Stefano Daffra - Poeti anglofoni dell'Africa occidentale
“Camminammo in mezzo ai morti e a gente appena uccisa. Eravamo costretti a stare in pozze fangose, a vedere i ribelli uccidere. […]. Mi porto dietro un mondo di fantasmi. I fantasmi di coloro che sono stati massacrati nel mio paese. E i fantasmi di tutti i massacrati in guerre insensate. Ciò non mi ostacola, mi ispira e dà energia. Quel che mi spinge è dare voce a chi non è sopravvissuto. Scriverò di guerra finché vivo”. Lo raccontava in una intervista a Esther Belin pubblicata dal sito nordamericano Poetry Foundation il 28 giugno 2022 una poetessa nata in Liberia nel 1955, Patricia Jabbeh Wesley. In quella conversazione l’autrice ricostruiva tra l’altro le sue esperienze durante la prima guerra civile liberiana che tra il 1989 e il 1997 ha causato oltre mezzo milione di morti, quando è scampata per un soffio alla morte fuggendo di casa con marito e i primi tre figli, quando ha trovato riparo in un campo profughi, quando ha potuto emigrare negli Stati Uniti dove ha ripreso il lavoro di professoressa universitaria.
Perché citare la poetessa liberiana? In primo luogo perché il continente subsahariano ha produzioni letterarie coi fiocchi, frutto di culture e lingue diverse come hanno chiarito bene Igiaba Scego e Chiara Piaggio nelle due antologie uscite nel 2021 e nel 2024 da Feltrinelli con il titolo Africana; seconda di poi, quei territori hanno generato pagine in grado di parlarci anche del nostro continente come di ogni conflitto. Nella parte conclusiva della poesia Bambino di guerra, tratta dalla raccolta del 2003 Becoming Ebony, Patricia Jabbeh Wesley vede un “bimbo morente” mentre la madre non può rivelare al padre lì presente, un militare, che quel figlio è nato da uno stupro di guerra:
“Quando tutti i veri uomini
erano partiti per la guerra e le donne furono lasciate
a guardare i razzi che cadevano, a vedere i figli morire
di kwashiorkor o di morbillo, a vedere che tutto
va in fumo, e poi nella quiete, quando faceva
troppo freddo per aspettare, i commando presero le donne
di mattina presto e di sera, la parte incruenta
della guerra civile si insanguinava.
A terra il bambino morente si contraeva, l’alluce
si contrasse, si mosse un dito. Non era giusto che un figlio di guerra
se ne andasse così, davvero.”
Magari sarà utile spiegare che il kwashiorkor è un termine di origine ghanese e descrive un grave stato clinico provocato dalla denutrizione e dalla mancanza di proteine. Questi versi non mantengono tutta la loro tragica urgenza? Al contempo ci consentono di passare a versi legati a uno spartiacque nella storia dell’Africa occidentale: la guerra civile del Biafra combattuta in Nigeria dal 1967 e nel gennaio del 1970. Andando per sommi capi, le provincie della Nigeria sud-orientale di etnia igbo si autoproclamarono una repubblica indipendente, si ribellarono con le armi, furono sconfitte. I morti superarono il milione, per la gran parte civili, uccisi dalla fame o dalle malattie. Chi viaggia almeno sui 60 anni ricorderà forse qualche telegiornale: quella del Biafra fu tra le prime guerre raccontate in tv.
Agguanta bene gli effetti di quel conflitto la poesia Una madre in un campo profughi del nigeriano Chinua Achebe (1930-2013), autore nel 1958 del romanzo-caposaldo delle moderne letterature africane Things Fall Apart, tradotto da noi sia con il titolo Il crollo che Le cose crollano. In quel testo dalla raccolta Beware, “Soul Brother” Achebe ritrae una donna in un campo profughi “greve per gli odori della diarrea”, abitato da bambini “con le costole scavate / e i sederi disidratati”, dagli “stomaci rigonfi”.
“Nessuna Madonna con Bambino poteva eguagliare
La sua tenerezza per un figlio
Che dovrà presto dimenticare.”
Finché l’autore non chiude così il testo:
“Dal fagotto dei suoi averi raccolse
un pettine rotto e pettinò
i capelli rugginosi rimasti sul cranio
e, canticchiando con lo sguardo, prese
a ripartirli con cura.
Forse nella loro vita precedente
quello era un piccolo gesto quotidiano senza importanza
prima di colazione e della scuola; adesso lo compiva
come se stesse posando fiori su una piccola tomba.”
Quella profuga non ricorda una Pietà cristiana, come suggerisce lo stesso Achebe scrivendo di una “Madonna”? Conferma il confronto il poeta e traduttore Roberto Mussapi quando parla di Pietà nere nella quarta di copertina della raccolta dello scrittore Attento, “Soul Brother”, uscita in Italia nel 1995 per Jaca Books.
Il dolore di quella donna può fare il paio con la protagonista di Un pianto nella notte. La sepoltura di un nato morto, poesia composta da Wole Soyinka, drammaturgo, saggista, romanziere, polemista, poeta nato in Nigeria nel 1934, primo Nobel africano nel 1986. Il testo, tratto dalla raccolta Idanre del 1967 e incluso in Selected Poems del 2001, tra l’altro recita:
“Privo di stelle che le accarezzino il lamento
Il cielo si ritrae dalla pena
Né questa notte nel buio
La proteggerà. Arida la sfida
Arretra, il cielo non può contestare
Le cicatrici, riversare antiche scaglie
Per provare che ne condivide il tormento.
Uno stelo così tenero si seppellisce
In fretta.”
Un lutto materno così lancinante non fa pensare a quante madri tentano di fuggire da fame, violenza, soprusi, stupri? A quante madri vedono i propri figli morire di povertà, come accade probabilmente in questi versi, o di stenti provocati da una guerra? Soyinka interpreta quel lutto senza cadere nella retorica così come demolisce ogni retorica militarista una poesia di Ken Saro-Wiva, saggista e attivista nigeriano, occasionalmente poeta, impiccato 44enne nel 1985 perché oppositore dal regime militare di Sani Abacha. Prendiamo alcuni versi di Se tu fossi stato là, dalla raccolta del 1985 Songs in a Time of War.
“Se tu fossi stato là e avessi visto sporgere
In superficie dalla tomba sabbiosa
Come un’implorazione
I palmi ossuti del soldato sotto le bombe,
Non sorrideresti tanto ai resoconti radio
Su vittorie e battaglioni maciullati.”
Chissà, magari a qualcuno quei versi evocheranno “war poets” inglesi come Siegfried Sasson e Wilfred Owen che, visto di persona il macello della prima guerra mondiale, ne demolirono i discorsi retorici. Può forse evocare proprio Owen una poesia dal linguaggio immaginifico che è stata interpretata anche come un presagio della guerra del Biafra, Vieni tuono: l’ha scritta nel 1966 il poeta nigeriano di etnia igbo Christopher Okigbo, il quale verrà ucciso appena 35enne nell’estate del 1967 mentre combatteva tra le forze ribelli in quel medesimo conflitto. La lirica, ripresa da The Penguin Book of Modern African Poetry del 1998 curato da Ulli Meier e Gerald Moore, nella prima parte dice:
“Ora che la marcia trionfante è arrivata agli ultimi angoli della strada,
Rammentate, danzatori, il tuono fra le nubi …
Ora che la risata, spezzata in due, pende tremula fra i denti
Rammentate, danzatori, il lampo oltre la terra …
Il puzzo del sangue già fluttua nel vapore di lavanda del pomeriggio.
La condanna a morte è in agguato nei corridoi del potere;
E qualcosa di grosso e pauroso già tira i cavi dell’aria aperta,
Una nebulosa immensa e smisurata, una notte di acque fonde –
Un sogno di ferro anonimo e impubblicabile, un sentiero di pietra.”
Che sia o meno un presagio del conflitto del Biafra, cambia poco: con “il puzzo del sangue” Okigbo evoca la concretezza disgustosa di ogni evento bellico e che i suoi versi, nel contenuto, non rappresentino niente di nuovo rende il discorso ancor più amaro, ancor più vicino.
Stefano Daffra (Firenze, 1959) lavora come libero professionista in campo editoriale. Le poesie sopra citate sono riprese da un Dove la notte canta al giorno. Poesie in inglese dall’Africa occidentale e dalla diaspora: è un lavoro inedito focalizzato su testi di più autori e autrici che hanno pubblicato dal periodo post-coloniale, ovvero dagli anni ’60, fino all’alba del XXI secolo. Una sintesi di queste traduzioni e curatela è stata presentata alla libreria Griot di Roma nel marzo 2024 di cui ha scritto Valeria Verbaro sul sito di Hollywood Reporter Roma (https://www.hollywoodreporter.it/arte/letteratura/poesia-anglofona-africa-occidentale-wole-soyinka-chinua-achebe/98949/)