In Scandinavia

Come sempre non sapevo cosa avrei visto alla mostra verso la quale mi stavo avvicinando, passo dopo passo, con la solita avversione per il tempo presente in cui siamo costretti ad esistere e già desideravo contenere la possibile delusione entro una scala comunque accettabile di rimpianti e possibili recuperi di dignità. Il fatto che i due artisti provenissero dalla Scandinavia non mi aiutava ad immaginare le forme che le opere potevano assumere. Parlando di arti figurative non conosco i contesti, gli stili in atto, le mappe delle attività svolte dalle nuove generazioni nel grande nord dell’Europa. Se ascoltiamo musica jazz è un altro discorso: tutti sanno che in quelle terre vengono prodotte musiche inedite, a volte eleganti messe a fuoco di tradizioni lontane, in altri casi sorprendenti e incendiate operazioni anarchiche, rivolte a corrodere le strutture in nome di una espressività tutta liberata, senza alcuna paura di esagerare, nessuna facilità concessa al pubblico, con il solo imperativo di lasciare esplodere l’energia e poi si andrà dove è necessario andare. 
Arrivato davanti alla galleria, vista la vetrina coperta dalla rete scura dello svedese Klas Eriksson, con gli aeroplani di carta bianca imprigionati dentro le maglie, ho pensato che la mostra mi piaceva già molto, perché i musi appuntiti dei piccoli jet - saggiamente rivolti verso i visitatori che entravano- suggerivano una condizione di prigionia adeguata al periodo attuale. Oggettini utopici bloccati in volo, al tempo stesso la constatazione di un’impossibilità ed un appello alla rivolta. Nelle sale interne, sempre dello stesso autore, ho trovato opere capaci di confermare la vitalità della pittura. Alcune tele astratte -dipinte con tecniche miste, ma soprattutto con inusuali fumogeni colorati –evocavano un romanticismo in technicolor assai gustoso, declinato in forma di riflessione sui confini (ovviamente inesistenti) della pittura contemporanea. 
Al piano sotterraneo, come in una grotta segreta, un deposito dell’inconscio ben organizzato, i lavori del norvegese Be Andr sembrano affermare l’assoluta centralità della matrice linguistica, collocata all’origine di ogni pensiero e forma. Così l’estetica delle opere è letteralmente modellata dalle frasi applicate sopra le superfici specchianti. In un gioco molto sofisticato di rimandi mentali e questioni poste all’occhio dell’osservatore, con rivelazioni che finiscono per rovesciarsi in enigmi. Alla fine, dopo avere a lungo guardato questi segnali, questi residui attivi del linguaggio che tutti parliamo e nessuno di noi possiede realmente, a dominare suprema è la geometria degli spazi visivi. Le matrici letterali promettono al pubblico qualcosa che forse non saranno in grado di mantenere. Dal mio punto di vista questa è una grande emozione.


Trasformative limits. Klas Eriksson, Be Andr. Eduardo Secci Contemporary, via Maggio 51r, Firenze. 
www.eduardosecci.com

Stefano Loria (testo)
Carlo Zei (immagini)