Visioni, avventure e passioni nell'arte contemporanea – Sergio Tossi
Sergio Tossi - inventandosi una scintillante “Domestic Gallery” - diventò rapidamente nei favolosi anni Ottanta di Firenze uno dei principali animatori dell'arte contemporanea in città. Da allora non si è più fermato: negli anni Novanta ha aperto e diretto due grandi gallerie a Prato, nel decennio successivo ne ha aperta una Firenze, ritagliandosi un ruolo importante nel panorama dei galleristi italiani più creativi ed innovativi dell'epoca.
Ha sempre giocato su tavoli paralleli : per un periodo è stato anche direttore dello spazio espositivo fiorentino Ex 3, ha sempre coltivato curiosità da attento collezionista, ha svolto un'attività di talent scout appassionato. Lucido osservatore delle varie tendenze artistiche in atto, nutre speciale predilizione per la pittura e la fotografia. Lo abbiamo incontrato per ricostruire le principali tappe della sua attività passata, ma al tempo stesso lo abbiamo anche sollecitato a raccontarci le sue opinioni a proposito dei più recenti sviluppi dell'arte di oggi.
STEFANO LORIA: Non nascondiamo ai nostri lettori che ci conosciamo da veramente molto tempo, quindi abbiamo ben presente le differenti fasi della tua lunga attività dentro il mondo dell'arte contemporanea. Cominciamo dall'inizio della tua esperienza: da quella Domestic Gallery che nella Firenze degli anni Ottanta fu senza dubbio un successo, perché rappresentò una maniera intelligente e fresca per rinnovare il rapporto fra opere esposte e pubblico. Eravamo d'altra parte in un periodo storico che per l'ambiente fiorentino ha rappresentato un momento di grandissima vitalità, non solo nelle arti figurative, ma anche nella scena musicale e teatrale.
SERGIO TOSSI: Gli anni ottanta (ah, gli anni ’80 !) hanno rappresentato per me l’ingresso nella vita di città, dopo un lungo periodo passato in provincia (il valdarno montevarchino) con Firenze come luogo di estemporanee meraviglie in escursione. Teatro, mostre, concerti, soprattutto concerti, e vita universitaria come pendolare perenne. D’altra parte ero e sono rimasto molto legato alla provincia, agli amici del liceo, alla mia squadra di basket, alla radio privata in cui avevo lavorato nel decennio precedente. Venire a vivere ed a lavorare in città è stato solo l’ultimo stimolo per provare a “partecipare” ad un contesto culturale maledettamente attraente. Così decisi di dare una mano ad alcuni amici artisti, incontrati e conosciuti nel pieno del fermento creativo fiorentino, tra Tenax, Manila, Salt Peanuts, spazi “misti”, parrucchieri alternativi che ospitavano mostre, sfilate di moda nelle fabbriche abbandonate, il miglior teatro d’avanguardia d’Italia con, per dire, i Magazzini Criminali e Krypton, tutto incrociato con il rock, il dark, la new wave “à la florentine”. Così capitò che organizzando le prime mostre nella Domestic Gallery, il mio appartamentino di via Maggio si trasformò in un crocevia di personaggi, come si direbbe oggi, della cultura alta e della cultura bassa. Mi piaceva da morire questo ruolo da outsider del mondo dell’arte di cui conoscevo il minimo indispensabile ma di cui ignoravo (beata incoscienza) le meccaniche critiche ed economiche. Diciamo che mi basavo su un certo intuito e su un’innata attitudine alle dinamiche di gruppo. Non a caso usavo le stesse (poche) qualità per fare (piuttosto bene) l’allenatore di basket. Insomma, per non tirarla troppo per le lunghe, ci fu un discreto interesse verso quell’esperimento di vita/galleria che mi spinse, ad un certo punto, a lasciare il mio tranquillo posto di lavoro da buyer nella sede italiana di un gruppo americano e lanciarmi verso una carriera (non irresistibile) da gallerista “vero” .
SL: Dopo le mostre allestite nella tua abitazione privata, per avviare una attività di gallerista vero e proprio che gestisce uno spazio espositivo anche guardando alle possibilità del mercato, hai scelto Prato, città distante solo pochi chilometri dal capoluogo toscano ma differente per mentalità degli abitanti e disponibilità verso le novità culturali. A Prato hai diretto – in anni immediatamente successivi - due gallerie, spazi diversi per grandezza ma non per il tipo di artisti selezionati. Raccontaci questa tua dinamica fase pratese.
ST: Vanno ricordate, credo, prima dell’apertura della prima galleria a Prato, due esperienze importanti, almeno per me. La prima fu l’utilizzo di una vecchia filanda in provincia di Arezzo, a Pieve a Presciano, di proprietà del mio amico Arturo Ghezzi, per l’organizzazione di alcune mostre e di un workshop internazionale. Il posto è meraviglioso, un corpo fabbrica di inizio secolo in mezzo ad un’architettura colonica, di fronte a campi aperti circondati da colline boscose. Oggi in quei campi, Arturo ha realizzato un piccolo aeroporto (ognuno ha le sue passioni), mentre nell’edificio l’artista Luca Pancrazzi ha ospitato anni fa altre attività espositive molto interessanti. A me l’ispirazione l’aveva data il magnifico evento che Luciano Pistoi organizzava annualmente al Castello di Volpaia, nel Chianti. Purtroppo non avevo né le conoscenze né le possibilità economiche del grande gallerista torinese, però qualcosa di buono ed interessante riuscii a farlo anch’io e per 2/3 anni feci un bell’avanti e indietro tra Firenze e Pieve a Presciano, con grandi soddisfazioni e notevoli perdite di denaro. Ma chi se ne fregava, ero ancora abbastanza giovane! La seconda esperienza, in qualche modo sovrapponibile alla Domestic Gallery ed alla Fabbrica di Seta, fu quella dello spazio viennese dei Neues Atelier Siebenbrunnengasse, dove portai alcuni artisti fiorentini (di nascita o di residenza) come Franco Ionda (che soddisfazione vederlo esporre a palazzo Pitti nei mesi scorsi !), Maurizio Pettini, Francesco Torrini (grande talento che ci ha lasciato troppo presto), Andrea Mizzau, Anita D’Orazio. Fu un periodo fantastico, di grandi discussioni, grandi aspettative e, ad essere sinceri, anche e soprattutto di grandi bevute. Ma lo spazio viennese era bellissimo (un piano di una vecchia caserma) e contribuì non poco ad aumentare la determinazione a continuare l’avventura nel mondo dell’arte contemporanea. Così si arriva finalmente, 1992, alla prima vera galleria, a Prato in via Calimara, nei locali presi in affitto da Alessandro Poli (uno dei membri dell’ultimo Superstudio, mitico gruppo di architettura radicale, per dire di com’era centrale Firenze in quegli anni). Tanto entusiasmo e pochi soldi (come sempre, rimarrà una costante, mi son perso gli anni in cui i galleristi facevano i milioni). Però intanto mi ero fatto un po’ di gavetta, e avevo scelto Prato per due principali motivi: la presenza stimolante del recentemente aperto Museo Pecci con il suo vulcanico direttore Amnon Barzel, poi diventato buon amico, il quale aveva appena passato la mano all’altrettanto estrosa Ida Panicelli, ed il significativo numero di collezionisti di cui si favoleggiava nei discorsi tra noi nuovi adepti al mondo dell’arte. Scoprii poi che molti di questi ormai preferivano per i loro sontuosi acquisti la scena newyorkese e che una galleria giovane dedita al lancio di nuovi artisti non era in cima alle loro preferenze. Ma, insomma, qualcuno si lasciò attrarre e qualche risultato arrivò insieme ad un po’ di vendite. Organizzai molte mostre in quella prima fase, tanti artisti si proponevano, io affinavo le mie scelte, o almeno credevo di farlo. Un bel ricordo, fra i tanti, la mostra “Verso Bisanzio con disincanto”, una panoramica su quella che il critico e direttore di Tema Celeste, Demetrio Paparoni, chiamava astrazione ridefinita con un testo in catalogo di Elio Cappuccio. C’erano artisti del calibro di Peter Hally, Juan Uslè, David Row, Sean Scully. Una goduria per gli occhi, se mi permettete. Mi aiutò molto a farmi conoscere alla prima ArteFiera di Bologna a cui partecipai e dove ebbi la fortuna di allargare, almeno a livello italiano, la cerchia di appassionati che avrebbero seguito, chi più chi meno, il mio lavoro. Apro una parentesi per dire, a proposito del catalogo di cui sopra, che ho sempre dedicato tante energie, attenzioni e risorse finanziarie alla loro pubblicazione, ritenendoli importanti quasi quanto le mostre stesse, contenendone la memoria e quindi in qualche modo prolungandone la vita. Di contro hanno rappresentato una piccola sciagura economica avendomi prosciugato, insieme alle pubblicità sulle riviste specializzate, ogni guadagno ottenuto faticosamente dalle vendite dei lavori degli artisti. Nonostante questo, ad un certo punto della storia, decisi di raddoppiare e affittai un capannone ai margini del centro di Prato, appena ristrutturato, facendomi aiutare, per le finiture, dall’architetta Lorella Zappalorti. Non voglio qui peccare di falsa modestia, perciò dichiaro orgogliosamente che, per quegli anni, ovvero la seconda metà dei ’90, la Sergio Tossi Arte Contemporanea di via Nistri era una delle più belle gallerie d’Italia, spesso paragonata, non da me, a spazi berlinesi o americani, per i volumi ed il disegno dei tre livelli di cui era composta. Cercai anche di alzare la qualità delle mostre, alternando la presentazione di giovani artisti a nomi di livello internazionale (vado a memoria veloce, tra gli altri : Manuel Ocampo, Robert Yarber, Herbert Hamak). Arrivarono i primi affezionati collezionisti, inevitabilmente con molti diventai amico, perché alla fine la passione accomuna, ma devo ammettere che molte aspettative sulla piazza pratese andarono deluse. Forse ero arrivato con qualche anno di ritardo sul boom dell’arte contemporanea, forse non ero in linea con la schietta e un po’ sopra le righe esuberanza dei pratesi. Ricordo però con affetto una mia gaffe all’apertura ufficiale della prima mostra nella nuova galleria: c’era un signore molto distinto, silenzioso, che si era dilungato nella visita della mostra, poi si era seduto nell’unica poltrona dell’ufficio, così che, pensando ad un potenziale cliente, lo avvicinai chiedendogli se aveva bisogno di informazioni e se fosse di Prato. Lui mi guardò sorridendo, con gentilezza, e mi rispose che sì, lui era di Prato, per la precisione era il sindaco di Prato….
SL: Con gli anni duemila, il ritorno a Firenze. L'apertura di una grande spazio nella zona di Porta Romana. Qui hai avuto la possibilità - era una enorme fabbrica – di esporre opere anche di grandi dimensioni, e di realizzare progetti di ampio respiro. Riscostruiamo le linee essenziali, le suggestioni che ti guidavano in quegli anni di lavoro intensissimo.
ST: Anche a Firenze, ebbi la fortuna di scovare uno spazio interessantissimo, di origine industriale, molto simile alla galleria di Prato. Su un livello la galleria vera e propria, al piano superiore il magazzino ed un paio di studi per artisti, uno dei quali occupato da Max Rohr, una specie di fratello minore con cui ho condiviso mostre, musica, bevute ed estati nel suo maso sull’altipiano del Renon. La mostra inaugurale, all’inizio del nuovo millennio fu però un’esposizione suggestiva di una dozzina di grandi lightbox di Matteo Basilè, un altro dei compagni abituali di questi miei ormai lunghi anni di viaggio in questo mondo. Poi tante altre avventure, come quella con il gruppo della cosiddetta Nuova Scuola di Palermo (Alessandro Bazan, Francesco De Grandi, Fulvio Di Piazza ed Andrea Di Marco, quest’ultimo tragicamente scomparso lasciandomi un dolore immenso), o quella con l’artista e poeta fiorentino Stefano Loria (casualmente uno degli estensori di questa intervista…), e Giacomo Costa, Paolo Fiorentino, Arash Radpour, il duo “digitale” Marotta & Russo, e molti molti altri. Sempre provando a sfruttare le peculiarità dello spazio per la presentazione migliore delle opere e cercando di restituire al pubblico una certa idea di “ospitalità” sincera e non ostentata. Mi è sempre piaciuto così, fin dai tempi della Domestic gallery, anche un po’ in alternativa ad un mondo snob che, diciamolo, l’arte contemporanea si porta dietro.
SL: Una tappa molto significativa del tuo percorso è stata la direzione di Ex3, uno spazio pubblico per le arti contemporanee creato nel 2009 dal Comune di Firenze. Un progetto prezioso purtroppo durato pochi anni. Un'esperienza vissuta insieme a due ottimi collaboratori (Lorenzo Giusti e Arabella Natalini), articolata secondo una visione internazionale molto stimolate, con vari episodi – mostre ma anche eventi musicali – che restano impressi nella memoria di chi li ha vissuti come appuntamenti indimenticabili.
ST: Ovviamente Stanza 251 sa che questa è una ferita ancora aperta. Mi riferisco alla chiusura di quello spazio straordinario che ho avuto l’onore di dirigere per un triennio. E’ stata comunque una fase importantissima del mio percorso, assumendo un nuovo ruolo, stavolta pubblico, e decidendo quindi di lasciare la galleria per ovvie ragioni di opportunità. Chiamiamole “conflitti d’interesse”. La maggior parte delle mostre sono state curate da Arabella e Lorenzo, ma mi ascrivo il merito di aver impostato l’attività del Centro EX3 rendendolo, a dispetto di opinioni inizialmente dubbiose, un luogo di aggregazione, di scambio culturale, di ospitalità ad altre “arti” (musica, teatro, architettura, letteratura etc). Purtroppo la crisi economica, il venir meno di certe risorse, ne hanno decretato la fine. Restano in mente mostre memorabili come quelle di Julian Rosefeldt, di Charles Avery, o la collettiva Suspense sul rovesciamento del senso di scultura. E spettacoli indimenticabili : Laurie Anderson, Moni Ovadia, il sublime ed inaspettato act di Bill Frisell e Don Byron, organizzato in tre giorni, con un palco di 4 metri per 4, una piantana alogena come unica luce di scena e lo sfondo dei cinque schermi del film di Julian Rosefeldt. Ma anche cinquecento persone entusiaste e perfino commosse per quei magici suoni. A Frisell piacque molto aver suonato con lo sfondo di Rosefeldt (era davvero perfetto, va detto), ma quando venne a ringraziarmi (cioè, Lui ringraziava me..) ero all’apice della felicità. Intorno a questi eventi, diciamo così, speciali, la soddisfazione è venuta dalle mille iniziative collaterali, dagli incontri organizzati con architetti, con industriali mecenati (dio li conservi!), con tanti studenti, con le università americane, con l’Accademia di Belle Arti, e i concerti di jazz, rock, blues, ed il premio Toscana Contemporanea e, e, e… Fu, a mio parere, ed a prescindere dalla mia direzione, un vero delitto lasciarlo morire. Ma così va il mondo. Amen.
SL: Arriviamo al presente. Diamo per scontata la coesistenza di tanti linguaggi differenti – pittura, fotografia, scultura, installazioni, ecc.- tutti ormai collocati sopra una medesima linea di orizzonte. Anche gli stili espressivi si offrono oggi uno accanto all'altro, senza soluzione di continuità: composizioni astratte, altre opere che mantengono elementi figurativi, installazioni di ogni genere, lavori neo-concettuali, oppure altri oggetti ibridi di provocante splendore che assomigliano molto a campagne pubblicitarie commerciali...insomma, tutta quella complessa e rutilante mescolanza di piani mentali e visivi che oggi incontriamo aprendo una applicazione sul nostro smartphone. Come ti orienti in questa foresta di immagini ed informazioni estetiche?
ST: Posso essere sincero fino in fondo ? Ho rinunciato ad orientarmi. Sono sempre attratto da ciò che gira di nuovo anche se a volte mi pare che si spacci per nuovo ciò che qualcuno ha ormai sperimentato anni, decenni, addietro. Il discorso è ovviamente lungo e, nonostante la mia lunga militanza nel mondo del contemporaneo, non posso ritenermi un “critico”. Alla critica italiana imputo però, con le dovute eccezioni, una mancanza di profondità e di chiarezza, sia nelle idee che nel linguaggio. Anche una insopportabile esterofilia o, se volete, la sudditanza verso quello che qualcuno, non ricordo chi, ha definito il “superstile internazionale”. Mi pare che molti siano ancorati al tentativo di entrare nella lobby che conta. Vale per i critici, ma vale anche per artisti e galleristi. L’eccesso di calcolo, la strategia, annullano la passione e le emozioni che le opere possono ancora dare. Spero di non essere troppo fumoso. Pittura e fotografia restano ancora in cima alla mia playlist artistica. La scultura sta riguadagnando posizioni, installazioni e “site specific” mi deludono spesso, ma so che non bisogna mai fare di ogni erba un fascio. Ci sono artisti “concettuali” di grande valore, ma la cosiddetta arte concettuale è spesso fuffa. Diciamo in alta percentuale. Forse non la capisco ma ho smesso di provare a spendere tempo e fatica per capirla. Cerco ancora l’emozione in un’opera, lo stupore e la delizia. Anche il pugno nello stomaco, certo. Continuo a pensare che la pittura, la buona pittura ovviamente, sia ancora la più concettuale delle forme d’arte. Della pittura mi piace il suo essere imperfetta, sempre. Perché la perfezione è maledettamente noiosa. E in fondo, anche i pittori minimalisti (I love Ellsworth Kelly, miei cari) sono solo in cerca di quella perfezione che non potrà essere raggiunta, ma quel tentativo, quello sì, è affascinante. Comunque amo la pittura in quasi tutte le sue declinazioni. Vedo però che alle fiere d’arte torna a vedersene tanta. Mi piace molto quella tendenza a far convergere figurativo ed astratto, o la narrazione sincopata, come, ad esempio, in Neo Rauch e negli artisti della scuola di Lipsia. E mi fa molto piacere che ci sia in corso a Firenze una mostra ubiqua di Jenny Saville, una delle mie preferite, tra le ormai superstar, insieme a Cecily Brown. Le ho scoperte molti anni fa, provai pure a suggerirne l’acquisto a qualche amico collezionista che oggi si maledice per non averlo seguito, quel consiglio. Ma mi piacerebbe sapere cosa ne pensava allora, primi anni duemila, qualche direttore di museo che adesso le esalta e che in quel periodo schifava qualsiasi cosa, a prescindere, su una tela dipinta. Che fossero capolavori era ininfluente, la pittura era morta, inadeguata, dicevano. Ma sarò io che mi ricordo male, forse.
Mi resta anche una grande passione, e curiosità, verso la fotografia. Ma chi non la ama? Solo gli stolti o gli insensibili o quelli che si sentono fotografi e ne infangano la reputazione. Una volta ho intervistato, per La Repubblica, il grande Frank Horvat. Da anni, mi raccontava, fotografava quasi solamente con una macchinetta di quelle digitali portatili che si tengono con una mano. Mi fece vedere i risultati ed erano immagini straordinarie, che noi umani ci sogniamo di poter fare, altroché. Come si dice, la classe non è acqua. Qualche giorno dopo l’intervista Horvat mi fece avere un mio ritratto fatto durante la conversazione, dello scatto neanche me n’ero accorto. Ecco che era arrivato un altro di quei momenti di piccola (piccola?) felicità di cui è costellato questo mio instabile percorso.
Anche Alberto Conti (il grande Alberto Conti) mi ha fatto un ritratto. Risulto molto meglio di come sono in realtà e ormai uso quell’immagine per propagandarmi su social e compagnia. L’ennesima dimostrazione che fotografi “seri” o si è, o è meglio limitarsi al selfie sul Ponte Vecchio.
SL: Ancora sulla situazione presente. Come giudichi l'influsso che i social media esercitano sulla fruizione delle opere di arte contemporanea? Facebook, Instagram, Twitter, finiscono per orientare gusti e curiosità del pubblico, mentre il ruolo della critica d'arte - un tempo fondamentale - in Italia pare oggi assai ridotto rispetto al passato, forse addirittura irrilevante poiché destituito di autorevolezza. A fronte della moltiplicazione di siti internet dedicati all'arte contemporanea - che in genere giocano sulla velocità di un commento superficiale – si avverte la mancanza di un dibattito critico più approfondito sul significato e sul valore delle opere proposte. Che opinione hai di questi fenomeni ?
ST: Non vorrei sembrare lapidario, ma credo che i social abbiano un influsso nefasto sulla fruizione dell’arte. Diciamo che per una divulgazione semplice ed immediata, nel senso di “dare notizia di”, possono anche essere utili. Ma Il problema è l’appiattimento delle immagini, La falsa idea che non vi sia bisogno di vedere l’opera dal vivo. Molti credono di conoscere il lavoro degli artisti attraverso un post, ma niente può sostituire l’impatto dell’opera originale vissuta in presenza. Questione di tatto, di vista, di dimensioni, di materia, se c’è. Ma anche se non c’è, non sarà mai la stessa cosa. E purtroppo tutto diventa superficiale. Non è solo un problema dell’arte, come vediamo in questi giorni. La facilità di fruizione, scatena la falsa competenza. Un disastro. Ma d’altronde si può farne a meno? Boh.
Sulla mancanza di dialogo ed approfondimento critico ho già detto qualcosa nelle precedenti risposte. Forse mi perdo qualcosa del dibattito, sono un lettore pigro e devo lasciarmi del tempo per la Gazzetta dello Sport, ma effettivamente sembra che langua. O meglio, tutto è spezzettato, ognuno va per la sua strada in fondo evitando il confronto, ovvero l’unica via per arrivare alla sintesi. Poi come si diceva prima, l’arte contemporanea ha preso strade con presupposti teorici diversi, molti critici non partono dall’analisi dell’opera ma costruiscono eventi per gratificare le loro idee con grande spregio, a mio modestissimo parere, del lavoro degli artisti. Molti dei quali, anche questo va detto, si lasciano strapazzare a piacere pur di guadagnarsi un posto alla tavola imbandita del mercato. Per molti quest’ultimo resta un’araba fenice, un sogno nebbioso, e nel frattempo hanno perso dignità. Son troppo cattivo ?
SL: Per concludere questa intervista ti facciamo una domanda che avrebbe potuto essere collocata all'inizio di tutto il nostro discorso. Hai sempre avuto la capacità di coinvolgere un ampio pubblico nelle tue iniziative, attraverso tanti anni di attento lavoro e con differenti modalità operative. Dal tuo punto di osservazione, oggi è più facile o più difficile proporre arte di qualità rispetto al periodo in cui cominciasti la tua attività ?
ST: Non so. Di sicuro è più difficile trascinare le persone in galleria. In parte per le ragioni di cui alla domanda precedente (“non c’è bisogno che vada, ho già visto tutto su Instagram”). Il trucco resta quello di organizzare inaugurazioni con un buffet imperiale! Scherzo, dài, ma in fondo mica tanto. Come ho suggerito ad un’amica gallerista, bisognerebbe piazzare il buffet in fondo alle sale e consentirne l’accesso solo a chi abbia comprato, non dico un quadro, ma almeno un catalogo. Però, seriamente, il senso della domanda era forse un altro. Difficile dire il grado di qualità di quello che si presenta, ognuno può avere una sua opinione in proposito. Ma la ricerca, se accompagnata dal dialogo con l’artista, con i critici, ed anche con gli amici collezionisti, darà sicuramente frutti. E’ un lavoro lungo, faticoso, e costoso. Ma di bravi artisti ce ne sono sempre molti. Qualcuno malato di arte che vorrà riempirsene la casa, anche. Ci vuole coraggio e determinazione. Da parte mia ho ancora qualche sorpresa in serbo, riparliamone tra qualche mese.