho usati, per personaggi di contorno che servono a contestualizzare l’azione), ma certo il fatto di non usarli permette quasi istintivamente al lettore (e, prima, a me che scrivevo) di immergersi nel testo con lo stesso spirito di quando si comincia a leggere un romanzo non ancorato a fatti effettivamente accaduti. Preferivo garantire anche questa libertà.[4]
Tempi. Torniamo a quel divano, gennaio 2002. Anzi, al mattino successivo. Avevo da poco consegnato al mio editore di allora, Sandro Ferri di E/O, il mio terzo romanzo, A rotta di collo, che sarebbe stato pubblicato in primavera. Potei così iniziare subito, e per qualche mese, a lavorare all’idea del romanzone. L’anno dopo mi fermai per scrivere Fuori tempo, pubblicato da Rizzoli nel 2004.
Da allora è andata sempre avanti così, ogni anno, ogni mese, ogni settimana.
«Questo continuo andirivieni da un progetto in fieri all’altro è tipico del mio modo di lavorare, e di gestire la frustrazione quotidiana, ed è un modo per frenare e allo stesso tempo assecondare “l’ispirazione”. L’idea è mantenere in vita narrazioni che traggano la propria energia da fonti diverse, così che, quando le circostanze sono favorevoli al risveglio dell’una o dell’altra bestia dormiente, io abbia sottomano una carcassa da darle in pasto».
Da quando ho letto queste parole di (ancora) Philip Roth[5] (si è capito che è uno dei miei autori preferiti?), le ho adottate come manifesto da appendere nella mia ideale stanza di lavoro.
Questo metodo (questa caratteristica caratteriale) fece sì che la lavorazione del romanzone si protraesse molto a lungo, così a lungo che il caso mi portò a fare viaggi in luoghi (Israele[6] e Marsiglia, per esempio) che altrimenti avrei dovuto visitare appositamente. Lo presi come un segno del destino. (Non che io sia un fan dei sopralluoghi. Il romanzo è una costruzione mentale che può benissimo fare a meno dell’esperienza sul campo. Però, in casi particolari, uno sguardo dal vivo non fa male).
Tuttavia, fra tutte queste carcasse date in pasto alle bestie dormienti – che mi hanno consentito di pubblicare cinque libri tra l’inizio e la fine di Nero ananas – nel 2014 (quando ripresi in mano il romanzone dopo lo shock provocato dall’uscita del film di MTG) mi ero ritrovato ad aver più o meno concluso il lavoro di documentazione e struttura, e ad aver scritto un centinaio di pagine: la prima parte. Le montagne della seconda e terza parte si ergevano di fronte a me, vette inaccessibili. Quelle tre ore al giorno che riuscivo a dedicare alla scrittura (ho sempre avuto la necessità di un altro lavoro chiamiamolo normale, sia pur part-time) non erano sufficienti a sviluppare l’energia che mi era necessaria per prendere lo slancio e cominciare a inerpicarmi. Scrivevo, scrivevo, ma non ero soddisfatto e rimanevo lì, troppo vicino al campo base.
Fu allora che l’azienda per la quale lavoravo da venticinque anni cessò l’attività, e che mi ritrovai, senza troppo preavviso, disoccupato. Mi ci vollero due anni e mezzo per trovare un nuovo lavoro part-time che facesse per me. In quei due anni e mezzo, mentre il mio conto corrente calava a vista d’occhio, le pagine della seconda e poi della terza parte del romanzone iniziarono ad accumularsi nel mio computer a un ritmo mai raggiunto in precedenza.
Quando ricominciai a lavorare non avevo ancora finito. Ma ormai vedevo la vetta, non avrei più mollato. Scrissi l’ultima frase nell’aprile del 2017 (con l’esclusione del capitolo-epilogo Futuro anteriore, per ragioni tecniche aggiunto soltanto nel novembre 2018, a ridosso della pubblicazione).[7]
Il titolo. Il romanzone si trasformò strada facendo in Bomba o non bomba. Ma sapevo che era solo un titolo di lavoro: trovo troppo ammiccanti i titoli che richiamano canzoni di successo, e poi il pezzo di Antonello Venditti è del 1975, quindi si sarebbe trattato di un titolo anche filologicamente anacronistico, visto che il libro si chiude nel 1973.[8]
L’idea di intitolarlo Nero ananas arrivò un paio d’anni prima della fine della stesura. Sapevo che si trattava di un titolo strano, a rischio, che per una fetta di persone (quanto grande?) sarebbe risultato poco attraente, che a qualcuno, chissà, sarebbe potuto venire in mente addirittura Il dittatore dello stato libero di Bananas, generando un effetto comico involontario e pernicioso.
Per me era un nuovo tipo di colore: c’è il Giallo limone, il Verde pisello, il Grigio fumo, io ci aggiungo il Nero ananas, dove i termini dell’associazione mentale vengono invertiti: non è il Giallo a essere simile alla buccia di un limone ma è la bomba ananas a essere nera come il Nero da cui è scaturito il suo uso a Milano.
Anche se a volte ho trasalito nel sentirlo pronunciare (o nel vederlo scrivere) con noncuranza Ananas nero, rimane un titolo a cui sono affezionato e che mi pare ben sintetizzi il coacervo di misteri che mi sono avventurato a raccontare.
Un incontro. Non ho menzionato fin qui un elemento che è stato alla base, insieme agli altri di cui ho parlato, della scelta di dedicare così tanti anni a scrivere questo libro. Non l’ho esplicitato per pudore.
Poi un giorno dei primi di maggio 2019, al termine di una presentazione in una libreria di Rovereto, mi si avvicinò una signora. Indossava un tailleur beige di buon taglio, poteva avere settant’anni, molto ben portati.
«Lei mi ha fatto commuovere» mi disse a bassa voce, stringendomi la mano. «Tra i morti dell’attentato alla Questura di Milano c’era la mia più cara amica, Gabriella. Leggendo il suo libro ho rivissuto quei giorni terribili. È stata dura. Ma allo stesso tempo è stato bello, perché in qualche modo è come se l’assurdità e inutilità della morte di Gabriella siano state almeno in parte… compensate da questo libro. Grazie».
Grazie a lei, signora di cui, confuso dall’emozione, non mi appuntai il nome: ha trovato le parole per dire qualcosa che da solo non avrei mai avuto il coraggio di esprimere.[9]
Questo testo è la rielaborazione di un pezzo uscito nel maggio 2019 su Letteratitudine, sito creato e curato da Massimo Maugeri, che ringrazio per la disponibilità. Il titolo è una citazione del maestro del citazionismo, Umberto Eco.
Note
[1] Philip Roth, “Su Lamento di Portnoy”, in Perché scrivere? – Saggi, conversazioni e altri scritti 1960 – 2013 (Einaudi, 2018).
[2] I motivi ritengo che siano perché ebbe un numero leggermente minore di vittime rispetto alle bombe sui treni o a quelle in piazza; perché il colpevole fu arrestato in flagranza di reato, riducendo così almeno in apparenza il grado di mistero; e perché a lungo – e ancora in parte tutt’oggi – venne considerato come l’azione isolata di un cane sciolto di estrazione anarchica.
[3] I testi che mi sono serviti di più sono stati:
LIBRI
Michail A. Bakunin, Stato e anarchia (Feltrinelli, 1968).
Fulvio Bellini, Gianfranco Bellini, Il Segreto della Repubblica. La verità politica sulla strage di Piazza Fontana (Selene, 2005).
Gianfranco Bertoli, Storia di un terrorista. Un mistero italiano (Emotion/Tracce, 1995).
Giorgio Boatti, Piazza Fontana. 12 dicembre 1969: il giorno dell’innocenza perduta (Einaudi, 1999).
Orazio Carrubba, Piero Piccoli, Mariano Rumor. Da Monte Berico a Palazzo Chigi (Tassotti, 2005).
Pasquale Chessa, Guerra civile. 1943-1945-1948. Una storia fotografica (Mondadori, 2005).
Gianni Cipriani, Lo Stato invisibile. Storia dello spionaggio in Italia dal dopoguerra a oggi (Sperling & Kupfer, 2002).
Paolo Cucchiarelli, Piazza Fontana. Chi è Stato? (Nuova Iniziativa Editoriale, 2005).
Maurizio Dianese, Gianfranco Bettin, La strage. Piazza Fontana. Verità e memoria (Feltrinelli, 1999).
Gian Luigi Falabrino, I comunisti mangiano i bambini. Duecento anni di propaganda politica da Marx a Garibaldi, da Mussolini a Forza Italia (Vallardi, 1994).
Giovanni Fasanella, Claudio Sestieri, Giovanni Pellegrino, Segreto di Stato. La verità da Gladio al caso Moro (Einaudi, 2000).
Saverio Ferrari, Da Salò ad Arcore. La mappa della destra eversiva (Nuova Iniziativa Editoriale, 2006).
Sergio Flamigni, Trame atlantiche. Storia della Loggia massonica segreta P2 (Kaos Edizioni, 1996).
Antonio Franchini, Quando vi ucciderete, maestro? (Marsilio, 1996).
Francesco Germinario, Da Salò al governo. Immaginario e cultura politica della destra italiana (Bollati Boringhieri, 2005).
Aldo Giannuli, La guerra dei mondi. Le internazionali anticomuniste (Nuova Iniziativa Editoriale, 2005).
Aldo Grasso, Storia della Televisione italiana (Garzanti, 1992).
Jack Greene, Alessandro Massignani, Il principe nero. Junio Valerio Borghese e la X MAS (Mondadori, 2007).
Mario Guarino, Fedora Raugei, Gli anni del disonore: dal 1965, il potere occulto di Licio Gelli e della Loggia P2 tra affari, scandali e stragi (Dedalo, 2006).
Carlo Maria Maggi, L’ultima vittima di Piazza Fontana. Carlo Maria Maggi racconta la sua verità (Editoriale Chiaravalle, 2010).
Giuseppe Mammarella, L’Italia dalla caduta del fascismo ad oggi (Il Mulino, 1978).
G. Negri, C. Pappagallo, L’Italia negli anni Settanta (Armando Armando, 1981).
Pierpaolo Pasolini, Scritti corsari (Garzanti, 1990).
Mariano Rumor, Memorie (1943-1970) (Editrice veneta, 2007).
Andrea Sceresini, Nicola Palma, Maria Elena Scandaliato, Piazza Fontana. Noi sapevamo. Golpe e stragi di Stato. Le verità del generale Maletti (Aliberti, 2010).
Max Stirner, L’unico e la sua proprietà (Adelphi, 1979).
Paolo Emilio Taviani, Politica a memoria d’uomo (Il Mulino, 2002).
Sergio Zavoli, La notte della Repubblica (Mondadori, 1992).
Sergio Zavoli, C’era una volta la Prima Repubblica. Cinquant’anni della nostra vita (Mondadori, 1999).
ATTI PROCESSUALI
Corte di Assise di Appello di Milano (Presidente Dr. Camillo Passerini, Segretario Dr. Ferdinando Pincioni), Sentenza di Appello relativa alla strage alla Questura di Milano del 17 maggio 1973 (Milano, 2005).
Guido Salvini (Giudice Istruttore presso il Tribunale Civile e Penale di Milano), Sentenza-ordinanza nel procedimento penale nei confronti di Rognoni Giancarlo e altri (Milano, 1998).
Gianpaolo Zorzi (Giudice Istruttore presso il Tribunale Civile e Penale di Brescia), Sentenza-ordinanza nel procedimento penale nei confronti di Ballan Marco e altri (Brescia, 1993).
ARTICOLI O ALTRI MATERIALI COMPARSI SU QUOTIDIANI, RIVISTE O SITI INTERNET
Almanacco dei “Misteri d’Italia”, Strage alla Questura di Milano. Cronologia,( www.almanaccomisteri.info, 2001).
Almanacco dei “Misteri d’Italia”, Strage alla Questura di Milano, notizie del 2000-2001-2002 (www.almanaccomisteri.info, 2005).
Almanacco dei “Misteri d’Italia”, La stagione delle stragi (www.almanaccomisteri.info, 2005).
Carlo Amabile, Sul caso Calabresi (www.retedigreen.com, senza data).
Gianni Barbacetto, La penna dell’oblio, (www.societacivile.it – in massima parte tratto da Diario, 7/2/2003).
Giovanni Maria Bellu, E la Cia disse: sì al Golpe Borghese ma soltanto con Andreotti premier (la Repubblica, 5/12/2005).
Paolo Biondani, “A rischio tutti i processi sulle stragi” (Corriere della Sera, 29/9/2002).
Paolo Biondani, Il capo del Sismi fa svanire la pista dei servizi e la bomba torna anarchica (Corriere della Sera, 29/9/2002).
Paolo Biondani, Il pentito delle stragi: sarò ucciso. “Politici e 007 dietro gli attentati” (Corriere della Sera, 11/12/2002).
Maurizio Blondet, Quel terrorista venuto dal nulla (blog personale, senza data).
Camilla Cederna, “L’anarchico”: commedia in dieci quadri (L’Espresso, 2 marzo 1975).
Livio Colombo, Bombe e silenzi di Stato (Focus, 2002).
Girolamo De Michele, La strage di via Fatebenefratelli. Questura di Milano, 17 maggio 1973 (www.reti-invisibili.net, 5/9/2005).
Renato Farina, Ricordo di Bertoli, assassino bambino (www.ilnuovo.it, 30/11/2000).
Saverio Ferrari, 17 maggio 1973. Strage alla Questura di Milano (Liberazione, 28/9/2002).
Cesare Lanza, Intervista a Sibilla Melega (Sette, 7 marzo 2002).
L’Incaricato, È morto Gianfranco Bertoli (Umanità Nova, 17/12/2000).
Gigi Marcucci, Paola Minoliti, Intervista a Vincenzo Vinciguerra (Carcere di Opera, 8 luglio 2000).
Emilio Parodi, Italia, sovranità rifiutata. Processo su eversione nera e stragi: il giudice Salvini ricorda la verità negata (La Padania, 6/4/1999).
Il Piano di rinascita democratica, ritrovato e sequestrato nel 1982 alla figlia di Licio Gelli, pubblicato dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla loggia massonica P2.
Valerio Picchi, Addio a Gianfranco Bertoli, www.ilnuovo.it 29/11/2000.
La Redazione, Strage in Questura, 4 ergastoli. Il Pm: la sentenza è una carta vincente da giocare nel processo di Piazza Fontana. Condannati al carcere a vita Maggi, Boffelli, Neami e Amos Spiazzi (La Padania, 12/3/2000).
La Redazione, senza titolo (www.anarca-bolo.ch, senza data).
La Redazione, Piazza Fontana. La storia (www.clarence.com, senza data).
La Redazione, Il “Chi è Chi” di Piazza Fontana (www.clarence.com, senza data).
La Redazione, Mariano Rumor. Il Pio Doroteo, detto anche il “Pio Mariano” per i suoi “veneti miracoli” (www.cronologia.it, senza data).
La Redazione, 1945-1950 – La “grande” ABBUFFATA (www.cronologia.it, senza data).
La Redazione, Bartali, Coppi: due leggende in bicicletta (www.cronologia.it., senza data).
Mariano Rumor, Una volta Dossetti (www.dossetti.com, senza data).
Aldo Santini, Come si diventa terrorista (L’Europeo, 31 maggio 1973).
[4] Il terzo motivo che mi spinse a usare i nomignoli, forse, era quello di limitare le grane, giudiziarie o di altro tipo. In ogni caso, visto che il capitolo finale del romanzo (Futuro anteriore), tratteggiando i destini reali di quei personaggi, in qualche modo svela le carte e permette una facile identificazione, e che in questi anni molti lettori – aiutandosi con Dio-google – sono facilmente giunti a capire chi-è-chi, ecco chi sono le persone da cui ho tratto ispirazione per creare i principali personaggi immaginari presenti nel romanzo: Mariano Rumor (il Pio), Carlo Maria Maggi (il Dottore), Carlo Digilio (Zio Otto), Marcello Soffiati (Marcellino), Domenico Siciliano (Falstaff), Delfo Zorzi (il Samurai), Franco Freda (l’amico Fritz), Francesco Neami (il Triestino), David Carret (The Captain), Giovanni Ventura (il Barba), Gianfranco Bertoli (l’anarchico senza nome: “tu”), Alcide De Gasperi (il Vecchio), Vincenzo Vinciguerra (Vincent), Giuseppe Dossetti (il Prete).
[5] Philip Roth, “In risposta a chi mi ha chiesto: com’è che sei arrivato a scrivere quel libro?”, in Perché scrivere? (op.cit.).
[6] Per l’appunto due volte proprio ad Haifa (dove si svolgono un paio di scene del romanzo) con l’Osvaldo Soriano Football Club, alias Nazionale di calcio degli scrittori italiani.
[7] Attesi fino all’ultimo per intercettare eventuali novità biografiche o giudiziarie dei protagonisti.
[8] Devo questa osservazione a Sara Zucchini, finissima editor.
[9] Le vittime dell’attentato alla Questura di Milano del 17 maggio 1973 furono Giuseppe Panzino (63 anni), Felicia Bartolozzi (60 anni), Federico Masarin (30 anni) e Gabriella Bortolon (23 anni). I feriti furono cinquantadue.
Valerio Aiolli vive a Firenze, dove è nato nel 1961. Ha pubblicato una decina di romanzi, tra i quali il primo, Io e mio fratello (E/O 1999, Premio Fiesole) e l’ultimo, Nero ananas (Voland 2019, Premio Librinfestival), sono stati candidati al Premio Strega. Suoi racconti e contributi sono apparsi su diverse riviste e antologie. Collabora con la redazione fiorentina di Repubblica. www.valerioaiolli.it