Beppe Salvia, stagioni infinite
Ho letto per la prima volta le poesie di Beppe Salvia all'inizio degli anni Ottanta, su certe riviste romane di letteratura che emanavano un fascino speciale, come giungessero da altri spazi e da tempi differenti rispetto a quello che abitavo io a Firenze. Nella sua scrittura si espandeva un linguaggio fluido, arcano, sofisticato fino all'impossibile ma non ermetico, al contrario tutto rivolto alla diretta seduzione del lettore. Pareva un abbraccio, come per stringere un patto di fratellanza con chi fosse disposto ad ascoltare una pronuncia lontana dalla modernità degli autori canonici novecenteschi, una voce tanto personale da risultare perfino dolorosa. Subito mi apparve assolutamente fuori dal presente, collocato in una dimensione misteriosa, atemporale. Salvia (spesso nascosto dietro l'eteronimo Elisa Sansovino) scriveva popolando con figure e ritmi uno spazio precedentemente disseccato, devastato. Ma su questo sfondo di perdita era capace di incidere arabeschi fiammeggianti di vitalità ed affetti. Anche quando lavorava con brevi prose, riusciva a scolpire eventi e relazioni in maniere che non avevo mai incontrato prima nella letteratura italiana. Rimasi folgorato.
E anche oggi, a tanti anni di distanza, nulla è cambiato. I libri di Beppe Salvia - assente precoce, molto presto fuggito dal nostro mondo- sembrano protetti da un incantesimo. I suoi versi provengono da un regno sofferto e gentile, scritti in prossimità di acque sconosciute, dissolti in cieli estivi, hanno trovato una sicura dimora nelle stagioni di ieri e di domani.