Elementi di Geometria sentimentale
Le geometrie sentimentali arditamente teorizzate e messe in pratica in queste due mostre (volume 1 e volume 2) si sviluppano dalla costruzione di un triangolo la cui base è tracciata su Firenze dal punto Zona B al punto Stanza 251 per allungarsi fino al vertice livornese denominato Egg. Tre associazioni cosiddette culturali, tre elementi di aggregazione, tre ipotesi di lavoro in rete. Da questo primo triangolo, poggiando su uno qualsiasi dei lati, potranno svilupparsi infiniti poligoni, perfino uscendo dai confini nazionali, perfino incontrandosi all’infinito come due rette parallele, che poi è una delle definizioni più poetiche che il letterariamente poco esplorato mondo della matematica ci abbia regalato. La mia intenzione era, in solido, indicare dei punti corrispondentiagli artisti ed agli scrittori invitati, per poi a mia volta invitare a tracciare delle linee che ne congiungessero il pensiero. Un esercizio rinnovabile innumerevoli volte, senza alcuna certezza di risultato perché, è ovvio, la variabile sentimentale è in agguato. Sghemba ed irrazionale, volubile ed impronosticabile. Ma sono forse diverse da ciò le famose rette parallele?
La geometria è anche una corda a cui aggrapparsi per inseguire dondolando le idee messe in pratica di questi miei compagni che ho voluto mettere insieme con somma arbitrarietà ma anche con profonda convinzione.
Stefano Loria, presente nei due volumi nella doppia veste di pittore e poeta, mi ha accompagnato, ed io ho accompagnato lui, in quasi trent’anni di tentativi di costruire (ognuno di noi due) segni distintivi. La secchezza del suo lavoro, capace di contenere tantissimo in poco, mi ha sempre affascinato, sia che si trattasse di tele o carte sapientemente riempite, sia che fosse da leggere in poesie e prose che nel suo caso si intersecano frequentemente. O, se volete, sono interscambiabili come gli addendi che non cambiano il risultato. Lavoro talvolta ingrato, poco incline alla piacevolezza ruffiana (che peraltro non disdegno, se capita, magari fissandomi su un Rothko al museo), ma capace di avvitarsi in vortici di godimento estetico, leggero e intenso.
Più recente l’infatuazione per le fotografie di Francesco Niccolai, qui costruite in sequenze multiple come si conviene ad una geometria dell’anima. Solo ritratti. Che si palesino sotto forma di casette o di improbabili stazioni di servizio ha poca importanza. Ritratti di gente che non si vede ma che si intuisce. Tranci di vita e di paesaggio intensamente ispirati lungo tratti di strade poco battute. Sempre costruendo un set in perfetto equilibrio tra ciò che c’è e ciò che s’immagina ci possa essere. La moltiplicazione dello sguardo completa l’opera, come fosse una frequenza di un brano di Terry Riley: movimenti impercettibili, mutamenti progressivi che introducono al “tutto”. Ipnosi da fotogramma. Terapeutici fermo immagine.
Traccio un’altra linea che mi conduce nei meandri misteriosi delle congiunzioni di immagini che Beatrice Squitti costruisce in quella che intuisco possa essere una sorta di trance artistico/creativa. Come riesca, lei, a restare in quel miracoloso equilibrio sulla corda, quando rischia di cadere ad ogni passettino nel baratro dell’ovvio e del banale, senza mai, dico mai, neanche ondeggiare, ecco, per me è un piacevole mistero. Guardo i suoi collages con l’attenzione dilatata con cui posso seguire un film di Hitchcock: non voglio perdermi nulla, perché ogni particolare è rivelatore, mai fine a se stesso. Entra in gioco anche un elemento che pochi riconoscono, ma io sì, nei numeri, vale a dire l’eleganza. Pensate, ad esempio al cinque, con le sue linee dritte nella parte superiore che scendendo si fanno una bella ed ordinata curva od alle sinuosità dell’otto. Ecco, i lavori di Beatrice hanno l’eleganza dei numeri migliori, per quanto immaginari.
Pensate adesso ad alcune sequenze di quella meraviglia di album che è Music for Airport di Brian Eno o alle sofisticate elettrocanzoni dei Lemonjelly (per chi li conosce…). Ecco la colonna sonora per le delicate, delicatissime opere di Tomoko Sugahara. Superfici che si increspano come l’acqua di un lago sotto leggera brezza. Piccole voluttuosità da cogliere silenziosamente, che il troppo rumore non le si addice. Mi intrigano anche quelle ispirate coppie dai colori appena accennati. Ma è il bianco che la fa da padrone. Anzi, dovrei dire i bianchi, a ricordarci che il non-colore può dotarsi di sfumature infinite e che l’ombra gioca un ruolo di primo piano quando addirittura non si erge ad interprete principale. C’entra la giapponesità, o si deve dire nipponicità? Credo di sì, ma non ne sono poi così sicuro. La sensibilità, ecco, è tutta Sugahariana, fuori di ogni geografia e di qualsiasi geometria.
Un paesaggione montano, di un bianco e nero low fi, a riempire tutta una grande parete e l’azzurro dei tuoi occhi (c’è sempre un visitatore/una visitatrice con gli occhi azzurri e la frase suona bene così). Tranquilli, è lì anche per tutti gli altri, imponente, sano, imperturbabile. Bärbel Reinhard l’ha messo lì per ingannarci, per darcela a bere. Infatti la vista implacabilmente cade su quei quadratini di cornice bianca, sotto misura per la supermountain, dentro ai quali altri paesaggi ed altre figure, e dentro a questi ancora cerchi ed altre inquietudini che scopri solo avvicinandoti parecchio. La montagna diventa immediatamente sfondo lontano, decorazione, mentre il piccolo riprodotto si fa significato, arguzia, connessione a paesaggi interiori. Una fortuna averla vista, davvero, l’installazione.
Ed ecco infine la fotografia classica. Quella che il tempo mi ha fatto riscoprire come uno dei piaceri massimi della mia vita visiva. Carlo Zei ritaglia sguardi e scopre le mie amate geometrie in luoghi che le offrono solo a selezionati osservatori ed evidentemente lui è tra questi. Non a tutti è infatti dato di vedere ciò che la luce regala trasformando in bellezza anche il bruttino, il banale, il quotidiano semplice. Qui il bianco e nero raggiunge raffinatezza e signorilità (se questo termine si può usare ancora, in tempi grevi come i nostri). Il paesaggio è un cortile semi-assolato od un tunnel anticipato da una simmetria d’asfalto e cordoli. L’eclatante sta nell’equilibrio, nella scelta del momento in cui tutti gli elementi stanno al posto giusto, nella luce giusta.
Last but not least, un vecchio/nuovo compagno di viaggio, Luca Matti. Ma subito devo dire di quelle palline da ping pong trasformate in argenteee metropoli, a costruire il cosmo che si irradia sulla parete. Un gioco? Tutt’altro, visto che all’occhio attento non sfugge la metafora dell’alienazione moderna, il sussulto di vite inglobate ed indirizzate. Se poi il tutto si amplifica su una grande tela dipinta, l’urlo soffocato diventa percepibile, anche fisicamente. Eppure quell’accumularsi di palazzi e finestre e linee e segni, diventa un affascinante agglomerato dove esseri del modello di quella scultura di tubi di gomma nera dalla forma antropomorfa (forse un supereroe? o un modello scartato di robot?) vivono e scalpitano, pronti a quella corsa che deve essere l’unico modo di muoversi là, tra quei grattacieli incombenti. Avrei voluto, ma ci saranno altre occasioni, anche una delle sue giungle di catrame. Lo spazio era tiranno, da Egg come in questo testo che qui con umiltà si conclude.
Degli egregi scrittori, Licht, Lisi e Loria, accomunati da una iniziale Lusinghiera e Lussuriosa Stanza 251, vi ha parlato e vi parlerà a lungo. A loro solo un sentito ringraziamento da curatore soddisfatto. Molto soddisfatto.
Sergio Tossi (testo)
Chiara Nicolosi & Carlo Zei (immagini)