Incipit per un romanzo
Da circa un’ora forse più Alberto parlava della velocità con cui gli iceberg del Polo si stavano sciogliendo. Aveva preso dal bicchiere di un tavolo vicino un cubetto di ghiaccio e l’aveva appoggiato sul suo, poi ci aveva avvicinato l’accendino a un centimetro, questa non è una metafora diceva con un tono di voce isterico, è da intendersi in senso letterale.
Poi tornava a un volume di voce naturale calmo piatto opalino e diceva che al di là dell’ovvio innalzamento dei mari e degli oceani che avrebbe fatto sì che intere città e aree costiere fossero sommerse e la gente costretta a migrare in altre zone e paesi lontani, si sarebbe verificata l’emissione nell’atmosfera di una quantità spropositata di un gas, di un certo gas di cui al momento non riusciva a ricordare il nome esatto, ma comunque poco importava, era un gas tossico che stava nascosto sotto le calotte polari artiche. E quella sarebbe stata la fine di tutto. Ne parlava con una certa cognizione di causa, o almeno così sembrava, perché così si esprimeva Alberto detto Berto: con precisione, sebbene con quel tipo di precisione che tendeva al logorroico. Jonny, che gli sedeva esattamente speculare, pensava dipendesse dal suo (suo di Berto) segno zodiacale: ariete.
Berto diceva anche che ultimamente non aveva fatto altro che leggere di queste cose qui, sui siti scientifici in inglese: del riscaldamento globale, dello scioglimento dei ghiacci, del gas, delle isole galleggianti sorte in mezzo al mare composte da bottigliette da mezzo litro che avevi buttato via senza pensarci anni prima nel bidone dell’indifferenziata... e molte altre cose diceva Berto con una certa cognizione di causa, se non che, pensava Jonny, il fatto che Berto scendesse così tanto nei particolari, in quelli che sembravano a tutti gli effetti dettagli secondari e vicoli ciechi che portavano da nessuna parte, gli precludessero di terminare una frase. Che Berto vedesse l’albero, ma perdesse di vista la foresta, era ciò che pensava Jonny.
Stavano in un bar-libreria fatto tutta di legno.
Con delle piante appese al soffitto, sotto a dei lucernari che trasmettevano una luce bianca ma calda, bevendo delle birre. E Berto, nel suo completo di lino chiaro elegante, ma finito, ironico, forse appartenuto al padre, con le sue scarpe da gondoliere ai piedi, sembrava non dar cenno di voler concludere il suo discorso. Che il discorso di Berto sarebbe finito mai, era ciò che pensava Jonny. Poi Berto si rivolgeva direttamente al terzo, seduto a quello stesso tavolino fatto con dei pancali o con delle cassapanche o delle madie recuperate e assemblate tra loro. Berto sceglieva che fosse il terzo, seduto allo stesso tavolo seppure sembrasse lontanissimo perso nei suoi pensieri, affondato tra correnti marine del bicchiere finto antico, per metà pieno di birra e lo schermo del computer che gli stava davanti, che fosse lui il suo interlocutore e gli diceva: Noi che ci dichiariamo scrittori e sotto certi aspetti potremmo dire che lo siamo, vi è solo un argomento che dovremmo affrontare nei nostri romanzi, ed è questo: l’antropocene. Perché tra qualche anno, quando il disastro sarà sotto gli occhi di tutti, i posteri sopravvissuti che vivranno in cima ai monti o sulle palafitte si domanderanno: che cosa facevano gli scrittori in quel periodo storico? Di che cosa parlavano i loro libri? Perché la loro preoccupazione principale era solo e soltanto di pubblicare un nuovo romanzo e con quale casa editrice pubblicarlo?
Jonny fece cenno al barista Francozzi di avvicinarsi, e indicò con aria da cospiratore i tre bicchieri semi vuoti ruotando un dito in aria con un movimento quasi ipnotico, lasciando intendere di volere altre birre. E certo se non fosse stato Jonny, ma uno degli altri due a fare la richiesta e farla in quel modo, se ad esempio fosse stato Berto, il barman Francozzi l’avrebbe guardato con la sua aria di disprezzo, la più grande che fosse riuscito ad assumere e gli avrebbe detto, anzi nemmeno detto, ma con un semplice sguardo avrebbe fatto capire: ma vai a mori’ammazzato, ma pijiatele te ‘ste bire, a’ fijio de papà, Berto er communista che hai lavorato du’ ggiorni in vita tua, col modo brusco, ma in fondo dolcissimo di dire le cose che aveva Francozzi. Tuttavia in quel caso no, se la richiesta veniva da Jonny tutto era concesso, e infatti ecco che come conquistato dal gesto e dal modo di guardare le cose di Jonny, Francozzi si avvicinava in un attimo al tavolo di legno dei tre circondato da altri tavoli di legno simili, e lasciava là le tre birre senza aggiungere niente.
Il terzo uomo, che fino a quel momento non aveva parlato e nemmeno rivolto uno sguardo ai due che gli sedevano intorno, perso nello schermo del suo computer portatile, alle parole di Berto che gli erano state rivolte si girò verso di lui con lentezza esasperata, quasi studiata (Jonny pensò allora che anche quello dipendesse dal suo segno zodiacale, ariete pure lui) e disse: Sono d’accordo Bertuccino, la questione di pubblicare romanzi ci sta molto a cuore. Forse troppo. Tuttavia anche il tema che tu dichiari così importante, il disastro climatico, non mi sembra così decisivo, e ti spiego il motivo. Non prenderla come una provocazione Berto, sono sicuro che tu hai ragione. Che il mondo finirà. Sono certo dal modo in cui ne parli che tu abbia ragione da vendere, le argomentazioni che porti sono più che ragionevoli, i siti in lingua inglese su cui ti sei documentato nelle tue lunghe notti insonni, probabilmente, lo dico senza nessun tipo di giudizio, dopo esserti masturbato compulsivamente e aver assunto droghe, quei siti non mentono: il mondo sta finendo davvero. Tuttavia ti invito a considerare la questione da un punto di vista psicologico.
Psicologico, ripetè Berto.
Non credi che ogni generazione prima della nostra abbia creduto che il mondo stesse finendo? Che i nostri padri con le loro guerre fredde avessero ragione di credere che il mondo sarebbe finito? E prima di loro che i nostri nonni con le loro guerre mondiali, con le loro Hiroshima e Nagasaki credessero lo stesso? Insomma da un punto di vista esclusivamente psicologico, non ti sembra che il riscaldamento globale sia niente di più e niente di meno che un pensiero narcisistico?
Narcisistico? Fece eco Berto.
Che ogni generazione abbia paura che il mondo finisca perché in verità lo desidera. Che sogniamo di essere l’ultima generazione. Che dopo di noi non ci sia niente. Lo speriamo Berto. Lo vogliamo.
C’era un certo silenzio di fondo ai tavoli intorno a loro e anche a quello dei tre. Coi loro pochi o tanti capelli bianchi sulle loro teste, e rughe intorno agli occhi come piccole increspature nel mare, e i loro corpi che ad altre latitudini e in altri tempi sarebbero stati all’apice della forza e del vigore fisico, corpi tesi a generare quanti più figli prima di morire per malattie o di morte violenta ad opera di quegli stessi figli e ancora e ancora, mentre là, in quella libreria-bar erano solo i corpi di alcuni trentenni simili ad adolescenti fuori formato. E infatti di lì a un secondo, senza un motivo apparente, i tre cambiarono argomento e cominciarono a parlare dei libri che stavano scrivendo, e con chi li avrebbero pubblicati, come facevano ogni volta che si vedevano.
Berto sarebbe uscito a breve con un romanzo sugli hikikomori (quei ragazzi giapponesi che non uscivano mai dalle loro camerette), avrebbe pubblicato con una casa editrice piccola, è vero, nata da soltanto un anno, ma che faceva cose di grande qualità. Non solo. Una casa editrice che osava. Libri coraggiosi si diceva nell’ambiente editoriale. Berto evitava di parlare di questa novità, salvo che gli altri due non glielo chiedessero esplicitamente, perchè era così che l’idea della pubblicazione assumeva ai suoi occhi tratti più belli ancora: vaghi e cangianti come i colori di un fiore da portare all’occhiello.
Jonny col suo viso pacificato, la sua parlata monocorde e affascinante, il naso camuso e indosso la solita t-shirt fruit of the loom bianchissima, come al solito non scopriva le sue carte: parlava a volte quando era ubriaco di un libro a cui stava lavorando già da un bel po’ di anni (la costruzione di un pozzo, a Parigi), del fatto che avesse da qualche mese deciso di porsi una data di scadenza, ma non aggiungeva niente oltre a questo. Gli altri due erano convinti che il libro a cui Jonny stava lavorando fosse molto buono, forse addirittura ottimo.
Mentre il terzo, di nome Yuri segno zodiacale ariete, stava lavorando al suo secondo romanzo. Di questo secondo romanzo gli altri due amici sapevano quasi tutto. Perché, come si diceva a quelle latitudini, Yuri “non reggeva nemmeno il semolino”, che voleva dire che non era in grado di tenere un segreto. Sebbene questo non fosse completamente vero. Era un romanzo che parlava di yoga e ci stava lavorando da quasi due anni.
Come va come va il nuovo romanzo? Chiedeva Jonny. Pronto per andare alle stampe?
Non direi, diceva Yuri tornando col viso dentro le spire del bicchiere finto antico, finto moderno per tre quarti pieno di birra. Anzi, se per mesi ho creduto che fosse pronto, poi ho capito che non era finito per nulla e che ci sarebbe anzi da lasciare perdere e scrivere tutt’altro: ricominciare da capo e fare un bel romanzo sui postini nel terzo millennio. Sulle minacce dell’automazione, le paure di un postino privato, e i suoi sogni. Delle strade che si dispiegano davanti a quest’uomo antico e moderno, le vie, i viali, le piazze, i quartieri centrali e le enormi periferie, e i numeri civici che per lui sono messaggi o simboli da decifrare. Messaggi da parte di chi? Nessuna risposta. Un bel romanzo epico. Raccontare di una comunità di uomini che vivono in un mondo senza più comunità, sospesi tra il mondo del lavoro e la fine di tutti i lavori.
Sembra interessante, diceva Jonny.
Pensavo anche che sarebbe bello che questo romanzo fosse composto solo di incipit. Perché gli incipit hanno una forza portentosa, una forza che poi i romanzi non possono avere. Perché un incipit è qualcosa che deve bastare a se stesso.
Mi sa che l’hanno già fatto, diceva Berto.
Il romanzo sui postini privati?
No, non quello. Quello fatto di incipit, faceva Berto che sapeva sempre tutto. Anzi forse ce ne sono più di uno. Ora ci penserò.
Ma il romanzo sullo yoga? chiedeva Jonny che invece non si perdeva nelle strade laterali, che pure era la bellezza di Berto che intanto si stava aggirando pensieroso nella libreria, elegante e decadente nei suoi vestiti e modi, lanciando un’occhiata a una studentessa americana che da quando era entrata non li aveva degnati di uno sguardo. Berto si aggirava in mezzo ai tavolini alla ricerca tra la memoria e gli scaffali di quei libri d’incipit che di lì a cinque minuti avrebbe trovato e buttato sul tavolo con un fare da primo della classe.
Il romanzo sullo yoga, ma non era quasi finito? Lo hai detto tu l’altra volta.
Sì, cioè da buttare. Mentre ero in Cina ad accompagnare Daniel a fare dei lavori, anzi più che altro delle cene di lavoro, mi è venuta voglia di stravolgerlo, di cambiare tutto dall’inizio alla fine. Farne un bel giallo, un thriller sullo yoga, ambientato negli anni Settanta. Che era quello che in origine voleva mio padre. E aveva ragione. Primo perché nei gialli le storie sono sempre dei pretesti. E questo io lo trovo onesto. E poi perché i gialli sono gli unici libri che vendono bene. Sarà anche vero che la scrittura per me è una forma di preghiera in quanto inutile (non ci salveremo Jonny, tutto quanto finirà in un bidone della spazzatura, ci finiranno i capolavori immortali della letteratura, nel bidone, figuriamoci i nostri romanzi, ma questo andrebbe anche bene, lo rende una pratica di ascesi) ma forse uno due soldi li vorrebbe anche fare. Non credi?
Bah.
E poi mi sono detto che sarebbe bello finirla. Non finire il romanzo, ma intendo proprio smettere di scrivere. Di dedicarci tutte queste ore e pensieri. Quanto mi sentirei leggero. Prima era diverso, quando ho scritto l’altro, era diversa la scrittura e ero diverso io. Una specie di rabbia giovane che ora non sento più. Anzi no, non era nemmeno rabbia, semmai tutto l’opposto: era una specie di cura di me, un metodo per ascoltare gli altri e ascoltare me stesso.
Che sciocchezze dici Yuri, mi sembri come uno di quelli che la sera beve un bel po’ e si ubriaca e il giorno dopo ci ripensa. Ma lascia stare. Non ci ripensare. Hai scritto un libro e ora ne scriverai un altro. E poi un altro ancora. Ecco tutto. Ma piuttosto con chi hai intenzione di pubblicarlo?
Questo è un tema secondario, direbbe il nostro Berto. Secondario rispetto al gas tossico che sta sotto le calotte polari. Credo che la parola che non riuscisse a ricordare fosse permafrost. Tra l’altro te Jonny ci credi alle cose che racconta Berto? Io sì, credo davvero che il mondo finirà. Comunque forse quello che mi esaspera è proprio questo: scrivere un romanzo, cercare qualcuno con cui pubblicare, poi impegnarsi perché la gente lo legga, ottenere delle recensioni, ma io dico: non ci è ancora venuto a noia? Perchè non parliamo d’altro? Anzi, perchè non andiamo via?
Perché? Si sta così bene qui dentro. Finché Francozzi non ci butta fuori. Ma Carla cosa dice di questa idea di ricominciare tutto da capo? chiedeva dopo un po’ Jonny con la sua faccia solare, da dio centro-americano, come se fosse l’unica domanda possibile.
Dice che è la mia solita paura di finire le cose. Che invece dovrei concentrarmi sul romanzo dello yoga senza perdermi nei sentieri interrotti, nei nidi di ragno e soprattutto di non dare mai retta a Berto.
Vuoi anche il mio parere? Io farei come dice Carla.
Poi ognuno tornava dietro al suo computer, tra le birre e gli schermi e i libri d’incipit che Berto aveva lanciato sul tavolo rischiando di rovesciare tutto e che nessuno aveva guardato, ciascuno a inseguire il romanzo del futuro che chissà se un giorno sarebbe stato pubblicato e da chi. A meno che non fosse sopraggiunta la fine del mondo.
L’aria condizionata fissata sui venticinque gradi centigradi emetteva un lievissimo sibilo che solo adesso, che tutti erano in silenzio, si riusciva quasi a percepire. Il computer di Yuri gli illuminava debolmente il volto, nel rettangolo-mondo in cui era fissato il suo sguardo vi capeggiava una pagina bianca virtuale con una scritta apparentemente priva di senso e un simbolo indiano.
Yuri stava là immobile guardando quella pagina quasi fosse davanti a una pianura immensa e luminosa che gli si apriva di fronte. Ad altre latitudini sarebbe potuto sembrare una specie di esploratore giunto fino a quel posto al termine di una navigazione lunga e faticosa o anzi per meglio dire come qualcuno che si era completamente perso là dentro e non sapeva come uscirne.
Simone Lisi è nato a Firenze nel 1985. Ha pubblicato nel 2018 il romanzo Un'altra cena, o di come finiscono le cose e nel 2021 il romanzo Padre Occidentale, entrambi con la casa editrice effequ. Lavora alla libreria Todo Modo di Firenze, partecipa e collabora con numerose riviste e premi letterari.