Circostanza 251 - Non ho mai visto un marocchino piangere

Rabat
8 Luglio 2015

Silenzio. Non ho mai visto una città farsi così d'improvviso muta, sospesa nell'attesa rispettosa della voce che romperà questa quiete quasi surreale, srotolando per le strade una folla disordinata e vociante di donne velate, anziani in abiti tradizionali, uomini diretti alla moschea con il tappeto sotto braccio e bambini che finalmente riprendono, in strada, le occupazioni che avevano lasciato in sospeso. Silenzio. Solo poi comincerò a sentire, ancora, l'odore della carne macinata arrostita in fondo alla strada, alle porte della Medina, e quell'indistinto profumo di cumino e un'altra spezia di cui ancora non ho capito il nome; solo poi vedrò di lontano, affacciata al balcone della mia nuova casa di Rabat, il fumo che si leva dal carretto ambulante del venditore di pannocchie, un anziano signore marocchino col viso segnato dagli anni trascorsi ad arrostire mais, confuso nella nuvola bianca che si alza dalle pannocchie sulla brace, che è tutta la vita che fa quel lavoro eppure sembra che abbia improvvisato il carretto ambulante giusto un momento prima di entrare nel raggio visivo di chi lo guarda.
Ma ora no, ora è il momento della quiete.
Pazientemente, fuori dai bar e dai ristoranti, giovani coppie, famiglie e gruppi di amici(uomini)attendono con la tavola già apparecchiata l'inizio della giornata.
Nessuno inizia a mordicchiare il pane, nessuno beve un sorso d'acqua, nessuno fuma. Tutto è pronto per essere consumato ma rimane intatto, in attesa del ftour.
Sono quasi le otto di sera a Rabat, il Ramadan è cominciato da una decina di giorni e, appoggiata al balcone della mia nuova casa di Rabat in attesa del richiamo del muezzin, ho ancora tutto da scoprire in una città che dorme di giorno e si sveglia al calare del sole, quando passate le mura della Medina, si apre un tumulto di odori, vistose bancarelle di abiti moderni di scarsa qualità, tappeti di scarpe usate, nuove, rubate, occhiali da sole all'ultima moda sapientemente contraffatti, <<Buenos dias, espagnola?>> <<Non, italienne>>, banchi di ortaggi, spezie a cinque dirham, pochissimo ne prendo un po'! montagne di olive e poi ancora vestiti e scarpe, e di nuovo una via che si apre svoltando l'angolo coperta da una coltre di fumo che si alza dagli arrosticini di kefta, ma quanta gente devono sfamare e allora percorriamola, seguirò questa donna che mi pare sappia dove stia andando con questo cipiglio sicuro tra la folla, un negozio di scarpe tipiche, mi distraggo, l'ho persa, ma che importa, sono tornata al venditore di pannocchie, anziano signore coperto dal fumo che sembra non dargli nessun fastidio mentre io lacrimo, senza sapere come sono ritornata al punto di partenza percorrendo a caso queste file di banchi snocciolati senza logica apparente in strade vecchie come il mondo. 
Logica.. non è questo il posto per cercare ordine alle cose. Né fuori di me, né tanto meno dentro.
Ma ora, c'è solo silenzio. 
Lento muoversi delle cose e delle persone per strada. 
Affacciata al balcone della mia nuova casa di Rabat posso arrivare a vedere fino alla fine della via. Surreale questa calma silenziosa, per un attimo mi quieto anche io, fermo il pensiero, smetto di rincorrere l'agio in cui mi voglio sentire nelle situazioni e che qui ostinatamente non trovo, lascio cadere questo sentirmi costantemente straniera e osservo, protetta dal corrimano del mio balcone, il lento spostarsi della strada sotto di me. 
Vorrei una birra e mi sento ancora una volta fuori da questo mondo che mi hanno detto essere più o meno come un sud Italia, ma un po' più a sud.  
Ecco il muezzin. 
Ecco questa voce che rimbalza da una parete all'altra della città, che parte dalla Medina e si diffonde in un coro di voci sovrapposte ai minareti di tutta Rabat, come quando sulla muraglia cinese i guerrieri accendevano il fuoco di torre in torre per segnalare l'arrivo del nemico. 
Mi metto la borsetta a tracolla con dentro il mio passaporto e mi dirigo verso la Medina appena svegliata dal richiamo del muezzin. Sono ancora i primi giorni, e mi porto dietro, insieme al passaporto, le svariate raccomandazioni di tenere soldi, documenti e telefono sempre vicini al mio corpo, sotto la camicia. Esagerato ovviamente, ma i primi giorni, qui, tutto quanto lo è. 

fotografia di Francesco Niccolai

fotografia di Francesco Niccolai

Campagna di Kenitra
20 Luglio 2015
Ho uno zaino in spalla e sono partita con Mohamed, mediatore culturale di fatto e di professione, doppia cittadinanza marocchina e italiana, alle spalle una famiglia numerosa di un'ospitalità commovente e una lunga storia di vicissitudini che lo hanno portato dal Marocco al nord Italia e poi ancora in Marocco, passando per la Sicilia e per una serie di lavori meno gratificanti e gratificati della mediazione culturale.
Siamo nella campagna a ridosso di Kenitra, una trentina di chilometri sopra Rabat, per la precisione in un paese che non ho ancora imparato a pronunciare. Qui mi posso scordare allegramente il francese, i palazzi moderni ed europei della città e le abitudini che avevo appena imparato a riconoscere come tali. 
Qui, a due passi dall'oceano, ci sono solo distese di campi di الفول السوداني  (la pronuncia è qualcosa come cou-cou) che scopro con mio esterrefatto stupore essere campi di arachidi, una delle principali coltivazioni di questa zona del Marocco. 
Rachida si china a strappare un cespuglietto verde dalla terra: ne esce un arachide acerbo, ancora deve fare la buccia con la quale siamo abituati a vederlo. <<Mange!>>. Mangio.
'Mange' parola di significato universale, misto di francese, darija e italiano che ci ricorda con nostro grande sollievo quel grande connettore senza parole che è il cibo.
Rachida si muove tra i campi di ”cou cou“ con l'aria di chi è tutta la vita che fa quei movimenti quotidiani, portando sulle spalle Arima, una graziosa bimbetta sui tre anni, comodamente appollaiata sul morbido sedere della donna che sembra fatto apposta perché Arima possa sedervici comoda, protetta dalla fascia che Rachida si tiene legata alla vita.
Questa donna mi comunica simpatia a pelle. Dopo una buona mezzora riesco a capire che non devo stare attenta a niente, ma che il gesto che le donne di questa famiglia mi stanno ripetutamente facendo aprendo e chiudendo la mano come a dire <<apri gli occhi, bella, attenta!>> vuole semplicemente dire 'bello', un complimento che mi fanno con occhio materno, accogliendo le mie scarpe da trekking tra le loro ciabatte lasciate fuori dalla porta prima di entrare in casa, le mie braccia scoperte e questi pantaloni sdruciti che indosso da tre giorni - perché mica avevo capito che stavamo via così tanto - tra i loro abiti tradizionali.
Prima regola da ricordare: quando in Marocco vai a fare una visita a una famiglia, c'è da mettere in conto almeno – ma è proprio il minimo minimo – due giorni di permanenza presso tale famiglia. 
Rachida si china di nuovo per mostrarmi il fiore giallo del cou cou: quando diventa rosso l'arachide è pronto, e si può raccogliere. Si gira e mi sorride, mentre Arima si nasconde dietro quella schiena accogliente, sempre appollaiata sul morbido sedere materno.
Torniamo in casa, c'è da preparare il pranzo. Uomini da una parte, donne dall'altra. Io sono ospite occidentale dunque posso stare con Mohamed e il resto dei ragazzi; mangerò con loro mi dicono, o almeno così credo mi stiano dicendo.
Mi siedo con le donne sul tappeto della “sala da pranzo", una stanza completamente spoglia, in cemento, semplicemente quanto accuratamente cosparsa di tappeti di finto tessuto che in realtà è plastica e immancabili cuscini riservati agli anziani e, senza possibilità di rifiuto, agli ospiti.
Comincio a spezzettare il pane con le donne per fare una specie di cus-cus a base di pane avanzato dalla sera prima, che non si butta via niente. A fine preparazione ne uscirà un enorme piatto giallo, colorato di curcuma e zafferano, che verrà posto al centro del tavolino basso di legno attorno al quale saremo seduti, sui tappeti di finto tessuto che in realtà è plastica, mangiando tutti da questo enorme piatto di portata, con le mani e per la precisione con la mano destra che la sinistra si usa per lavarsi e  mangiarci non sta bene. 
Stasera ci sarà la festa di fidanzamento della figlia più giovane, che è molto più giovane di me e a cui non torna tanto che io non sia sposata e non abbia figli, e ci sono grandi preparativi in casa.
Le donne sono in fibrillazione; stanno facendo tutto loro, gli uomini sono altrove, non ho capito bene se nei campi o semplicemente fuori dai centri nevralgici della casa e cioè dalla cucina e dalla casotta da pranzo dove stiamo preparando il pane. La casa è il regno delle donne, che siano bimbette sgambettanti o robuste capo-famiglie dal sedere grande e morbido perché Arima vi possa stare comoda.
Le donne cucinano, lavano, accolgono gli ospiti e se ne prendono cura, da loro dipendono i ritmi della casa, il momento del lavoro e quello del riposo, il tempo per piangere i morti e quello per distaccarsi da essi, e su di loro ricade la scelta del marito o della moglie per i propri figli, in accordo con le donne dell'altra famiglia prescelta. 
Qui siamo in campagna e le tradizioni sono ancora forti, molto più che nella città più grandi e moderne come Rabat, anche se poi in effetti quasi ovunque c'è tutto e il contrario di tutto. 
Spezzetto il pane sentendo di aver preso quasi il ritmo e le donne scherzano sulle mie braccia scoperte che sporgono dalle maniche della camicia che indosso. Scherzano e poi si rivolgono alla ragazza che stasera si fidanzerà e ridono, ridono a crepapelle e in qualche modo mi fanno capire che la cosa che le diverte tanto è che la loro pelle sarà pur coperta dai polsi alle caviglie, ma presto la ragazza si troverà senza mutande davanti allo sposo. Rido, quasi stupita da questo scherzare scanzonato entro cui mi hanno coinvolto, donna tra le donne, e poi mi accorgo che il riso si trasforma per la madre in un pianto sommesso, perché la figlia più piccola lascerà, insieme alle mutande la prima notte di nozze, anche la sua casa.

fotografia di Francesco Niccolai

fotografia di Francesco Niccolai

paese impronunciabile nella campagna di Kenitra
15 Luglio 2015
Mi sto accorgendo che il concetto di privacy o è sopravvalutato "da noi", o è per lo più una nozione sconosciuta qui. 
Mi sento invasa da una serie di suoni e odori che sento non appartenermi e vorrei per un attimo la mia nuova casa a Rabat, quel po' di privacy sempre in fuga dalle parole concitate di Arlette, e invece sono in viaggio da cinque giorni, con gli stessi pantaloni, la stessa maglietta e sopratutto le stesse mutande e oggi ho perso irrimediabilmente la mia unica possibilità di salvezza: la mia saponetta che, volendo ostinatamente lavarmi con l'acqua del bidone in bagno, ho visto scomparire nel buco nero della turca che tutto inghiotte e quindi anche la mia preziosissima saponetta.
Ma oggi si riparte e con quel sapore in bocca di un addio di cui facciamo finta di non accorgerci dicendo <<arrivederci>>, saluto Rachida, il suo morbido sedere per farci stare comoda Arima e quella famiglia che per tre giorni, senza privacy e senza saponetta, mi ha fatto a suo modo sentire in una nuova casa.

fotografia di Francesco Niccolai

fotografia di Francesco Niccolai

Oued zem
13 Agosto,
É la donna più grande che io abbia mai visto. Non grande nel senso di grassa, proprio grande, imponente, massiccia, autoritaria, le mani ancora segnate dallo sporco ostinato del lavoro, che non fanno in tempo a togliersi perché subito ricominciano la stessa mansione. Con queste mani impregnate dell'odore di carne morta che il sapone non riesce a togliere del tutto, e che trapela da sotto i suoi vestiti rosa acceso tendente al fucsia, ci mostra il suo grembiule di plastica bianca macchiato di sangue, pezzo principale dell'armamentario da lavoro consistente per l'appunto in grembiule, stivali di gomma da pescatore, e una tenuta acre e macchiata quanto il grembiule di plastica bianca. 
Domani, come ogni mattina, si sveglierà prima del sole, indosserà questi odori e si immergerà in altri ben più forti, che ogni mattina si levano dal banchino della carne del mercato di Oued zem. Lì scuoierà pecore e vacche, per salvarne la pelle e vendere tutto quello che della carne si può mangiare. La testa della pecora e della vacca dissanguate verranno esposte sul banchino, marchio di garanzia perché si veda che qui si vende carne fresca e finito di estrarre gli organi dai corpi animali che la imprimeranno di nuovo di questo acre odore, impugnerà con le sue grosse mani un ventaglio per cacciare mosche e moscerini che come avvoltoi cominceranno a volare sopra la carne morta appesa ai ganci di un baracchino sgangherato, che è a tutti gli effetti la macelleria.
Avvolta nel suo vestito rosa e in quel che resta degli odori della mattina, inforca uno sgabello di legno visibilmente troppo piccolo per il suo corpo imponente e comincia ad arrostire carne, la più pregiata che ha riportato dal mercato. Le sue mani snocciolano strisce sottili che non vogliamo ammettere siano intestini, intente a srotolarli sulla brace ardente.
Ci guardiamo, sappiamo che non potremo rifiutare niente ma facciamo finta di non vedere il problema almeno finché non ci si presenterà irrimediabilmente davanti.
Ma sappiamo esattamente che stiamo farfugliando pensieri inconsistenti e intanto il piatto è arrivato, una montagna di intestini arrostiti su un letto di cipolla cruda, che non capisco se gli occhi mi si fanno lucidi per la cipolla o perché so che quella montagna dovrà rientrare in cucina rasa al suolo.
Afferriamo il pane come se dovessimo proteggerci, ma sappiamo che dobbiamo mangiare: nulla sfugge ai vigili occhi della donna, che meticolosamente registra ogni movimento dei nostri corpi, al fine di incitare con la giusta enfasi, che non lascia possibilità di rifiuto, a mangiare. 
<<Mange, mange>>, maledetto termine universale. Ci si siede accanto e afferra con le grosse mani che da sempre hanno toccato quella carne un boccone che si porta alla bocca, come ad esempio. Non c'è scampo, nascondiamo un po' di carne nel pane, cipolla e via, in bocca, mastico, non c'è modo che vada giù, guardo i miei compagni di viaggio in cerca di un impossibile aiuto, sembra che mangino ma io li vedo che sono in difficoltà, tengono lo sguardo basso come se stessero compiendo un'operazione che richiede la precisione di un chirurgo. Sorride compiaciuta, la donnona, soddisfatta nel pieno di quei denti sgangherati che sta mettendo in mostra di stare sfamando come si deve i suoi ospiti, cioè noi.
Sorrido, con uno sguardo che è un misto di gratitudine e terrore a quel tripudio di rosa accesi che tutto evocano tranne la  delicatezza che il colore stereotipato attribuisce alle donne.
Mi prende sotto braccio senza possibilità di scampo, l'odore intrappolato sotto ai suoi vestiti rosa mi avvolge stretto nel suo braccio intorno alla mia vita. Di nuovo mi lascio trasportare tra l'atterrito e il grato e ci sediamo davanti a un thè alla menta servito dalle sue grosse mani, e cominciamo a parlare, ormai consapevoli di essere di fronte al capo indiscusso della famiglia, vestito con tutte le sfumatura di un rosa acre, forte, ancora indeciso tra il materno e l'autoritario.

fotografia di Francesco Niccolai

fotografia di Francesco Niccolai

Figuig
23 Agosto 2016
Dopo una sosta apparentemente casuale l'autista lancia sguardi d'intesa alla folla che attende riparandosi dal sole ardente di pieno Agosto in pieno Marocco appiattendosi contro la sottile linea d'ombra che corre lungo il muro della caffetteria. L'autista mette in moto, il pullman si muove appesantito dalla folla che finalmente si è riparata dentro, chiassosa e ingombrante. 
Guardiamo la palmeria scorrerci un'ultima volta dal finestrino; da lontano appare ancora più isolata e assurda, circondata da un niente che ha il colore della terra. Ecco scoperto il luogo dove gli alieni testano l'umanità, distante da tutti i centri abitati, troppo lontano da raggiungere per essere tappa consueta di turismo – sua condanna e salvezza – nascosto sulla cartina dal tratteggio del confine algerino. Francesco continua a ripetermi questa teoria mentre il pullman percorre il nulla che ha il colore della terra e io rimango scettica e perplessa sul perché un alieno abbia prescelto proprio queste strade sterrate che si snodano secondo le linee di una mappa che in realtà è un labirinto tra le case di terra cruda e cemento, accostate l'una all'altra in modo che la strada resti quasi completamente buia, e poi improvvisamente affacciata su una piazza a picco sotto il sole, e ancora di nuovo al buio percorribile solo a piedi o in biciclette noleggiate senza sapere come possa mai campare un noleggio di biciclette a Figuig, dove le donne camminano avvolte in un lenzuolo bianco con solo l'occhio destro scoperto.
Ogni tanto un pastore berbero e le sue capre scorrono dal finestrino, poi di nuovo la terra secca, la strada sgangherata che bisogna accostare a lato per fare passare le macchine, fortunatamente poche, che vengono dalla direzione opposta.
Dopo ore apparentemente uguali a se stesse la strada piano piano si riallarga, le corsie diventano tre, una per ogni senso di marcia e la restante, al centro, come corsia di sorpasso da ambo i lati. 
Poi i cartelli aumentano, spuntano bandiere nazionali dentro le rotonde, superiamo i posti di blocco che ci indicano che stiamo entrando in città, ma già ce n'eravamo accorti perché siamo circondati da costruzioni moderne e cartelli pubblicitari che trovo davvero sgradevoli e irrispettosi di quella terra secca di cui siamo ancora intrisi, ma tant'è, ormai ci siamo dentro e siamo parte di quest'orda di clacson il cui significato spazia dal salam aleikum al parti maledetto che il verde è spuntato già da un pezzo.
Ma la strada non è mai solo delle macchine e spuntano carri trainati da asini e fiumane di gente per niente impaurita da questo traffico non ammaestrato, eppure l'autista rimane indifferente, impassibile a quest'orda di macchine inferocite, sfidando il pullman a velocità che non siamo così sicuri possa sopportare.
Questo è il Marocco, sogghigna Mohamed, vedi una cosa e poi ne vedi un'altra che è tutto il contrario, comprendi una regola e poi vedi qualcuno che non la segue, la donna velata in abiti tradizionali che passeggia sottobraccio alla figlia vestita all'europea.
Mi viene in mente Arlette, che mi spiegava il Marocco rubando un esempio del povero Claude, in cui descriveva il Paese come una cipolla da sbucciare, levando uno strato dopo l'altro e che, proprio mentre pensi di aver finalmente scovato il cuore, ti accorgi che è solo un altro strato e che c'è da andare ancora più a fondo. E mentre lo fai, mentre sbucci strato per strato, un poco, può capitare che piangi.     

Testo di Marta Scaratti