Ho vissuto a Parigi (o forse no)

fotografia di Bärbel Reinhard

Ho vissuto a Parigi per otto mesi esatti, senza nessun mezzo di locomozione eccetto i miei piedi. Eppure ricordo perfettamente le uniche due volte in cui sono salito su un’automobile e ho percorso la città guardandola dai finestrini. 
Sono sempre stato uno di quelli che preferisce osservare la vita degli altri seduto al tavolo con una tazza di caffè caldo, una birra nei bar del Quartiere Latino o semplicemente seduto sul sedile di una macchina. Come se i finestrini fossero degli schermi. Un po’ come vedere un film, seduto sulla tua poltrona. Datemi del pigro, ma vi assicuro che quando si tratta di guardare la città di Sartre, da qualsiasi angolazione, è un intreccio di immagini particolarmente dense, piene di infinite ed incredibili storie da consumare; colazione, pranzo, cena e fuori dai pasti, ovunque. 
Io, comunque, solitamente mi muovevo sottoterra. La metropolitana è utilissima nelle città cosi grandi, e inoltre è piena di strani personaggi, di volti interessanti e di individui di ogni genere e tipologia. Ottimo materiale. Le storie della Parigi del sottosuolo hanno un mistero unico. Amavo stare dentro quel serpentone, imbambolato a fissare quei personaggi che prendevano vita nella mia testa. Se poi succedeva di incontrarne qualcuno più di una volta, avrei passato tutto il tragitto a raccontarmi di cosa aveva passato durante quel tempo senza di me. 
I particolari sono quelli che fanno la storia. Un cappello, un quaderno, un mazzo di chiavi, ma anche una camicia sgualcita può trasformarsi in una rissa tra scommettitori russi nello scantinato più lugubre delle Banlieue. In qualche attimo. O forse no. Di sicuro la vera bellezza di Parigi è nelle sue strade, nei vicoli attorno a Rue de la Huchette, nelle stradine di Montmartre, nelle grandi piazze e nei suoi caffè. Nei suoi spazi: a volte immensi e monumentali, a volte piccoli e nascosti: preziosi, entrambi, ma in modo diverso. 
Mi sono perso tante volte per le sue strade, e ho vissuto avventure che a raccontarle oggi, sorprendono anche me. O forse no.

Ho vissuto a Parigi per nove settimane, senza nessun mezzo di locomozione eccetto i miei piedi.
Sono partito senza nessuna esperienza, spaventato ed eccitato allo stesso tempo. Si tratta di una città immensa e fa un po’ paura sapere che ci sono tutte quelle persone attorno a te. Quella moltitudine di individui, per cui sei solo una sagoma o peggio un numero. 
Appena arrivato in aeroporto, avevo scoperto che il mio bagaglio era smarrito. Aspettammo delle ore per riempire i documenti dello smarrimento, per sapere dove trovarci nel caso in cui avessero recuperato le valigie. Non conoscevo nessuno e non sapevo nemmeno una parola di Francese. Cercavo di comprendere la situazione in qualche modo, e avevo dedotto dall’orario che ormai l’ultimo pullman era perso. 
Quella fu la prima volta in cui guardai Parigi dai finestrini, di un taxi che mi avrebbe portato alla bettola dove avrei passato le prime due settimane di permanenza in città. Da Charles de Gaulle a Montmartre, mi sentivo totalmente perso. Eppure provai a parlare col taxista. Ho questa mania. Cerco di usare il linguaggio del corpo e le espressioni facciali per farmi capire. Cosa non troppo facile quando il tuo interlocutore sta guidando l’automobile dentro la quale ti trovi. Le uniche parole che capii durante tutto il tragitto furono: Moulin Rouge. In quel momento mi accorsi che eravamo vicino all’Ostello. 
Oggi posso dire che siamo passati dalla porta de la Chapelle; ma ricordo solo di aver visto la torre Eiffel in lontananza, e aver smesso di provare a parlare con il mio autista. Fu come se fosse cominciato il film. Guardavo quelle immagini stregato, mentre nella mia testa si chiarificava tutto, il tempo si stendeva su quello schermo mischiandosi con la musica che usciva dallo stereo. Musica classica, elegante, perfetta. Stavamo entrando a Pigalle, dove i sexy shop si alternano a dei bar oscuri, delimitando la fine e l’inizio di Montmartre, che comunque di sera si spegne, si rilassa, si rabbuia. Mi lasciò davanti alla fermata della metrò Anvers. Quella fermata è particolare perché salendo verso la chiesa del Sacre Coeur, le strade si riempiono di negozietti, fino ad arrivare al belvedere, fantastico punto panoramico e turistico. Ma, se si prende la direzione opposta, le luci si offuscano e puoi trovare ogni genere di brutta faccia. 
Andavamo lì a prendere da fumare, dentro un parcheggio. Un ragazzino stava sempre fuori dall’entrata, potevi tranquillamente comunicarci con poche parole essenziali. Ti guardava male, il peggiore sguardo che poteva fare per essere un ragazzino e poi, t’indicava un angolino, dove dopo qualche minuto tornava per servirti. Giusto davanti alla collina di Montmartre. E poi via su Rue de Rochechouart, nascosti nelle ombre che si diramano dalla basilica. Indisturbati.  
O forse no. Non me lo ricordo.

Ho vissuto a Parigi per quattro anni, senza nessun mezzo di locomozione eccetto i miei piedi.
Avantieri sono partito, credo per sempre. La mia ultima sera a Parigi è stata molto particolare, è finita in macchina, proprio com’era cominciata. Erano le due meno venti e io stavo uscendo da un tombino in Rue Mouffetard. Le mani, la camicia, il pantalone, tutto impregnato di sangue. Era come se mi fossi fatto il bagno in una vasca ricolma di sangue. Roberto guidava una macchina scura, cosi pulita che sembrava appena comprata. Aveva i vetri oscurati ed era attrezzata, con i riscaldamenti sotto entrambi i sedili e due fucili a pompa nel porta bagagli. Lui portava gli occhiali da sole, si sentiva importante con quei ridicoli occhiali da sole. 
Percorremmo tutta la città, senza dire una parola, la musica a un volume indescrivibilmente alto. Io accendevo una sigaretta dietro l’altra, senza nemmeno aspettare di finirla, e Roberto mi passava il whisky. Era il suo periodo whisky, e comprava sempre la marca più economica, nonostante girassimo con borse quadrate piene di contanti. Avrebbe risparmiato pure se avesse posseduto il centro commerciale Lafayette. Era una sorta di filosofia di vita. In compenso era incredibilmente attento ai dettagli. Nel momento stesso in cui avevi bisogno di qualcosa, ti accorgevi che lui aveva già risolto il tuo problema: sul sedile accanto al mio, una serie di asciugamani e un piccolo secchio d’acqua erano pronti all’uso. Mi sciacquavo e lavavo via il sangue, continuando a fumare e bere senza sosta, ansiosamente. 
Fino a che non mi ricordai del film, e mi concentrai sulle immagini dei finestrini. Passammo da Pont de Sully, tranquillamente, nel silenzio delle grandi città quando è notte fonda, che sembra come quando il tuo cane si mette a dormire: la pace. Indisturbati attraverso la rotonda di Bastille. Al centro di questa piazza c’è un’enorme colonna che sembra quasi costruita in un immaginifico passato dove le persone erano più simili a giganti. Magnifico. Continuammo passando davanti alla statua della Repubblica, che silenziosa ci dà la sua benedizione. Da qui in poi non dovrebbero esserci ostacoli fino alla Gare du Nord. 

Roberto mi chiede una sigaretta, nel momento esatto in cui finisco di pulire via il sangue. La accende mentre arriviamo al parcheggio della stazione, lo pago io, perché lui vorrebbe cercarlo tra quelli non a pagamento, incurante del secchio di sangue e vestiti che tengo accanto. Troviamo un posto a qualche centinaio di metri dall’entrata. Ci sistemiamo. Mi controlla. ‘Perfetto’ in pochi secondi siamo all’entrata e ci guardiamo per un attimo, intenso, di chi riconosce la fine di qualcosa, nessuna parola. Non c’è tristezza, c’è la consapevolezza di una scelta e la maturità di un’amicizia forgiata dal tempo. Lui entra, e corre verso il suo binario, senza voltarsi. Io estraggo un piccolo telecomando, senza esitare premo il bottone rosso e guardo la macchina esplodere, per cinque, quattro, tre, due, uno. Via, ho un treno da prendere. 
O forse no. Non me lo ricordo e comunque può anche darsi che me lo sia inventato.

Ho vissuto a Parigi per tutta la vita, senza nessun mezzo di locomozione eccetto i miei piedi.
 Eppure quando salgo su una macchina, giro la chiave e inserisco la prima, so che sto per vivere un film, immerso nelle sue immagini in movimento, che scorrono rapide dietro i vetri dei finestrini. Le storie più strane e interessanti sono lì fuori, alzo il volume dello stereo, apro gli occhi e mi perdo nelle strade che costeggiano la Senna. 
O forse no. Non me lo ricordo o comunque può anche darsi che me lo sia inventato. O forse no?

 

Andrea Cafarella (testo)

Andrea Cafarella