Black Carnaval
In esclusiva per i nostri lettori, tutti i testi letti in occasione della serata gotica "Black Carnaval", che si è svolta il 12 febbraio alla libreria Black Spring di Firenze.
Diabolika - Matthew Licht
Benché non fosse prodigo di complimenti, il maestro d’italiano alle medie sosteneva che nel disegnare le lettere ero più abile di lui, che si dilettava di calligrafia, grafica e tipografia. Il tuo nero è fortissimo, sosteneva. Come fai?
Con grande pazienza, risposi. Non gli svelai, però, il segreto. Bisogna agitare, scuotere e shakerare il calamaio per almeno una mezz’ora prima di intingervi pennini e pennelli. Meno di trenta minuti, e le sostanze nere imprigionate nel gommoso liquido di conserva rimangono verso il fondale, come lugubri anguille senza occhi.
Tenacia e polso sciolto sprigionavano questi mostri dalla loro nativa oscurità. Un giorno, forse per eccesso di zelo nel voler stendere una versione calligrafica della poesia che avevo sofferto e faticato per scrivere, una sensazione simile alla stitichezza, feci cascare il calamaio sul foglio col quale avevo voluto fare bella figura. Di quei versi originali che mi stavano a cuore non rimasero che un’oscena pozzanghera di catrame. La migliore carta che offriva il cartolaio del quartiere la bevve assetata. Rimasi sconvolto, forse addirittura impazzii. Presentai il foglio al maestro. Eccola, la mia poesia, gli dissi.
Erano gli anni della pop art, dell’astrazione espressionista o l’espressionismo astratto, quelle stronzate lì. Il maestro appese ciò che sembrava il ritratto di una melanzana matura tenuta in grembo da un bonzo Zen con le poesie degli altri. Anzi, lo pose al centro. Il primo della classe disse: mi arrendo, ora le sbrodolate valgono più della poesia. Il bullo della classe pensò: ganzo, da ora in poi anziché fare i compiti, cagherò nel quaderno.
Lo fece davvero. Il maestro lo bocciò con estremo pregiudizio. Il bullo diede la colpa a me, e mi pestò a dovere davanti a tutti. Come colpo di grazia, mi versò un calamaio sulla faccia. Divenni un negro. Vidi il mondo da una prospettiva completamente diversa. Capii che non tutti sanno apprezzare il nerore.
Marinai la scuola perché mi chiamavano Faccetta Nera. Fu in una di quelle giornate di libertà indesiderata che incontrai per la prima volta il diavolo.
Non è nero, il diavolo. In realtà è più bianco della neve, della panna, passate dentro la candeggina. Era un pomeriggio di inizio primavera. Gli alberi dei parchi non erano ancora scoppiati in gemme. Si sentiva il respiro delle montagne, un’aria decisamente poco infernale. Girellavo senza meta in centro. Rispecchiavo la mia nuova negritudine nei finestrini delle macellerie, dei negozi di moda e delle gallerie di antichità. In una di queste, vidi riflesso un signore dai capelli lunghi e biondi, vestito di lino bianco. Colto da un raptus della mia componente di frocio, lo seguii.
A Piazza dello Statuto, l’aristocratico vichingo si voltò e mi invitò a prendere un caffè con lui anziché pedinarlo da detective incompetente. Non aveva l’aria di tollerare rifiuti.
Ci sedemmo sul terrazzo di un pretenzioso caffè, di cui Torino è colma. Apparve lesta una cameriera in minigonna, che allora non si usava tanto, col vassoio carico. Il signore elegante e immacolato non le fece caso. Benché non avessimo ordinato nulla, la cameriera ci aveva portato due caffè e un mucchio di bignè ripieni di crema chantilly.
Avrei preferito una cioccolata calda, ma non osai obbiettare davanti al candido signore che mi fissava.
“Sei poeta,” disse. “La poesia non è il mio genere, ma ammiro la spontanea bellezza.”
Stavo per ribattere che avevo scritto una sola poesia in vita mia, che per goffaggine era diventata uno sgorbio nero, ma non osavo contraddirlo.
Prese la tazzina bianca di caffè ristretto come il catrame e se lo versò sulla giacca e la camicia. Il liquido tenebroso si espanse. Diventò la stessa macchia melanzanoforme che era apparsa sul foglio sul quale avevo voluto eseguire la bella copia dell’aborto di poesia.
“Come inizio non è male,” disse lui.
La macchia nera svanì. Giacca e camicia tornarono nivee. La tazzina si riempì di profumato caffè, che il signore bevve. Quando tornò la cameriera per sentire se volevamo qualche altra cosa, il signore afferrò un bigné. “Senti com’è buona ‘sta roba,” le disse.
Lei si chinò per dare una leccata alla crema, e le si alzò la gonnellina.
“Vedi la potenza attrattiva del nero,” disse il signore. “Pochi lo sanno dominare.”
“Fu soltanto un errore,” dissi, come fossero necessarie giustificazioni. “L’inchiostro voleva prendere la forma che prese. Non era quella che intendevo io.”
Intanto, la cameriera continuava a slinguare panna montata. Quel bignè era una sorgente infinita di nuvola zuccherata schiumosa e cremosa. Mi strizzò l’occhio. Arrossii a ictus.
“Allora sei ancora più bravo di quanto pensai,” disse il signore, girando il dolcetto per facilitarne l’accesso alla lingua lunga e rosa della ragazza. “Lascia fare al nero.”
“Ma non voglio...”
Si drizzò minaccioso. La cameriera, in trance, leccò aria. “Ciò che vuoi non importa. Il nero ha scelto te.”
Stavo vivendo un momento di quelli che ti cambiano o ti segnano la vita, ma non capivo niente. Balbettando, mi rivolsi alla cameriera oralmente imbambolata, “Ehm, signorina? Le dispiacerebbe portarmi una tazza di cioccolata calda? Il caffè non mi piace.”
Lei mi guardò schifata. Lui prese a frugarsi nella barbetta, come se intendesse estrarne una magico corvo, o una funesta carta dei tarocchi. Notai il suo anello. Luccicava, abbacinante più del platino, un elemento metallico ancora senza nome, emerso dalle viscere della terra, o piombato dallo spazio. Raffigurava un viso di giovane donna che mi sembrava di riconoscere. “Hai ragione,” disse, alla fine. Scoccò le dita e fece materializzare una tazza bianca, piena di un liquido marrone fumante. “Su. Beviti la cioccolatina.”
Si alzò, mi avviò una ciocca di capelli e se ne andò. Nonostante l’apparente calore di quel gesto paterno, il mio cuoio capelluto si trasformò in una calotta cranica di pelle d’oca.
Per scaldarmi trangugiai il cioccolato caldo. Mi fece il solito effetto. Corsi nel cesso tutto marmo e cagai l’anima. Lavandomi le mani, dopo, notai nello specchio che la maschera d’inchiostro di china mi era sparita dalla faccia, e che stavo perdendo i capelli, persino le sopracciglia.
La milizia della guida non telefonica - Simone Lisi
Saranno passati uno o due anni almeno da questo presente impossibile, scosso dalla violenza che si vede per strada o su internet, ma c'è stato un periodo diverso, in cui vivevamo le nostre vite in pace e incertezza al contempo.
Come è cambiato in fretta, diciamo con Lapo quando ci incontriamo di sera, nel salotto di casa. Non diciamo che sono cambiate le cose, perché è cambiato tutto. Dire le cose farebbe pensare a un ordine di elementi, tra altri elementi, che al contrario è rimasto immutabile. Invece no. Per questo ci guardiamo l'un l'altro e diciamo: è cambiato tutto, ed è successo così in fretta! Quasi non ci possiamo credere.
Lapo smette di fumare il mozzicone che tiene in punta di dita e mi fa: Ti ricordi? Solo un anno fa, che tempi erano quelli. I tempi più belli.
Lo so che si confonde, che non è esatta la datazione e che si riferisce come minimo a due anni fa, ma nella sua mente tutto si sovrappone a causa della stanchezza, così che io preferisco non contraddirlo. Lo guardo e dico: Sì, è come dici tu; è cambiato tutto, chi avrebbe potuto immaginare?
Così passano le nostre serate, in cui avevamo detto di guardare un film con il vecchio computer che legge i dvd e invece perdiamo tempo a fare cose immemorabili e alla fine si fa troppo tardi. Restiamo là, parlando dei tempi andati, o meglio a parlare lui; poi a una certa ora io saluto e vado in camera a leggere.
Buona notte lillo, mi dice Lapo, con ancora negli occhi il riflesso di quei discorsi; in quei suoi occhi velati per il fumo delle sigarette e la nostalgia. Ciao Lapo, gli dico, se ne riparlerà domani. E me ne vado a dormire.
Lapo si riferisce a quel tempo passato in cui c'erano pace e incertezza al contempo; concetti che non sembrano oggi conciliabili tra loro e invece lo erano eccome. Si era a metà degli anni dieci e non si sapeva più niente con esattezza circa le cose della vita e del mondo. Non che prima di allora si fosse mai saputo niente del genere, ma in quegli anni là meno ancora del solito. Mi riferisco alle cosiddette questioni etiche che erano diventate tutte dubbiose, per non dire futili.
Vi fu un tempo, fino a due anni fa, in cui la vita e la morale continuavano ad essere uguali a come sempre erano state: alle nostre vite di bambini, cresciuti per le strade del quartiere Le Cure, a giocare a pallone. Anni spensierati, dove la sola preoccupazione riguardava il pallone calciato nella terrazza del signor Ugo Ughi, famoso direttore d'orchestra, che spesso non si trovava in casa per restituirci la palla.
Fu allora che conobbi Lapo, ed era esattamente identico ad oggi, fatta eccezione per il non fumare ancora mozziconi di sigarette e per il viso più disteso dalle molte ore di sonno. Quello che infatti Lapo preferiva fare era dormire, solo di questo gli importava. Poteva dormire anche quindici, sedici ore di fila. Magari era una bella giornata, fuori faceva freddo, ma c'era il sole e così attraversavo il ponte e andavo da lui a proporgli un giro fuori; ma puntualmente mi apriva il portone sua madre, la quale mi guardava con occhi buoni e diceva: lo sai come è fatto, lasciamolo dormire.
Così io me ne andavo. Ma questo era prima, prima di questo salotto e prima dei cambiamenti storici che hanno stravolto un bel po' di cose, se scrivere cose non suonasse leggermente riduttivo.
Quegli anni vicini al duemila e quattordici erano simili a quelli dell'infanzia e a quelli ancora precedenti che quasi non si notava la differenza. Se non fosse stato che le fondamenta di quel mondo poggiavano sulla sabbia e questo diveniva ogni giorno più evidente. Come sia stato possibile che le cose siano andate avanti tanto a lungo non è chiarissimo, ma in realtà accadono di continuo cose anti-intuitive che contraddicono le statistiche e questo non è neanche strano, perché non ci si fa caso e lo si chiama semplicemente: la normalità.
Poi ci si ritrova a trent'anni seduti in un salotto a parlare di come son cambiate le cose. Ci si guarda indietro, ma è doloroso, così che ci si abitua a pensare al futuro anche se il futuro non sembra buono per niente. Forse sarebbe meglio lasciar perdere con la scrittura che mi riporta con i pensieri al passato, e ascoltare un po' Lapo, che continua a parlare da solo, mentre io ho smesso di ascoltarlo e gli rispondo di tanto in tanto: Sì, sì. A lui non interessano le mie risposte, interessa solo parlare di quando un anno fa –ma sono come minimo due– dormiva molte più ore di oggi e perfino di domenica sera gli poteva capitare di guidare la sua macchina verso una certa festa in campagna con a bordo gente mai vista prima. Guidava la sua auto completamente ubriaco e dopo che la festa in campagna era passata (con altri cocktail, altri discorsi e altri occhi velati) lui tornava verso casa, guidando la macchina ancor più ubriaco, guardando l'alba sopra la città in fiamme e riuscendo perfino ad arrivare a quella sua casa alle Cure, dove regnava l'incertezza sul giusto e lo sbagliato, come dappertutto, ma dove si poteva dormire in santa pace.
Ho parlato di una contraddizione, tra pace e incertezza; contraddizione che non era la sola, quanto piuttosto una delle contraddizioni di quei tempi andati, che smettevano di essere contraddittorie perché non erano viste da nessuno come tali. Le si chiamava semmai tensioni, ma mi sbaglio, davvero non le si chiamava in nessun modo ed è solo oggi, quando mi volto indietro, che riesco a scorgere quella polarità, quel magnetismo e quelle categorie opposte.
Tra le contraddizioni, a voler fare un esempio non casuale, c'era da annoverare tra i primi posti la scarsità di incidenti automobilistici. Percentuale davvero esigua se confrontata con il gran numero di guidatori inetti, di anziani fuori controllo, di gente con la patente presa per fare un favore ai genitori, senza contare quelli alticci, quando andava bene, o completamente ubriachi che si mettevano alla guida e, contro ogni logica statistica, riuscivano lo stesso a tornare alle loro case.
Si sarebbe invece notata eccome quella tensione verso l'inizio di quell'anno fatidico, quando gli incidenti d'auto cominciarono a aumentare in maniera esponenziale e le statistiche sembravano finalmente quadrare.
La gente cominciò a schiantarsi a dozzine di migliaia ogni giorno: lamiere contorte, pneumatici bruciati, tamponamenti a catena e moduli di contestazione amichevole appoggiati su cadaveri ancora fumanti. Amputazioni. Carrozzine e stampelle, a rendere tutto ancora meno fluido. Le città erano al tracollo per i continui incidenti e il traffico in uno stato di paralisi permanente. Una situazione davvero imbarazzante per tutti, che metteva in discussione l'esito borghese di ogni giornata, impedendo che le persone riuscissero ad arrivare in orario ai loro lavori e tornare in tempo la sera per vedere i programmi TV e educare di sfuggita i figli.
Di conseguenza, la gente veniva licenziata, i figli affidati a istituti caritatevoli, i decoder dei canali a pagamento riportati in delle officine desolate e, per finire, gli abbonamenti a quei canali disdetti. Era la fine.
Sul perché la situazione fosse cambiata così in fretta, le cause sono oggi materia di studio. Ora che tutto è passato, lo studio accademico preferisce concentrare le ricerche su altri argomenti, molto più utili e seri di questo, seppur così decisivo per le nostre vite, relegandolo al rango di semplice curiosità.
La mia personale opinione al riguardo è che si sia trattato di una congiunzione –favorevole o sfavorevole, secondo le prospettive– di due fenomeni. In primo luogo, la diffusione dei telefoni cellulari. Questi, in effetti, esistevano fin dalla fine del secolo scorso, ma da soli non erano stati sufficienti a sovvertire i costumi. A questo fattore se ne unì però un secondo, ovvero la rivoluzione copernicana che rappresentò dotare i cellulari di internet e, nello specifico illimitato, veloce e a prezzi scontatissimi. Verrebbe quasi da chiedersi a posteriori se quei ribassi e quella velocità non fossero un'oscura strategia di accelerazione della fine, un'apocalisse digitale.
Cominciammo a guidare le nostro auto e motorini e bici facendo tutt'altro: fissando i nostri piccoli schermetti luminosi, scrivendo messaggi su Whatsapp, controllando i mutamenti di status su Facebook, oppure semplicemente parlando l'un l'altro con una mano sul volante e l'altra sempre a reggere il telefono (oppure costretto tra spalla e orecchio). Era già accaduto prima, ma meno di allora, perché adesso era gratuito, o per lo meno così credevamo. Allora cominciammo a morire come mosche in un'opera di Hirst, a sfracellarci l'uno sull'altro; e questo avvenne da un giorno all'altro.
In tempi di crisi come erano quelli, diventò chiaro che le città stavano morendo di traffico e di telefoni. Si poteva definire indubitabile l'origine del male, la causa di quei pomeriggi aspettando nel traffico, di tutto quel disastro: era la guida telefonica.
Fu così che nacque la M.G.N.T., ossia la milizia della guida non telefonica, composta al principio soltanto da un manipolo di unità disorganizzate e ridicole, ma che andò a estendersi rapidamente per il successo ottenuto. Le piccole unità formate dai miliziani si muovevano in motorino, con i loro motorini mezzi scassati, tenuti insieme con il fil di ferro e solo in un secondo momento ne ricevettero uno ufficiale, con logo stampato sopra, e una pettorina gialla fosforescente da indossare.
Erano autorizzati a multare qualsiasi guidatore telefonico avessero sorpreso al volante. Multe, ma non solo queste: punizioni esemplari, umiliazioni, tutto era lecito, perché giustificato da un profondo senso della giustizia, giustizia senza riserva alcuna e senza scarti, finalmente.
Erano passati i tempi dell'incertezza. Prima un qualsiasi incidente d'auto, il più lineare, aveva una molteplicità di interpretazioni possibili, una sciarada di eventi che potevano essere letti da differenti interpreti-giudici in modi opposti. Poi divenne chiaro che la guida telefonica fosse sbagliata, solo questo, ma pure era qualcosa, rispetto a prima.
La Milizia e il suo potere crebbero a dismisura. Gli uffici centrali in cui i miliziani si trovavano al mattino prestissimo per iniziare le loro gite (così chiamavano bonariamente quelle loro ronde) si dovettero espandere in solai e cantine adiacenti, dove trovai lavoro anche io, e dove tutt'ora lavoro come impiegato semplice.
Così passano le mie giornate, inserendo dati dentro a un computer, a schedare cittadini multati, mentre tutto intorno a me la Milizia si ingrandisce ancora e ancora, conquistando l'approvazione generale, grazie a quella sua fondazione solidissima sul giusto e sullo sbagliato; e sempre quel motto che mi risuona in testa, che scrivono dappertutto, sui caschi, sulle pettorine, e che ci fanno ripetere all'inizio di ogni turno di lavoro: di guida telefonica si muore.
E' così che i miliziani hanno preso sempre più potere e il controllo delle nostre vite, ed è passato poco tempo da quando hanno cominciato ad abolire le libertà fondamentali dell'individuo, e le cose, è storia recente, oggi vanno sempre peggio e siamo sicuri che domani e dopo domani peggioreranno ancora.
E' impossibile che questo testo superi il visto censura del comitato estetico. Forse perderò il mio lavoro negli uffici della Milizia, ma non mi importa; è anche possibile che i miliziani ignoreranno semplicemente la cosa, per non darmi la velleità di poeta scomodo al regime.
Guardo Lapo, di fronte a me, che continua a parlarsi addosso, a ricordare aneddoti dei vecchi tempi andati e mi domando quante ore di sonno gli toglieranno ancora, per consentirci queste nostre vite fatte di certezze.
Povero Lapo, gli hanno sottratto ciò che aveva di più caro, costringendolo a quelle sveglie terribili alle sette per arrivare puntuale ai locali della milizia e farsi assegnare la sua gita in motorino.
Ma la guida per i viali delle nostre città! Mai un incidente stradale, mani sempre sul volante e grande rispetto per l'uso delle frecce e della segnaletica.
Si va finalmente che è uno spettacolo.
La porta aperta - Carlo Zei
Si tratta di mettere in ordine le parole. Articolarle con calma, con chiarezza. Non aver paura di non riuscire a dire qualcosa di importante e di urgente. Attrarre l’attenzione e poi sillabare forte e chiaro, lentamente, senza troppa emozione.
D’altra parte, non sono un tipo emotivo. C’è stato chi mi ha trovato noioso per via delle mie abitudini, così regolari, immobili. Che posso dire, è la mia natura, la ripetizione mi rilassa e le consuetudini mi danno sicurezza. Ho sempre trovato la possibilità di crearmi delle abitudini una forma di lusso.
Chissà, se la mia vita fosse stata più caotica e imprevedibile non mi troverei in queste condizioni. Ormai nulla distingue le mie giornate, tranne questo momento, questo quotidiano e urgente tentativo di esprimermi con chiarezza, ma non c’è nulla ormai che possa cambiare le cose, ovviamente.
Coloro che misurano il proprio successo sulla possibilità di continuare a fare quello che hanno sempre fatto forse capiranno perché, quando il mondo reale si è affacciato nella mia vita per la prima volta, io non abbia dato alla cosa alcuna importanza. La concretezza delle cose familiari vince sempre contro la nebbia del Reale. E quando il Reale arriva, lo ignoriamo, o lo dimentichiamo assimilandolo subito al Normale. Così, quando dopo trent’anni di sonni pesanti e tranquilli, privi di sogni o di interruzioni notturne, qualcosa in quella buia mattina invernale mi svegliò con violenza, io mi affrettai a razionalizzare. Mi svegliai, sentendomi scuotere per la spalla con urgente energia, mentre una voce sussurrava che era tardi, che dovevo alzarmi, subito. Naturalmente saltai giù dal letto spaventato. Ma come sempre succede in questi casi che so non essere infrequenti, poco dopo la luce del mattino cominciò a dare il giusto senso alle cose e attribuii quegli scossoni ad una cena indigesta, o ad un sogno vivido già dimenticato che conteneva quell’urgenza.
Tuttavia l’episodio mi rimase in mente per qualche tempo, domandai persino in giro se fosse possibile che la forza di un sogno potesse scuotere con tanta violenza il mio corpo supino. Naturalmente tutti convennero nello spiegare il fatto con sogno particolarmente intenso e anch’io finii per ridurre nella memoria l’entità delle scosse e la chiarezza della voce, fino a convincermi che non era successo niente di anormale. Capisco ora come avessi solo fretta di tornare alle mie abitudini.
Un’altra mia abitudine era quella, la mattina, di spostarmi fra la camera da letto e il bagno, dopo aver fatto la doccia. Mi alzavo, facevo subito colazione, poi mi spogliavo in camera da letto e andavo nel bagno con la doccia, nell’altro lato del mio appartamento. Non è mai stato un problema, nessuno mi può vedere, vivo da solo in cima ad una collina. Dopo la doccia gettavo l’asciugamano sul letto, andavo a lavarmi i denti e a farmi la barba, poi tornavo per vestirmi, ripiegare l’asciugamano e riporre il pigiama. Ogni giorno, sempre la stessa sequenza di gesti, eseguita nello stesso modo, immancabilmente.
Ma passate un paio di settimane dall’episodio che avevo attribuito ad un sogno, qualcosa cambiò. Un giorno, tornato in camera, dopo essermi sbarbato e lavato i denti, trovai il pigiama e l’asciugamano sul letto, piegati ed in perfetto ordine.
Questa volta la paura mi prese sull’uscio della camera, come una contrazione dello stomaco, una debolezza delle ginocchia. Qualcuno aveva ripiegato le mie cose e le aveva riposte sul letto ordinatamente, questo era fuori discussione. Non ero stato io, anche di questo ero sicuro. In casa non c’era anima viva a parte me, e questa era la terza e ultima cosa di cui potessi dichiararmi assolutamente certo. Improvvisamente mi tornò in mente lo scuotimento nel letto di due settimane prima e mi sembrò subito che le due cose fossero connesse. Comunque la rigirassi pareva evidente che qualcuno che non era una persona in carne ed ossa si aggirasse per casa mia.
Quando una persona scettica e distaccata, abituata per natura ed educazione a ragionare razionalmente, quando una persona così cede di fronte all’indedicibilità delle cose e all’incomprensibilità del mondo di solito lo fa in modo improvviso, rovinoso e irreversibile. Esattamente questo capitò a me, così mi ritrovai a formulare ipotesi sempre più fantasiose sulla natura e volontà della presenza che mi ritrovavo in casa. La conclusione mi parve assolutamente plausibile: dato che vivevo in un ex-convento vecchio di cinquecento anni e dato che a tutti gli effetti l’attività di quell’essere consisteva nel mettere in ordine cose e svegliarmi all’alba, non poteva trattarsi che di una suora. Una operosa e, a ben guardare, benevola suorina che abituata ad una vita di ordine e operosità continuava a fare le stesse cose, anche da morta.
Cominciai a considerare la suora come un’abitante regolare della casa, in effetti a maggior diritto di quanto lo fossi io, se non altro per una questione di anzianità. Ogni volta che trovavo qualcosa disposto in un ordine particolare o riposto con particolare attenzione, se non mi ricordavo di essere stato io le attribuivo senz’altro quella cortesia. La suorina era una presenza gradevole e non ingombrante nella mia esistenza solitaria.
A volte fra il serio e il faceto riferivo con piacere della “mia” suorina agli amici e godevo della loro sorpresa nel sentire raccontare proprio da me una storia di fantasmi, detta senza la minima ironia. Insomma, sembrava proprio una felice coabitazione.
I mesi successivi a quell’episodio furono più sereni del solito, mi sentivo meno solo. Arrivai persino, per una forma di considerazione e pudore, ad evitare di girare nudo per casa e a chiudere la porta della camera da letto prima di svestirmi, come se facesse qualche differenza. Ero più accurato del solito nella cura di me, quasi dovessi quotidianamente superare l’esame di un attento osservatore. Facevo meno rumore, ero più ordinato, sedevo composto a tavola, mi davo degli orari, correggevo le mie abitudini, cercavo insomma di guadagnarmi il rispetto se non addirittura l’affetto della mia invisibile suorina.
Tuttavia, nello spazio confortevole del mio ritrovato equilibrio c’era, sebbene piccolissima, un’area buia. Era solo un trascurabile disagio ma si ripresentava ogni giorno, per un breve attimo, prima di andare a letto.
Ho già detto come io sia una persona amante delle proprie abitudini, gesti ripetuti che scandiscono i vari rituali della giornata. Uno di questi consisteva nel riporre il mio pigiama su una sedia accanto alla porta della camera da letto. Dopo le consuete abluzioni serali, rientravo in camera da letto, chiudevo la porta, prendevo il pigiama dalla sedia, lo indossavo e mi coricavo.
Ecco, da qualche tempo, quando chiudevo la porta della camera e raccoglievo il pigiama, sentivo un impulso, irrazionale ma profondo, di allontanarmi da quella porta, come se, dietro di essa, qualcosa di maligno e ostile stesse in agguato.
Questa sensazione si ripeteva ogni sera. Appena chiudevo la porta, afferravo il pigiama e mi allontanavo dalla porta con una certa fretta. Capitò qualche volta che dovessi andare in bagno durante la notte e mi ritrovai a ponderare se fosse assolutamente necessario affrontare l’apertura di quella porta o se lo stimolo potesse attendere fino al mattino.
Steso nel letto cercavo di leggere ma ogni tanto lo sguardo tornava verso la porta e ogni volta avevo quella sensazione che qualcosa aspettasse là dietro e che io non dovessi assolutamente uscire dalla stanza. Una volta spenta la luce mi sentivo più tranquillo, come protetto dalla corazza dell’oscurità.
Nulla di tutto ciò succedeva durante il giorno, potevo attraversare quell’uscio mille volte, indaffarato nelle faccende quotidiane, senza mai tornare con il pensiero all’angoscia notturna di solo poche ore prima.
Le serate scorrevano tutte uguali come sempre, fra i miei libri, o raccolto nei miei pensieri. Verso mezzanotte mi coglieva l’abituale sonnolenza e allora come di consueto mi preparavo per coricarmi ma, arrivato a chiudere quella porta, ogni notte me ne allontanavo in fretta, come se potesse spalancarsi con violenza improvvisa, per rivelare la minaccia in attesa solo pochi centimetri oltre la soglia.
Quella che per molto tempo mi rifiutati di considerare niente più una piccola bizzarrìa dovuta alla stanchezza, col passare delle settimane e dei mesi, finì con il dominare la delicata zona d’ombra fra la veglia e il sonno. Quei preziosi minuti di dormiveglia che il corpo stanco si concede prima di addormentarsi e che per tutti sono un piacere se non addirittura il premio per una giornata di fatica, per me finirono con l’essere un tormento, un’attesa spasmodica del sonno che mi allontanasse da quella minaccia, sempre lì oltre la porta, notte dopo notte.
Era una situazione insostenibile che si prolungava sempre più e finì col trasformare le mie notti in interminabili veglie, fino a quando la luce dell’alba riportava il mondo alla normalità.
Un giorno, forse confortato da un bicchiere di vino più forte del solito o forse esasperato dalle miserevoli condizioni in cui mi ero ridotto, privo di sonno da settimane, decisi di farla finita. Mi alzai dal letto e mi diressi verso la porta dicendomi ad alta voce che, insomma, era solo una stupida porta. Non esitai davanti ad essa per più di un’istante. La spalancai, e finalmente vidi cosa mi aveva atteso là dietro, per tutti quei mesi.
Si tratta di mettere in ordine le parole. Articolarle con calma, con chiarezza. Non farsi prendere dalla paura di non riuscire a dire qualcosa di importante e di urgente. Attrarre l’attenzione, lo sguardo, e poi sillabare forte e chiaro la natura del problema, lentamente, senza troppa emozione.
L’assistente sociale viene la mattina, e se ne va la sera, dopo il tramonto. Mi nutre, mi pulisce, ha cura del mio povero corpo immobile sul letto, di quello che ne è rimasto. E’ molto paziente con me, riesce a dirmi parole gentili, senza distogliere lo sguardo da me e dal mio aspetto ripugnante.
Vorrei ringraziarla, ma solo un gorgoglio inarticolato riesce ad attraversare la mia gola martoriata. Eppure è molto importante, molto importante, quello che ho da dirle. Potrei spiegarle perché le mie ferite non si rimarginano e perchè ogni mattina lei ed il dottore ne trovano di nuove, di orribili. Posso ben immaginare cosa sussurrano fra di loro con quello sguardo perplesso e in fondo inorridito.
Eppure basterebbe poco, basterebbe riuscire a dirle che, prima di andarsene, prima di lasciarmi ad un’altra notte di dolore, deve ricordarsi di chiuderla bene, quella porta.
Il colore nero - Ferruccio Mazzanti
Discendiamo da Eva e Caino, da Cam e dai Cananei, siamo Ismailiti, figli di Esaù: sul nostro ventre camminiamo e polvere mangiamo. Siamo quelli che ci voltammo indietro diventando statue di sale, che ci unimmo a Lot nelle grotte e nell'incesto, siamo assassini che rimasero in silenzio abramitico, siamo le lacrime di Agar, benedetta serva di Sara, Rebecca, Lia, Rachele: siamo rinnegati ma giusti, siamo il grido di rabbia di Iabal nomade, cuori insani di Moloch, violenza della disparità assoluta tra me e mio fratello, tra e me e mio padre, tra mio padre e Dio: noi... noi siamo il colore nero.
E se il Cristo è morto davvero, lo ha fatto anche e soprattutto per Lamech: settantasette volte maledetto chi parlerà male di noi. Di nostro figlio Enoch.
Abbiamo atteso che Noè facesse uscire dalla sua maledetta Arca il nostro uccello preferito, perché già i cieli si erano colorati col colore dei corvi della nostra fede.
Noi siamo qui per redimere i maledetti e i rinnegati senza giusta causa, perché ogni violenza non è altro che una richiesta d'amore non accolta nella scala dell'ingiustizia divina. Noi non siamo sordi alle urla dei maledetti e degli sconfitti.
E quando l'angelo a cui avevi promesso tutto divenne zolfo e levò il suo grido di rabbia e dolore giurando di salvare le creature da te plasmate dal tuo giogo maledetto, la Madonna divenne nera e noi indossammo la sua veste: il nostro esercito di eletti, Balzebù, i Titani, Briareo, Tifone, il faraone Busiride e i suoi cavalieri menfiti, abitanti di Sodoma e Gomorra e Salem, Moloch con la sua barba tutta sporca del sangue dei primogeniti, Chemos terrore osceno dei figli di Moab, e Peor, e Baalim e Astarotte, Astòreth, Thàmmuz, Dagon, Rimmon, Ahaz, Orus, Oreb, Belial mio amato Belial, Matanbuchus, Baphomet anche tu con tutti quanti nella nera Gehenna della nostra fede mentre leviamo un grido di rabbia contro l'ingiustizia divina, perché noi, noi siamo il colore nero.
In loro nome. Ora. E per sempre.
NEMA
Olam a son arebil des,
menoitatnet ni sacudni son en te,
sirtson subirotibed sumittimid son te tucis,
artson atibed sibon ettimid te
eidoh sibon ad munaiditoc murtson menap.
Arret nit e oleac ni tucis
Aut satnulov taif
Muut munger tainevda
Muut nemon rutecifitcnas,
Sileac ni se uiq, retson retap.
Ci vollero sei mesi per organizzare il concilio. Poi esso avvenne così come avviene che accendo la radio è c'è un nuovo errore nella mia testa. La mia testa è tutta sbagliata. La mia fede è materiale. Io credo nella materia, perché la materia è tutto ciò che c'è.
Mi chiamo padre Francesco Saverio, indosso questa tunica nera e siedo su questa sedia in pelle nera mentre padre Tomas profetizza il mio sacrificio al Dio dolore.
L'uomo è un paese che sta morendo, dice Tomas mentre siamo seduti in settantasette intorno al tavolo della sala riunioni dello Stensen.
È notte fonda. Le luci nei corridoi sono spente. La cera cola lentamente sul parquet. Le agiografie sono ordinate sugli scaffali secondo un ordine anagrafico che va dalla Z alla A.
Fuori piove. È dicembre il mese delle contrattazioni.
Perché tu credi nella materia, mi intima padre Tomas; perché i tuoi occhi non sanno profetizzare; perché i morti che camminano là fuori ti sono amici; perché sei stato scelto; perché la tua evocazione abbia inizio.
E comincio la mia evocazione:
Ante Deus omnipotens et ineffabilis Lucifer
et in oculis omnium daemonum inferni verae, qui sunt dii.
I Pater Francesco Saverio Societatis Jesu
et quis renuntiaverit omnibus praeteritis, amicitiam adfectantibus Romanis.
Abrenuntio falsum Deus Judeo/Christianus Jehovah,
Abrenuntio Filio suo vilia et inutilia;
Abrenuntio falso odibiles putresque Sancto.
Satanas, ut mea unum et solum Deum, Palamque Lucifer.
Promitto agnoscere et honor in omnibus absque reservationes,
Hunc ducem et revertamur in appetendo uolenti.
Sento dentro al mio petto che tutto trema, IO TI EVOCO, mentre dal centro del tavolo cominciano ad emergere dei lapislazzuli e del corallo fuso, MIO AMICO, che crescono verso l'alto come germogli in primavera, SATANA, per aprirsi tali a quali alle folli pietre dell'Etna, sotto cui ribolle una capra di lava rossa, VIENI A ME, la sua testa marchiata da una stella di David rovesciata, il cielo nero che piange, SE AVESSI TANTE ANIME QUANTE SONO LE STELLE, e tutto trema, le pareti, il suolo, la ragione, il cuore, la speranza, LE DAREI TUTTE QUANTE A MEFISTOFELE, mentre lo zolfo mi porge una penna e dalle pareti cola il rigurgito di tutte le bestie perse nei meandri di Babilonia.
La mia mano non è altro che una goccia di sangue.
Il mio sangue dilata le fibre della carta, mentre sento i capelli diventare grigi.
Il suolo si spacca a pietre compatte, minuscole e immonde sotto i miei piedi liquidi come la disperazione di Agar.
Non ho più lacrime da piangere, amore mio, me le hai rubate tutte quante quel giorno in cui ti vidi gravida e felice di un altro a Parigi.
Sul tavolo c'è un calice vuoto.
Mille candele nere, denim e rosse.
Un ago sterilizzato e un rasoio.
Afferro il pugnale d'oro.
I settantasette gesuiti sono nudi nell'orgia intorno a me e gridano sniffando incenso, mentre colpisco sul ventre la piccola ragazza.
La sua pelle diventa rossa.
I suoi occhi che mi guardano sono denim.
Attraverso di essi io muoio in lei.
Il sangue è denso come una frittella di sangue.
Il calice vuoto adesso passa tra le labbra dei miei compagni.
Tutti bevono dalla bocca maledetta e sulfurea.
Fuori piove: non ho più pianto da allora, amore mio, ma ho pregato tutti i giorni che mi dessero la possibilità di gestire questo luogo, saresti così fiera se tu mi potessi vedere qui seduto ad osservarmi le mani mentre ricordo te, solo te, tutti i santi giorni. Ho fatto un patto con l'Arcinemico per diventare direttore di questo Stensen. Adesso tu vieni a me e guardami mentre realizzo il tuo sogno.
E proprio in quell'istante, mentre le spade di fuoco dei preti dannati sprofondano dentro alla vergine carne di fanciulle con gli occhi bianchi, HAIL SATAN!, proprio in quell'istante si apre la porta e la bionda testa di Nadia spia inavvertitamente dal corridoio quel che sta avvenendo nella sala riunioni.
Tutti quanti si bloccano come in un fermo immagine e la guardano. La sua mascella tende in modo poco professionale verso il basso. Le sue pupille si dilatano e si restringono con una certa velocità. La messa a fuoco generale è piuttosto difficile.
«Ehm scusate, non volevo disturbare»
«Mi dica, Nadia» Con non poco imbarazzo Saverio, che ha ancora entrambe le mani sul pugnale piantato nel ventre di una ragazzina nuda e morta. Satana interdetto che sbuca fuori dal tavolo.
«Mi ero dimenticata di prendere il verbale del C.D.A. Dovrebbe essere qui»
«Mm, bene bene. Ragazzi qualcuno lo vede?»
I settantasette gesuiti, che stavano violentando settantasette vergini, cominciano a guardarsi intorno, sotto al culo, dietro alle rispettive schiene. Borbottano delle bestemmie mentre spostano le proprie tuniche nere buttate lì in un angolo.
Poi Nadia si illumina tutta: «Eccolo!»
Entra dentro alla stanza accendendo la luce generale. Sembra improvvisamente tutto piatto e stupido, mentre il Diavolo si porta un braccio sugli occhi per ripararseli dalla luce del neon.
Nadia avanza con cautela cercando di non calpestare gli arti nudi dei padri gesuiti.
«Aaaahh! Il mio dito!»
«Oh mi scusi, padre Michele»
Alla fine riesce comunque a raggiungere il tavolo e afferra quei fogli che Satana tiene in mano. E poi semplicemente toglie il disturbo.
Hotel Dracula - Stefano Loria
1
per puro miracolo
sono scampato al turbine di fuoco
che saliva dalla neve
al mio arrivo
una spirale di fiamme
girava su se stessa
malgrado la rapidità della visione
mi parve di scorgere in essa
figure di persone
che ho amato e perduto
2
sarà l’acconciatura dei capelli
il gentile signore tiene molto
ad una eleganza deformata
che queste pareti di pietra umida
non aiutano
la sera mi prende un’inquietudine
motivata dalle ombre degli oggetti
prolungata dal lume delle candele
a dismisura
oltre il solito si dilatano
i colori esaltati
da un’ occasione estrema
3
dalla finestra della stanza
il panorama è un mutevole
assetto di profili
intuisco il generarsi di forme
con dispersione degli affetti
verso errori passati
l’incomprensione
è stata la molla dell’azione
la palude e il monotono
tornare della puntina
sul medesimo solco
senza note udibili
la ripetizione
odiosa spartizione
di denaro di influenze
alla quale sono stato obbligato
non l’ ho mai gradita
4
i sentieri interrotti
mi turbano il sonno
già così difficile
da quando sono arrivato
alla dimora del conte
5
solo un’ eco lontana
giunge a questo castello
di quello che sta accadendo
nella mia amata patria
gli arresti i processi
il crollo di un regime
che minaccia di schiantare
tutti sotto un cumulo immane
rottami inutilizzabili
è il cambio di scena
lo scarto il progresso
come lo concepisce il medico
positivista indagatore
dell’anima isolata
in provette con liquidi
fosforescenti in ebollizione
storte alambicchi dai quali
attendiamo l’essenza dell’umana
specifica motivazione
e non dovrà stupire la complessità
del risultato ottenuto
una creatura divisa
6
sotto il mantello
un cuore batte
per diffondere il contagio
la mezza vita
fino ad una stazione definitiva
io sto bene
è una questione di qualità
che impone al corpo
di ridursi a larva spirante
debolissimo involucro
nel migliore dei casi
pipistrello
7
il mio isolamento
non è privo di distrazioni
quando al tramonto
apro la carta del mondo
la mente è abbagliata
dai confini tra acqua e terra
tra foreste e deserto
tra depressioni ed altitudini
viaggio in una geografia virtuale
paese dopo paese
come io immagino sia
la tomba del pittore
una quieta
verdissima terrazza sul mare
un canyon dal quale si ammira
il paesaggio interiore
oppure l’estraneità totale
vedersi da un punto di vista
fuori da sé
uscire dal mondo
per guardarlo galleggiare
nello spazio vellutato
nero assorbente
8
la carta degli oceani
copre il tavolo
le variazioni tonali del blu
mi riportano ad una tavola da surf
contro le onde della baia
sono ancora vivo
in bianco e nero
con la spuma salata
che stinge il costume
e cancella la sigla
incisa sul legno
il sole riflesso alla deriva
nel saliscendi le esperienze
accadono rallentate
fuori tempo con la musica
che adesso è in voga da queste parti
una fioritura di
armonie
addizionate a metalli più pesanti
senza perdere le buone vibrazioni
9
di giorno
nel forzato isolamento
uso gli strumenti del disegno
che il conte mi ha gentilmente
messo a disposizione
di notte
giunge un fluido sessuale
un vento lunare
dalle lenzuola sale una corona
di rose concentriche
fidanzamento è un’espressione goffa
a lui piace morderle sul collo
è la freccia del tempo
conficcata nella giugulare
estasi non nel senso di pillola
ma commozione rarissima
un raggiungimento privato
all’unisono con il resto
del dimenticato mondo
la muffa l’umidità
che segnano le pareti di pietra
della mia stanza
si disseccano all’istante
per il calore dei corpi
che il conte abbraccia
in questo remoto
teatro delle passioni