Vanni Santoni presenta "I fratelli Michelangelo"
Prima di tutto, un saluto e un ringraziamento a “Stanza 251” e ai suoi lettori. I fratelli Michelangelo, questo romanzo di seicento e più pagine che ho cominciato a scrivere nel 2012, è uscito da pochi giorni e sta già facendo parlare molto di sé, grazie a tante recensioni, tantissimi commenti dei lettori, e anche in virtù di alcuni estratti pubblicati in giro. Tuttavia, quando si effettua un “carotaggio” da un libro così ampio – e per di più un libro che ha interi blocchi dedicati alle vicende di diversi personaggi – il rischio è che tali estratti risultino fuorvianti, portando a volte chi vi incappa a credere che uno dei tanti aspetti del romanzo sia quello decisivo, che ne definisce il carattere. Così in questi giorni I fratelli Michelangelo si è fatto via via romanzo picaresco con i personaggi di Louis e Carletto, disamina sul mondo dell’arte contemporanea con Cristiana, romanzo di formazione sentimentale con Enrico, e altro. Così, di fronte alla possibilità di pubblicare ancora un estratto qua dagli amici di “Stanza 251”, sempre generosi con i miei libri (e con quelli dei miei pupilli!), ho fatto la scelta forse più naturale, e tuttavia ancora non effettuata, decidendo di affidare loro l’incipit e tutto l’inizio del romanzo, da quando il vecchio Antonio Michelangelo si sveglia assieme alla giovane fidanzata Nicoletta, figura che più in là assumerà un ruolo molto importante, fino al primo arrivo dei quattro fratelli in quel di Vallombrosa, con l’ostensione della cartolina d’epoca di Villa Formenti – Villa Fortuna nella finzione letteraria – che mi piace particolarmente vedere qua sulla “Stanza” considerando quanto, da sempre, la rivista abbia privilegiato la commistione tra testi e immagini.
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Da I fratelli Michelangelo di Vanni Santoni, per gentile concessione di Mondadori:
– Sei sveglio?
– Colette?, – dice lui, e apre un occhio. Solo l’occhio destro, e la vede nello specchio sulla parete davanti, nuda e bocconi, come posata sopra le lenzuola di lino ricamato, e poi viva accanto a sé, che gli dice, piano:
– Oui. Sei venuto a letto tardissimo, stanotte.
Lui si volta appena, ne inspira l’odore:
– Dovevo finire l’ultimo pannello. È stato un sogno, adesso, a svegliarmi.
– Le mogli?
– Cosa intendi, di grazia?
– Ieri hai detto di aver sognato le mogli, ricordi, e ti ho chiesto se c’ero anch’io.
– No. Qua eravamo…
– C’ero, quindi?
– Sì.
– E cosa facevo?
– Mi dicevi: Non hanno capito che sei solo un contadino?
– Ah oui? Et pourquoi?
– Parce qu’ils devaient me manger.
– Ma non c’è molta carne qui, – dice lei mordendogli il costato, tutto tendini e ossa, e cotenna. – E chi doveva farlo, sentiamo.
– I miei figli.
– Ah. – Dice lei, e si scosta un poco.
– Cosa?
– Niente, – dice, e tira su di sé il primo lembo di lenzuolo che trova a portata di mano.
– Dimmi.
– Perché non mi parli mai di loro? Ne hai parlato anche a quella là del giornale. Con me, mai.
– Ecco: cambiamo soggetto.
– È per la mia età?
– Falla finita.
– Falla… Finita?!
– Ti avevo chiesto di farti un giro, questo fine settimana. Sei voluta rimanere.
– Ancora con questa storia? Cos’è, devi dirmi qualcosa?
– Spiegati.
– Che… Ma niente, – dice lei e si mette seduta sul bordo del letto.
– Dimmi.
Si volta:
– Che ti girano perché non hai potuto far venire una tua amante?
– Una mia amante! No, Colette, niente del genere. Hai voluto fare a modo tuo? Ebbene, allora io faccio a modo mio.
Lei afferra l’abito dalla sedia e ci si infila dentro. Poi ficca i piedi nelle scarpe:
– Meglio se vado a comprare il pane.
Il suo sbattere la porta, forte ma controllato, come a rimarcare il risentimento senza però escludere una successiva pacificazione, gli toglie un sorriso. La ascolta scendere le scale, attraversare il salone, l’ingresso; attende il rumore della porta sotto, poi a sua volta si alza in piedi, si stira. Si vede nello specchio: lungo, scuro, fibroso; i peli ispidi, sulle spalle più che sul petto, e quasi tutti ancora neri; il sesso pure scuro – un caprone davvero, come scherza lei a volte. Prima di tornare a letto si porta al finestrone, vagheggiando di vederla passare sotto, anche se sa che è uscita dalla porta dietro e prenderà quindi l’altra strada. Vede passare, invece, una macchina. Un piccolo fuoristrada Suzuki, di quelli che andavano di moda una quindicina di anni prima, e che aveva anche sua moglie Beatrice: sarebbe facile allora immaginarci dentro uno dei suoi figli, sempre che siano venuti in auto. Sempre che siano venuti, in effetti. Verranno? Da questo finestrone, pensa, non si può tener d’occhio che un pezzetto di strada, ma li si può perlomeno immaginare: Cristiana, Rudra, poi Louis, e ancora Enrico, qualunque sia il suo volto, uno dopo l’altra… Si fa presto, poi, a dire “pezzetto di strada”: è pur sempre la curva del Belvedere, quella dove – ricordi, Rudra? Cristiana? – ci fermavamo quando scendeva il buio e giocavamo a riconoscere i paesi a valle, nidi di stelle capaci ogni volta di meravigliarci; a trovare il punto dietro ai colli dove stava Firenze, il suo chiarore simile a quello di un’alba imminente, e ancora la S dell’Autostrada del Sole, un nastro di luci che aveva sempre la pulsazione del futuro, anche se in quelle estati marcavo i cinquantasei anni, i cinquantasette. In queste sere, i paesi mi sono apparsi come vaghe e sparse lucciole; il chiarore di Firenze quello di un residuo di brace, e la S dell’autostrada, una sig: una ϟ distesa e molle, come un sigillo a un tempo esiziale e stanco… A ogni nazione è dato un termine, e quando il suo termine giunge, non v’è uomo che possa farlo arretrare o affrettare di un’ora: cos’era, la Sura del Limbo? Ma forse, forse sono solo io. Io che, fissato un mio termine, messe in moto le mie intenzioni, non posso che tendere a una cosa: al vostro arrivo, nel quale non mi resta che sperare, visto il mistero che da solo mi sono imposto e creato.
***
Pure, arrivano. Sparsi, ma tutti quel giorno; tutti nel giorno che gli è stato indicato, nonostante siano partiti da luoghi lontani o molto lontani. Nonostante siano partiti da Stoccolma, Londra, Bali, Tel Aviv.
Rudra, anzi, deve essere partito dalla Svezia nella notte se ha avuto già il tempo per una prima ricognizione: se lo si può riconoscere nella figura che discende da una ripida sterrata, la sacca militare in spalla e l’andatura molle a dargli un’aria minacciosa, subito sciolta dal venirgli incontro di un tipo biondo e dinoccolato, che si trascina dietro un trolley di smalto rosso:
– Till sist! Se ci mettevi ancora cinque minuti…
– Ti avevo detto di aspettarmi all’abbazia.
– Non ti vedevo arrivare!
– Va bene. Muoviamoci.
– Dove vuoi andare, adesso?
– All’Arboreto.
– Aha?
– Il giardino botanico. Davanti all’abbazia, appunto.
– Ma cos’hai, oggi?
– Senti, Mats, – dice a mezza bocca, poi senza finire la frase tira fuori il cellulare.
– A chi scrivi?
– A Cristiana. Scrivo a Cristiana.
Ed eccola, a bordo della vecchia Suzuki Vitara che qualche minuto prima passava dalla curva del Belvedere: ecco che agguanta dal cruscotto il Nokia che segnala l’arrivo di un sms, se lo ficca in tasca e finisce di parcheggiare nella strada dietro l’unico bar del paese, poi si guarda di fronte e di profilo nello specchietto, prende dal sedile del passeggero uno zaino e una cartellina ed esce. Non fa due passi ed è già inciampata. Si alza, sbuffa, controlla che la Canon che ha al collo sia a posto, si pulisce i palmi dall’erba e dal ghiaino; poi raccoglie la cartellina e tutti i fogli che si sono sparsi a terra. Per prima, una cartolina. Soffia via la terra, si prende il tempo di guardarla ancora una volta:
Raccoglie poi una specie di modulo, un mezzo foglio da disegno con disegnata sopra una piantina, e ancora una lettera con alcuni passaggi evidenziati, su cui pure si sofferma: “per Enrico, l’Abetina … Louis, dai frati … Rudra al Principe di Savoia … E tu…” Ficca tutto dentro e intanto risale da una scaletta di cemento fino a un giardino al cui centro ristà una fontana con mascheroni di fauni; da lì procede a colpo sicuro fino a un basso pannello bianco con scritto, a vernice verde, GRAND HOTEL. Giunta sulla soglia del cancello, da cui l’albergo si mostra nella perfetta simmetria di ogni pur decadente elemento, Cristiana si ferma, appiccica un adesivo su uno dei colonnini, poi mette la Canon in modalità video ed entra filmando davanti a sé.
Intanto, un uomo alto e grosso scende dall’unica altra auto giunta a Vallombrosa-Saltino quel mattino: un taxi con la sigla di Firenze. Fanno ottantasei, dice il conducente; lui tira fuori di tasca un rotolo di banconote, cerca gli euro tra varie valute, lascia un pezzo da cento e procede verso l’Abbazia mentre il taxi riparte lungo la statale. Le mura paiono sbarrate. C’è solo un ometto che spazza il parcheggio laterale, su cui dà un’altra porticina, pure chiusa.
– Scusi, lei.
– Icché c’è.
– Questa è l’Abbazia. Sbaglio?
– Gl’è questa sì.
– È da qua che si entra?
– Entrare? No, no, ‘un si pòle.
– Come?
– Dico, ora ‘un si pòle.
– Ascolta, bagonghi…
– Oh, oh, stia bono, o’ cosa fa? Mi lasci, abbia pazienza…
– C’è una camera qui a mio nome. Michelangelo. Louis.
– No, no… – Dice quello alzando gli occhi verso l’abbazia, iernotte hanno sfondato l’uscio dietro… Ora ‘un si pole… Che mi potrebbe lasciare, per cortesia?
Louis gli fa poggiare di nuovo i tacchi a terra e alza a sua volta lo sguardo. A una finestra scorge la capoccia tonsurata di un frate. Gli fa un cenno ma quello scompare dalla visuale. Allora molla del tutto l’ometto:
– E va bene, tanto mentre il taxi mi portava qua ho visto un albergo, fanculo.
Ecco, infine, sull’altro versante, una Renault Clio metallizzata che sale dal Valdarno per Loro Ciuffenna, costeggia i pascoli in mezzo ai quali si staglia rossa di antiruggine la Croce del Pratomagno e da lì attraversa la spianata di ripetitori e fienili di Secchieta per sbucare a Vallombrosa da dietro l’Abbazia. Da lì scende verso il Saltino e si ferma a mezza strada, davanti a quell’hotel Abetina che, per il biancore umido delle mura e gli sparsi anziani sulle sedie del giardino, darebbe anche al più superficiale degli sguardi l’immediata impressione di un sanatorio, e quello del ragazzo che esce dalla Clio non si limita a ricevere tale impressione, ma ne esprime a sua volta una: un senso di spaesamento, come quello di chi, ogni minuto di più, si chieda come sia finito in un certo luogo.
Vanni Santoni (1978), dopo l'esordio con Personaggi precari, ha pubblicato, tra gli altri, Gli interessi in comune (Feltrinelli 2008), Se fossi fuoco arderei Firenze (Laterza 2011), Terra ignota e Terra ignota 2 (Mondadori 2013 e 2014), Muro di casse (Laterza 2015), La stanza profonda (Laterza 2017). È fondatore di SIC – Scrittura Industriale Collettiva (In territorio nemico, minimum fax 2013). Dal 2012 dirige la narrativa di Tunué. Scrive sul Corriere della Sera e sul Corriere Fiorentino.