Tunk / All Tunked Down
Jilly ed io passammo un brutto periodo, a novembre. Più impenetrabile che brutto. Non riuscimmo a passarlo insieme.
Vent’anni nello stesso bugigattolo diventano un mucchio di roba tirata fuori dall’armadio e gettata sul pavimento, tanta da spezzarti il cuore. Una volta era divertente uscire a cercare roba che volevamo, o che credevamo ci servisse. Non si può dividere una pentola di ghisa, quando finiscono i pianti e le urla. Non si può dividere nulla, alla fine, a parte una coppia.
Diedi un’ultima occhiata al tumulo sulla moquette. “Tieniti ciò che vuoi. L’Esercito della salvezza verrà a prendere il resto.”
Uscii, ma non sapevo dove andare, se non nel parco per urlare sotto la pioggia. Ci andai, e feci così.
La città si rabbuiò. Prese a piovere ancora più forte. Il parco non è una buona dimora per persone civili. Bisogna scrollarsi di dosso la civiltà per abitarci. Ciò richiede tempo e sforzi.
La stazione degli autobus non era affollata. La cassiera ripeté con grande pazienza l’orario delle corriere che partivano per Scranton. Il paziente psichiatrico non era in grado di assorbire quei numeri, non voleva tornare in provincia e vivere con sua madre. Ma la realtà era quella, perfetta splendida brutale e onesta.
Il torpedone chiamato Scranton mugugnò. Forse era lo stesso bus che presi l’ultima volta che impazzii, quando decisi di andare a studiare nella grande città, piuttosto che dare una mano nell’autofficina di mio padre. Voleva che prendessi in mano la ditta. Per un po’ l’avevo voluto anch’io. Le cose che pensavi di volere cambiano. Non volevo tornare a casa. L’autofficina era diventata un fast food. Un posto dove forse mi avrebbero assunto. Mia madre viveva sempre nella vecchia casa. Il posto non era cambiato, a parte che lei non rigovernava più. Forse non puliva nemmeno allora, ma a quel tempo non me ne accorgevo. Non usciva, perché aveva avuto un ictus dopo troppi anni passati a bere troppo.
L’alcolismo è una storia genetica, di famiglia, come la calvizie, il cancro, i capelli rossi, la sclerosi lateral amiotrofica. Non mi considero un alcolista. Ero diretto a casa, a Scranton.
Il mezzo si riempì in fretta verso la partenza. Ero l’unico con un posto libero accanto. Mi sentivo un lebbroso.
“Per favore, è libero questo posto, signore?”
Una voce fumosa mi strappò da un brutto sogno. “Certo,” dissi. “Libero come l’aria.” Come se l’aria fosse veramente libera.
Ma c’erano due persone a guardare vogliose l’unico posto libero per tornare a una delle città più brutte degli USA. Una biondona non più giovane, e un ragazzo che mi assomigliava in modo conturbante.
Mi assomigliava com’ero in quel momento, intendo. Non com’ero da ragazzo. Quindi la donnona non disse, “Ti ricordi quella scopata che eravamo ubriachi nella tua macchina e mi dicesti che l’avevi tirato fuori? Beh ti sei sbagliato, mister.” Disse invece, “Siediti pure accanto al gentile signore, Adam.”
Adam si sedette. Non era il caso di chiedergli se voleva sedere accanto al finestrino. Qualsiasi posto gli andava bene. Aveva la sindrome di Down, e poi là fuori c’era solo un grande buio.
“Tende a innervosirsi sugli autobus, signore. Ti dispiacerebbe tenerlo d’occhio? Basta dirgli ogni tanto che va tutto bene. E magari lo potresti accompagnare anche al bagno.”
“Nessun problema. Ma... non vieni anche tu?”
“Va a stare un po’ con suo padre. Ci siamo messi d’accordo così, dimodoché non dobbiamo mai più rivederci. Ma se preferisci di no... ”
Adam mi guardò. Solo una vera carogna avrebbe detto, levami di torno ‘sto mongoloide puzzolente, stronza.
La biondona non disse ciao amore, né buon viaggio ci vediamo la settimana prossima. Girò i tacchi alti e rifece la corsia senza guardare indietro e senza salutare il conducente, che si metteva i guanti da guidatore professionista.
Appena scese, lui avviò il motore e chiuse la portiera con l’anacronistica levetta.
Adam il ragazzo abnorme mi prese la mano quando la corriera uscì dal Port Authority Bus Station a passo d’uomo. Mugugnò tristemente e chiuse gli occhi quando scendemmo la rampa verso il Tunnel del Terrore. Il casello dell’autostrada gli fece paura, specialmente quando il cassiere amichevole urlò, Buona serata a tutti. Era il suo modo umano di sopportare quel lavoro disumano.
Adam tornò ad ansimare normalmente quando eravamo sull’autostrada diretto a ovest.
“Grazie,” disse, e ritirò la mano secca. Dopo poco si addormentò, la fronte schiacciata contro il retro del sedile davanti a lui. Sbrodolò un rigagnolo di saliva. Luci di motel, distributori, insegne luminose, diner, macchine dirette in città, camion carichi di vettovaglie per la colazione per permettere ai cittadini di iniziare bene un’altra giornata di lavoro illuminarono lo schermo del suo profilo sinistro.
Non riuscii a dormire. Guardai il conducente, per assicurarmi che fosse sveglio. Guidava benissimo. Era in orario e in controllo della situazione. Le insegne dell’autostrada mi ipnotizzarono.
Verso l’alba arrivammo a Scranton. Passammo il liceo, e la chiesa dove avevo sempre finto di pregare. Quando lo confessai a mia madre, mi disse che fingeva pure lei, ma che andava bene. Mio padre, il meccanico pragmatico, non andava in chiesa, non credeva e non voleva fingere di credere che nella vita, nel mondo e nel cielo ci fosse di più di quanto sia visibile alla luce del giorno. Passammo il viale dei barboni. Cercai di fingere che era bello tornare a questi luoghi familiari.
“Sveglia, Adam. Siamo quasi arrivati. Devi andare in bagno?”
Adam doveva andare in bagno, e ci andò. Aspettai, quasi contento che riusciva a pisciare da solo, e che non mi avesse vomitato o sbavato addosso. Ero contento di essere contento di qualcosa. Cercai di capire quanti anni potesse avere. Sicuramente più di quattordici, probabilmente non ancora trenta. Aveva qualche cappello grigio alla nuca, ma forse ciò faceva parte della sindrome.
Il conducente parcheggiò, spense il motore e si massaggiò gli occhi. Il veicolo si svuotò piano.
Adam era rimasto bloccato nel cesso. Lo sentii che scuoteva la maniglia, sempre più freneticamente. Picchiava la porta, borbottava, sull’orlo di grida e pianti. Mi alzai e barcollai verso il retro.
Il conducente sentì ululati di terrore e capì la situazione. Portò la chiave d’emergenza e me la porse con un gesto di solidarietà. Forse aveva un figlio ritardato nascosto da qualche parte.
“Calmati Adam,” dissi. “Ora ti tiriamo fuori.”
Nessuno venne a soccorrere il figlio difettoso, di cui conosceva intimamente le fobie e difficoltà.
Emerse un Adam smunto, pallido come una federa sporca. Alzò le braccia per essere rassicurato. Ballammo piano.
“Forza, Adam. Dobbiamo scendere. Il gentile conducente ha da fare. Dov’è che devi incontrati con tuo padre?”
Non c’era nessuno sulla piattaforma.
Un altro sguardo confuso.
Sfilammo per il corridoio del bus tenendoci per mano, una danza macabra in cui il cattivone ero io. “Sicuramente ti aspetta nella stazione, al calduccio.”
“Buona giornata,” disse il conducente. Arruffò i radi capelli di Adam, e gli regalò una spilla col logo aziendale della linea di autobus da portare sulla giacca. Lo adoravo, il conducente.
Altra possibilità di lavoro, pensai. La ditta Greyhound è come l’esercito, o la Legione straniera. Devono per forza prenderti, darti un lavoro e qualcosa da fare, a patto che tu abbia due braccia, gambe, occhi e neuroni ciascuna.
“Grazie,” gli dissi. “Apprezzo molto, sul serio.”
Adam disse la stessa cosa, imitandomi la voce e la nota sentimentale. Sulla piattaforma, volle che gli mettessi subito la spilla da conducente. Mi ci infilzai il dito.
La fatiscente hall della stazione conteneva vagabondi spaparanzati come contorsionisti sulle panchine anti-barboni, donne dall’aria perduta, uomini conciati come cacciatori, o pescatori. Andavano a fare il tifo per le squadre delle loro università, oppure a tirare fuori dal carcere i loro figli problematici, assistere ai loro processi. Nessuno di loro era il padre di Adam.
Vidi in testa un delinquente. “Che aspetto ha tuo padre, Adam?”
Dovette pensarci.
“Come me,” disse. “Ma più grande.”
Perlustrammo in lungo e largo la Stazione di Scranton. L’edicola non era ancora aperta, oppure era chiusa per sempre.
Non avevo telefonato a mia madre per farle sapere che venivo.
Non era venuto nessuno a prendere Adam.
“Facciamo così,” gli dissi. “Andiamo da mia madre ad aspettare tuo padre. O vuoi fare colazione qui, prima?”
“Fare colazione qui prima.”
Volevo anch’io. E non era impossibile che qualche avanzo di galera sarebbe apparso, scusandosi per il ritardo, problemi di motore, investito un alce, fermato dalla polizia.
Consegnare Adam ai poliziotti non era nel mio stile, anche se sarebbe stata la cosa migliore, in questo caso. Mi avrebbero chiesto le generalità e fatto domande. Verso sera me l’avrebbero riportato. “Senta, mister, le dispiace? Il povero ragazzo non ha dove stare, per il momento, e noi avremmo lavori più importanti, da poliziotti.”
Venne la cameriera vecchia e grassotta per sentire cosa volevamo mangiare. “Che aspetto ha tua madre,” chiese Adam.
Visto che era così curioso, la descrissi senza esclusioni di colpi: occhi iniettati di sangue marcio con vene sporgenti, la lingua che sembra un marciapiede rosa dissestato, denti da mulo con strisce nere, incoronate dal Dott. Spannick, il dentista dei morti di fame, dalle mani pelose e l’alito orrendo. Persi l’appetito, nonostante l’aspetto appetitoso del corned beef hash con uova fritte e ketchup che ci servì la cameriera. Provai a pensare a come sarebbe stato baciare la madre di Adam.
“Ehi Adam, dimmi il tuo numero di telefono. Dovremmo chiamare tua madre per dirle che siamo arrivati e che stiamo bene.”
Scosse la testa forte da far volare gli occhiali. Rimisi a posto le aste dietro le sue banali orecchie.
“Come? Non sai il tuo numero di casa?”
Soffocò una risatina. Sapeva, ma non lo voleva dire.
“Ma non ce l’hai scritto da qualche parte? Non ce l’hai in tasca, nel caso ti dovessi perdere? È importante, Adam. Vuoi che tua madre stia in pensiero?” Tra me e me pensai, smettila di parlare al povero ragazzo come fosse un imbecille. Parlagli normalmente, cretino. A nessuno piace essere trattato da idiota da sconosciuti che non hanno alcun motivo di essere altezzosi.
“Dimmi ancora di tua madre. Dimmi ancora di tua madre,” disse Adam, come se mia madre fosse un personaggio da fumetto inverosimilmente comico. A volte il miglior modo di affrontare la realtà è ridere.
“Mi sono dimenticato di dirti che ha la faccia tutta rossa. Specialmente quando s’incazza. E devi stare molto attento, perché si arrabbia facilmente. Per esempio, se dovessi fare così... ” Alzai una chiappa.
Genio della comicità fa letteralmente morire dal ridere maschio ritardato di età indecifrabile.
“Dio, le verrebbe un infarto. Sai cosa farebbe? Mi sculaccerebbe, ecco cosa. Mi sculaccerebbe con un badile... un fottuto badile da neve.”
Guardai dalla finestra. Si era appena messo a nevicare in modo piagnucoloso. Non erano ancora le sette del mattino. Mia madre sicuramente non era ancora sveglia.
Vidi in testa Jilly che si preparava per andare al lavoro. Era il suo primo giorno da neo-single alla sua prestigiosa agenzia pubblicitaria. Del caffè fortissimo e la rivista New Yorker, sulla copertina l’etichetta di abbonamento ancora a nome mio. Jilly in pantaloni di pigiama e una felpa col cappuccio. Stava bene. Era felice di avere più spazio nell’armadio e una persona depressa in meno nel piccolo appartamento. Non potevo riscoppiare in lacrime, stavo raccontando di mia madre a un handicappato mentale. Continuai a lanciare occhiate al parcheggio fuori dal Terminal Diner. Forse la carogna che aveva messo al mondo Adam si sarebbe presentato, alla fine. Potevo rifilargli il conto della colazione.
“...e poi mi infilò le luride dita con le quali si scaccola il culo nelle narici, così.” Mi misi le dita nel naso. “E mi trascinò sopra filo spinato e vetri rotti. E poi mi costrinse a mangiare un topone di fogna. Non l’ha nemmeno cotto. Ma era meglio così, perché è una pessima cuoca. È proprio cattiva, Adam. Ma solo con me. Con te sarà buona. Diventerete grandi amici, te lo garantisco.”
La cameriera accarezzò Adam sulla guancia. Gli disse di tornare quando voleva, gli avrebbe regalato una fetta di crostata avanzata. C’è sempre un dolce gratis, per tipi simpatici. Non mi guardò nemmeno, anche se le avevo lasciato una bella mancia.
Partimmo a piedi dalla stazione degli autobus. Adam mi prese la mano agli incroci, mollandola appena fummo passati sani e salvi. La signora Rosscom stava aprendo il negozio di sigarette e cianfrusaglie che aveva ereditato quando suo marito pazzo crepò di enfisema e cancro al fegato. Lasciò la vedova con un vasto fondo commerciale zeppo di giochini assurdi e articoli per fumatori. Le riviste di donne nude e roba hardcore erano nel retro, dove stava di guardia Ixnay, un pappagallo brasiliano alto quasi un metro che imitava una sirena antiaerei e spargeva sul pavimento di legno il becchime.
La Rosscom mi riconobbe subito. Il moccioso della Mert, che una volta rubò braccialetti di caramelline. Volevo regalarli a Shirley Stevens, primo grande amore, che non mi guardò nemmeno perché era già alle medie. Con lo sguardo disse: alla fine devi pagare i tuoi reati e peccati. Sognavi il successo nella metropoli, ma ti sei ritrovato con una palla al piede anche tu. Bentornato a Scranton. Ma davvero credevi di poter fuggire?
“Ciao Teeter, come stai?” La riposta era, male. Le mani le tremavano dal morbo di Parkinson. Teeter era stato il nomignolo della vecchia Rosscom al liceo. Mia madre la chiamava sempre così, anche se alla Rosscom non piaceva. Forse la chiamava così appunto perché non le piaceva. Mia madre si beccò il nomignolo Mert, perché Myrtle era un nome alla moda, millenni fa. Non sapevo il vero nome di Teeter Rosscom, e in quel momento non me ne fregava niente.
Lei non mi sentì nemmeno. Era troppo impegnata a sottoporre Adam al terzo grado d’amore.
“Tu e tuo padre siete venuti a trovare nonna Mert, eh?” Stava cercando di capire perché eravamo lì in mezzo alla settimana, senza l’ombra di una festa in vista. “Scommetterei che oggi è il tuo compleanno, giovanotto, quindi ti farò un bel regalo. Vieni dentro.”
I braccialetti di caramelline oramai costavano cinque centesimi l’uno. Adam emerse dal negozio come una miliardaria da Tiffany, sfoggiando i nuovi gioelli. Sotto la flaccida ascella ostentava un giornaletto pornografico.
“Salutatemi Mert. Vuoi portarle da fumare? Sai, ora ha problemi a uscire per fare la spesa, e io devo vendere, accidenti ai supermercatoni. “
“Certo. Dammi due stecche di Kool, e uno di quei gingilli che dà una scossa a chi ti stringe la mano.”
“Ti piacerebbe causarle un infarto oltre a tutto il resto, vero?”
“Va bene. Affanculo te e i tuoi chiodi di bara ammuffiti.”
Teeter mi diede le spalle per concentrarsi su Adam. “Beh almeno tu sei un giovanotto gentile, comunque ti chiami. Torna a trovarmi quando vuoi. Ti farò altri regali, e possiamo guardare insieme la partita, o qualsiasi programma vuoi, e mi racconterai tutto di te.”
Non avevo le chiavi della casa in cui ero cresciuto.
Bussai.
La porta si aprì quanto bastava per svelare un occhio rosso sepolto tra rughe e una fila di radi denti marroni. “Cosa volete?”
Ma ero sicuro che mi aveva riconosciuto.
“Ci fai entrare, Mert?” Smisi di chiamarla mamma ancora prima che iniziassi a farmi la barba. “Fa piuttosto freddo, qua fuori.”
Tolse il catenaccio, rivelando lo squallore in sottofondo. “Era ora che ci degnassi di una visita. Peccato che tuo padre non ci sia, per questo onore. È morto, lo sapevi?”
“C’ero anch’io al funerale, Mert.” Per costringere Adam ad entrare, dovetti dargli una spinta. La tana di Mert aveva lo stesso odore dello spaventoso cesso della corriera.
“Dov’è la tua fidanzata snob? Chi è questo moccioso? Non mi dire che... ”
“Non è ciò che pensi, Mert.” Tolsi la giacca a Adam. Sua madre, sexy ma snaturata, non gli aveva nemmeno messo un berretto. “Adam si è un po’ perso, ma in qualche modo lo sistemeremo. Ora però credo che vuole schiacciare un pisolino, perché abbiamo fatto un bel viaggio lungo. Hai sonno, Adam?”
“Forse dopo. Posso andare in bagno?”
Mert gli afferrò la mano moscia. “Ti ci porto io, tesoro. Mentre questo balordo ci prepara del caffè.” Le erano sorti inaspettati istinti materni. Lo portò al piano di sopra. Forse gli avrebbe fatto fare un bel bagno caldo. Forse anche lei si sarebbe lavata.
Vidi la madre di Adam nella vasca, i capezzoli corallini a galla nella paradisiaca schiuma bianca.
La cucina era sporca da indurre la nausea. Misi a bollire dell’acqua e riordinai come meglio potei. Mi sembrò di rivivere il mio lavoro da lavapiatti in un locale jazz su Broadway, frequentato da altri universitari.
Non mi licenziarono. Un giorno non mi presentai e basta. Non sopportavo l’idea di dover sentire Freddie Freeloader o So What nemmeno un’altra volta.
Lavare piatti mi piace. Passai il cencio in cucina, poi presi l’aspirapolvere robot anni 50 e gli feci fare un tour del salotto. Sentii rumori d’acqua. Mert gli stava davvero facendo un bagnetto caldo a Adam, magari gli lavava la schiena. Forse era la prima volta che gli capitava. La madre di Adam non sembrava tipa da sciorinare amore e manutenzione. Nemmeno Mert, però.
Foto incorniciate sulla parete del salotto: una vecchia automobile che sarà sembrata ganza a Papà, un ritratto autografato di Liberace. Le tolsi dai ganci per spolverare le cornici dorate e pulire i vetri.
Sembrava che Mert stesse leggendo ad Adam la storia di Orazio che difende il ponte, ma non volevo andare su a sbirciare, non volevo interrompere e sciogliere l’incantesimo.
Adam, pur avendo problemi coi numeri di telefono, doveva per forza sapere il nome della sua mamma sexy. Mi venne l’idea che si chiamava Debbie, perché assomigliava a una ragazza al liceo che era sempre in punizione perché fumava nel cesso. Il padre di Debbie Spivello, barbiere, venne freddato a revolverate per motivi misteriosi.
Magari anche Debbie Spivello si era trasferita nella metropoli, dove qualche sconosciuto l’ha messa incinta.
Mert stava leggendo poesie vittoriane ad un mongoloide, tutto era possibile.
Debbie Spivello e io trombavamo come cani nella mia bagnarola, al liceo. Mio padre meccanico mi ha rifilato vari cancelli, prima che mi facessi furbo. Debbie scopava anche coi bulli e gli atleti. Ce ne misi, ma imparai a non essere geloso. Risorsero vecchi incubi di preservativi rotti, ma non combaciavano le date. Forse Adam era più grande di quanto sembrava.
Mert riapparve per fare svanire un altro sogno. “Che tipetto carino. Perché non hai mai fatto figli?”
“Mi sono dimenticato di dirtelo, Mert. Jilly e io non stiamo più insieme. Ma non ti preoccupare. Lei ha un buon lavoro, e le piace la vita di città.”
“Non è mica per lei che sono preoccupata. Sa badare a se stessa. Ma tu che farai? Vuoi fondare una casa per ritardati smarriti? Non puoi farlo qui, te lo dico sin da ora.”
“Un passo alla volta, Mert. Pensavo di badare a te, ma sembri essere tornata alla carica.”
“Arrivi sempre troppo tardi, e con troppo poco. Ma lo apprezzo, e ho sentito che stanno cercando qualcuno per caricare la lavastoviglie al Terminal Diner.”
“Fantastico. Domattina volo per offrirgli i miei servigi.” Dicevo sul serio.
“Perché hai smesso di chiamarmi Mamma?”
“Che fa Adam?”
“Si è appisolato. Mi ha chiesto se la storia di Orazio è vera. Si sarebbe assopito prima, se gli avessi detto che è solo un mito.”
“Perché non mi hai letto poesie, Mert?”
“Avrei voluto, ma secondo tuo padre ti avrebbe trasformato in donnicciola. Per lui fu la fine quando ti rifiutasti di prendere in mano l’officina. Pensava che fosse colpa mia, quando sei partito.”
“Non ero più curioso di perché le macchine funzionano o non funzionano. E non me la sentivo più di ripararle, quando non andavano.”
“È la storia della tua vita.”
“Ed è una storia vera.”
“Volevi sempre sapere se le storie nei libri della biblioteca erano vere. Ma non ti ho mentito. Probabilmente sono basate su cose realmente avvenute. Molte storie iniziano così, anche se non sono vere come le storie nei giornali.”
“Ma nemmeno le storie nei giornali sono vere, Mert. Ho lavorato presso un giornale. Le storie arrivavano in una forma e ne uscivano in un’altra.” Era il miglior lavoro che avessi mai avuto, per quanto riguarda la paga. Fluttuarano ricordi di redattori e cronisti odiosi. Lavare piatti era una pacchia, a confronto.
Jilly e io facevamo a turni a cucinare e lavare piatti. La cucina del nostro bugigattolo non permetteva a due persone di fare insieme queste normali cose domestiche. Degli amici che abitavano nel New Jersey avevano due bagni in casa, ognuno con due lavabi. Mi fece quasi impazzire che alcune persone riescano a vivere così. Mi spezzò il cuore che Jilly e io non riuscivamo a capire come si fa.
Alle cose domestiche ci pensava Mert. Papà si buttava sul divano nella sua tuta pataccosa e beveva birra finché lei non serviva il rancio. Mert o se ne fregava, o non ebbe la forza di andarsene. Dai suoi ritratti da liceale si capisce che non fu mai una grande bellezza. Forse compensava facendo la troia, come Debbie Spivello. Forse Papà aveva una lupara puntata all’osso sacro quando rispose di sì al predicatore. C’erano diverse corsie piene di fucili da caccia, all’emporio Mossberger’s Sporting Goods, su Main Street. L’insegna era al neon rosa, la notte. Colore strano, per un negozio che spacciava morte di animali. Una schiuma rosastra fluiva dai musi di cervi colpiti ai polmoni, legati a parafanghi di Jeep mentre gli eroi festeggiavano il successo della caccia tribale con birre al Flame Tavern.
Qualche inverosimile testa di cazzo disse che bisogna amare le bestie, prima di ammazzarle. Lo spirito della caccia, disse, è amore.
Perlomeno non ho mai scannato animali. “C’è roba in casa per combinare un pranzo, Mert?”
“Se ti accontenti di salatini e sardine inscatolate.”
“Dammi le chiavi della macchina. Andrò al supermercato.”
“L’ho venduta. Non sono più in grado di guidare. Ho problemi a muovere il lato sinistro della mia carcassa perché ho avuto un ictus, nel caso te ne fossi dimenticato.”
Aspettai che si risvegliasse Adam, prima di uscire a fare la spesa. Forse il macellaio simpatico ci avrebbe regalato un cosciotto di tacchino, se Adam gli sorrideva.
Verso l’una e mezzo, persi pazienza. Dovetti scuoterlo piuttosto forte. Provai un attimo di paura, poi i suoi occhi inespressivi si aprirono alla massima fievolezza.
“Su, ho bisogno di un bullo forzuto che mi aiuti a portare roba dal supermercato. Sei pronto?”
“Yeah.”
I mongoloidi, come gli oranghi, sarebbero dotati di una forza sovrumana. Adam poteva afferrarmi per le caviglie e strapparmi in due, se se la sentiva, ma mi tenne la mano fino al supermercato. Le strade di Scranton gli erano ancora estranee, dopotutto. Erano rideventate strane anche per me.
“Tua madre si chiama per caso Debbie, Adam? O Deborah, o Deb, qualcosa del genere?”
“Eh no!” Scosse con vigore la testa al solo pensiero.
“Bene. Come si chiama, allora?”
“Ehm... scordato.”
“Suvvia, Adam. Nessuna dimentica il nome della propria mamma. Come si chiama mia madre?”
Mi guardò come se fosse una domanda da imbecilli. “Mert, e non è cattiva come dici te.”
“Ho detto solo che è cattiva con me. Ma hai ragione. Tutte quelle storie di quant’è orrenda erano solo cazzate per farti ridere. Ma le barzellette migliori sono anche brevi. Ora dimmi come si chiama tua madre, così la possiamo cercare e ti riportiamo a casa.”
“Scordato.” Mi tirò la mano per farmi inchinare. Poi mi sussurrò un segreto. “Mi ha detto di dire che mi ero dimenticato. Ma invece mi ricordo.”
“Puoi dirmelo, Adam. Non le dirò che hai disobbedito.”
Scosse forte la testa, e mi tirò ancora più in basso. “Mi ha detto che non mi avrebbe più amato, se dicevo il suo nome a qualcuno.”
Il suo cervello insufficiente stava per esplodere. Per quanto poteva essere malvagia Mert, a volte, non mi disse mai che non mi avrebbe più amato se mi cacciavano un’altra volta dal liceo, o se gli sbirri mi riportavano a casa ubriaco marcio, o se mettevo incinta un’altra ragazza. “Non ti preoccupare, Adam. Tua madre ti ama tantissimo. Lo sai, no?”
Un fievole raggio di dolce speranza splendette. Scosse vigorosamente la testa.
“Avrà qualche guaio. Per questo ti ha affidato a me, per il momento. La possiamo aiutare stando calmi. Ma ora diamo una mano alla mia cattiva vecchia madre Mert. Andiamo al supermercato a prendere gelato e una torta, perché ho una strana idea che qualcuno sta per festeggiare gli anni tra poco. Vero?”
Mi guardò come stessi cercando di imbrogliarlo. “Forse.”
“Guarda, non esiste nessuna legge che deve per forza essere il tuo compleanno, se compri una torta. Oggi è una giornata speciale e possiamo fare come vogliamo. Dopo che saremo tornati dal supermercato, intendo.”
Signora Abernathy era la fornaia, al supermercato. Visto che la torta di Adam era da fare su ordinazione, doveva metterci lui stesso la glassa. Lei gli insegnò come ornare torte senza sporcarsi troppo. Signor Klottke il macellaio ci regalò un mezzo chilo di carne trita quando sentì che intendevamo preparare hamburger royale. Disse che forse sarebbe venuto anche lui, a pranzo, non si sa mai. Ci porse una bottiglia della sua salsa barbecue speciale, con scritto sull’etichetta, “Regalo per Adam!” La pupa alla cassa ci informò che c’erano i saldi sul gelato, solo che il garzone pigro si era dimenticato di mettere l’insegna.
Strinse l’occhio ad Adam. “Ma non dire a nessuno di questa offerta speciale. Si tratta di un segreto.”
“Non ti preoccupare,” dissi. “Lui è un’autentica tomba.”
Non mi sentì.
Tornando verso casa, passammo di nuovo dal Terminal Diner. Non c’era nessun tipo solitario ad attendere, nella speranza impossibile che suo figlio difettoso arrivasse sulla prossima corriera da New York. Il ristorante puzzava di avanzi che si trasformavano in chile messicano. June, la cameriera del turno pomeridiano, stava colmando bottiglie di ketchup. Eravamo usciti insieme, qualche volta, decenni e decine di chili fa.
“Ehi Giunona... ”
“Ti ho detto di non chiamarmi così.”
Mi commossi. Riconosceva ancora la mia voce. “Ehi Giuno, abbiamo sentito che qui c’è bisogno di un talentuoso lavapiatti.”
Ci degnò di uno sguardo. “Scusa... oh, ma lui è perfetto.” Conveniva, assumere handicappati. Significava agevolazioni fiscali, incentivi, sussidi. Afferrò la mano grassoccia, molle ma estremamente secca di Adam. “Vieni, tesoro. Ora ti presento al capo. Joe ti insegnerà cosa devi fare, e puoi incominciare subito. Abbiamo avuto un sacco di clienti a pranzo, oggi.”
“Aspetta... ” Il mio lavoro da sogno si spense come una bolla di sapone della divina giustizia. June la cameriera voleva essere una pubblica benefattrice. Non le importava prendere per il culo un laureato costretto a fare lo sguattero in un diner. Stetti zitto.
Forse avevano bisogno di qualcuno alla biblioteca comunale. Meglio se andavo a chiedere senza Adam.
Dopo poco emerse dalla cucina con addosso un pesante grembiule e spessi guanti di gomma nera, un berretto di carta bianca in testa.
“Torna a prenderlo verso le undici,” disse June.
Quindi quella sera io e Mert ci saremmo guardati da sopra una torta gialla e rosa mentre un chilo abbondante di ottima carne trita durava temperature artiche nel frigo verde comprato nel 1955.
Inutile chiedere se Adam davvero voleva lavare piatti. Ne era capace come chiunque altro. Forse mi avrebbero preso al suo posto, se e quando fossi riuscito a risolvere il mistero di sua madre. Nel frattempo, Adam si sarebbe familiarizzato con la strada tra la casa di Mert e il diner, e si sarebbe abituato ad avere un proprio mazzo di chiavi. “Bravo, Adam. Mert e io siamo orgogliosi di te. E sono sicuro che June e Joe ti daranno la cena. Faremo domani sera la tua festa di compleanno.”
“Ah sì... mi ero scordato,” disse Adam, e si picchiò con forza eccessiva la fronte.
“Non ti preoccupare, Adam. Ricordati, oggi è la giornata in cui facciamo come vogliamo.”
“Già. Tu cosa vuoi fare?”
Ubriacarmi per bene al Happy Hour del Flame Bar & Grill? Imbroccarmi una studentessa della Scuola per Segretarie? Comprarmi un’ascia al ferramenta e macellare Mert come volevo fare da sedicenne, tanto per vedere cosa si prova? “Voglio guardarti mentre lavi i primi piatti da professionista, Adam. Peccato che non abbia la macchina fotografica. Tu ne hai una, Giuno?”
“Certo. Mi serve per scattare tutti i VIP che passano continuamente a trovarci.”
C’era una foto incorniciata del Senatore Joe Biden sopra la cassa, accanto a un falsissimo biglietto da $3 e una mappa della Pennsylvania.
Adam era un virtuoso della spugna abrasiva. Faceva sfavillare porcellana, vetro e alluminio. Sprizzava gioia, e bolle di sapone gli brillavano nei capelli.
La biblioteca comunale non era sulla via di casa, ma mi ci diressi comunque. Non ero mai stato un avido utente, ai tempi quando forse mi avrebbe giovato. Credevo di sapere tutto ciò che dovevo sapere, allora.
Chiesi un modulo per richiedere impiego all’assistente bibliotecaria. Era una ragazza che avevo conosciuto in modo superficiale al liceo, ma non una di quelle che si lasciavano trombare in macchina. Quando ebbi compilato e firmato, mi disse di non trattenere il fiato. C’erano già tante vecchiette volontarie. Le tasse municipali di Scranton non pagavano molta Biblioteca comunale, disse. C’erano meno utenti ogni anno, e meno donazioni. Mi chiese della vita nella metropoli, dei mitici anni di rabbia e follia, se ero mai andato a Studio 54. Inventai una serie di notti brave, favolose feste con gente famosa e ganza. Avrebbe accettato di uscire con me, se gliel’avessi chiesto. Avremmo potuto scopare in macchina, se ne aveva una.
La biblioteca sembrava imbalsamata. C’era lezzo di formaldeide nella sala di lettura. Andai allo sportello e riempii altri moduli per richiedere certi testi di medicina.
Il breve pomeriggio invernale passò.
Il medico inglese che nel diciannovesimo secolo prestò il cognome a ciò che non andava con Adam silurò la propria brillante carriera quando decise di specializzarsi in imbecilli e idiozia. Era convinto che la manifestazione di cosidette caratteristiche razziali in certi individui attraverso lo spettro del genere umano era la prova di fratellanza universale, che le razze in realtà erano una sola.
Riconsegnai i testi di medicina e studiai le offerte di lavoro nei giornali locali. Al liceo avevo mollato il laboratorio di meccanica a favore della letteratura inglese. Forse fu quello il primo passo nella direzione sbagliata. Però ricordavo i concetti di base: il pistone stantuffa nel cilindro quando spruzza il carburante.
Il resto, potevo sbrogliarmelo.
L’uomo che gestiva l’officina e distributore di Tunkhannock mi prese in prova per tre mesi, al minimo stipendio. Disse che potevo usare la bagnarola di ricambio, quando non serviva ai clienti. Ma se mi beccava a fare il pieno alla chetichella, mi avrebbe conciato come l’ultimo ex-impiegato.
Il ladruncolo di benzina avrà preso la corriera sulla quale eravamo arrivati io e Adam.
Anche la commessa al negozio di abbigliamento di lavoro era stata a scuola con me. Betty Leffmeier, una tettona che la dava a tutti, aveva tenuto duro nella sua missione di riempire reggiseni. Mi regalò un’etichetta ricamata col mio nome, e me la cucì sulla nuova tuta blu. Betty sapeva che Mert non era più in grado di cucire, non che fosse mai stata una fanatica del cucito o del ricamo.
Mio padre non aveva etichette sulla tuta. I suoi clienti sapevano benissimo chi fosse. Smise di portare tute quando divenne capo dell’officina, ma ora la sua officina non c’era più. Non gli avrei nemmeno dato la soddisfazione di potermi assumere come manovale. Lui mollò il liceo per arruolarsi nell’esercito. Voleva sconfiggere l’Asse, ma finì in un deposito di materiale bellico a New Orleans. Lì, la sua missione era di mettere a punto carri armati e camion cingolati per il campo di battaglia. A New Orleans però non mancavano le schermaglie, diceva.
Non mi ricordavo il nome dell’officina dove aveva iniziato la carriera. Eppure me l’aveva detto. Me l’avrà detto mille volte.
All Tunked Down
Me and Jilly went through a rough patch in November. More impenetrable than rough, really. In other words, we didn’t make it through, or not together.
Twenty years in the same cramped apartment adds up to a mound of heartbreaking accumulated crap pulled out of the communal closet and spilled on the floor. Used to be fun, going out to hunt for stuff we thought we needed or wanted. Can’t split a cast-iron Dutch oven, when the yelling and crying’s over. Can’t split anything, really, except a couple. I looked at the clutter and said, “Keep whatever you want. Get the Salvation Army to come for the rest.”
Then I was out the door with nowhere to go except maybe the park for a wandering howl in the rain. So that’s where I went and what I did.
The city went dark fast, and the rain fell harder. The park is no place for a civilized person to live. You have to de-civilize yourself to survive there. The process takes time and effort.
The bus station wasn’t crowded. The patient lady in the ticket booth repeated the schedule for buses to Akron several times. The mental patient before her couldn’t absorb the numbers, didn’t really want to return to the haystacks and move back in with his mother. But that was reality, perfect splendid brutal and honest.
The obsolete-looking bus named Akron groaned. Maybe it was the same bus I got on the last time I lost my mind and decided to go to college in the big city instead of giving my old man a hand in the garage so I could eventually take over, the way he wanted and the way I wanted too, for a while. Stuff you thought you wanted changes. Pop’s garage had been sold and turned into a fast food joint. In other words, a place where they might offer me a job. Mama still lived in the house we called home. The place was the same as it always was, last time I’d looked, except she didn’t take such good care of it anymore. Maybe she never took care of the place, only I didn’t use to know any different. She didn’t get out too often any more—not that she went out terribly often when Pop was still around—due to a major stroke after too many years of drinking too much.
Alcoholism runs in families, like baldness, cancer, red hair, amyotrophic lateral sclerosis. I don’t consider myself an alcoholic. I was headed back home, to Akron.
The bus filled up quickly, as the scheduled departure time loomed. The only empty seat was next to mine. Would’ve been happy about this state of affairs at any other time, but then it felt like leprosy.
“Is this seat free, please, sir?”
A smoked voice snapped me out of a blank-eyed, open-mouthed reverie that could’ve turned into another howl-a-thon any second. “Sure,” I said. “Free as a bird.” As if birds are really free.
But there were two people in the bus aisle ogling the empty spot next to the one-way passenger to Palookaville, USA. A big-boned blonde a shade past her expiration date, and a kid who looked disturbingly like me.
Like me the way I looked at that moment, I mean. Not how I looked when I was a kid. So the blowzy babe didn’t say, “Remember that drunken backseat hump where you said pulled out in time? Well you was wrong, buster.” Instead, she said, “Go ahead and sit down next to the nice man, Adam.”
Adam sat down. No point asking if he wanted the window seat. Any seat was fine and the same, to him. He had Down’s syndrome and it was awful dark out there anyhow.
“He has a tendency to become extremely nervous on buses, kind sir. Would you mind checking on him occasionally? All you have to do is ask whether he’s OK. That’s usually enough to reassure him. And maybe accompany him to the rest room, please, if he gets carsick. Although he’s been better about that, lately.”
“Oh sure. No problem. But…you mean, you’re not coming with him?”
“He’s going to stay with his father a while. We’re divorced. This is what we agreed on so we don’t have to see each other anymore. But if you’d rather not…”
Adam looked at me. Only a real creep would’ve said get your stinking mongoloid out of my face, lady.
She didn’t say goodbye honey or bon voyage, see you next week. She spun on her high heel and walked down the bus aisle without a backward glance or a word to the driver, who’d just pulled on his professional driver gloves.
As soon as she got off, he started the motor and pulled the anachronistic door-close lever.
Adam the abnormal kid wanted to hold hands as the bus exited the Port of Authority at a dizzying 8 mph. He gave a sad moan and closed his eyes when it hit the ramp that led down into the Tunnel of Terror. The Expressway tollbooth frightened him too, even though the nice man who collected tolls shouted, Good evening everybody. That was his human way of dealing with an inhuman job.
Adam resumed normal snuffle-breathing when we were on the highway headed west.
“Thanks,” he said, and pulled his dry hand from mine. He soon fell asleep, with his forehead pressed against the quilted steel seat-back ahead of him. He drooled a thin trickle onto the bus’s floor. Lights from motels, gas stations, billboards, diners, cars headed into town and trucks hauling breakfast materials so the big city could get a good start on the next workday played against the pale blank screen of Adam’s left profile.
Couldn’t sleep. Instead, I stared uselessly out the front window, where the driver was looking, to make sure he was still awake too. He drove smoothly, on-schedule and in control. Highway signs hypnotized me into a dream-free oblivion.
It was still dark when we hit Akron. Rolled past the high school, the church where I used to pretend to pray. When I confessed, my mother said she was just pretending too, but that was all right. Pop the Pragmatic Mechanic didn’t go to church, didn’t believe and didn’t want to pretend there was more to life and the world than what’s visible in broad daylight. The bus went down Skid Row. Tried to pretend a return to a familiar places was something pleasant.
“Wake up, Adam. We’re almost there. Need to go to the bathroom?”
Adam did need to go, and he went. I waited, sort of glad he could piss on his own and that he hadn’t vomited on me. Glad to be glad about something. I tried to figure out how old he was, gave up. Definitely over fourteen, probably not yet thirty. The white hairs on the back of his neck might just be part of the Syndrome.
The driver parked, switched off the engine and rubbed his eyes. The aisle slowly cleared.
Adam was stuck in the toilet. He rattled the latch, pounded on the door, burbled, about to scream and cry. I stood up and stumbled to the back.
The driver heard a bestial wail, grasped the situation and took charge. He scrambled the emergency key, held it out in a gesture of solidarity. Maybe he had an idiot kid stashed wherever he lived.
“Cool down, Adam,” I said. “We’ll get you out of there in a minute.”
No lone adult male waited on the platform, ready to rush in and rescue his defective kid from a claustrophobic bus toilet.
Adam emerged, pale as a dirty pillowcase. He needed a hug. I swung him side-to-side in a go-nowhere slow dance.
“Let’s go, Adam. Let’s get off so the nice driver can finish what he needs to do. Where are you supposed to meet your father?”
Another lost look.
We headed down the aisle holding hands in a two-man Dance of Death where I was the bad guy. “He must be waiting inside the terminal, where it’s warmer.”
“Have a nice day,” the driver said. He thumped Adam’s narrow sloping shoulder and handed him a bus company corporate logo pin to wear on his jacket. I loved the bus driver.
Possible career opportunity, I thought. Greyhound’s like the Army or the Foreign Legion, a place where they have to take a man in and give him something to do, as long as he’s got two legs, arms, eyes and a few brain cells to rub together.
“Thanks,” I said. “Really appreciate it.”
Adam said the same, imitating my voice amd the sentimental catch. On the platform, he wanted me to pin on his bus driver badge for him. I jabbed my finger with it.
The worn-out lobby contained hoboes contorted in sleep on the anti-bum benches, some lost-looking ladies, and men dressed for hunting expeditions or fishing trips. Off to football games or to get their sons out of jail, attend trials for murder, mayhem, grand theft auto. None of them was Adam’s father.
I pictured a shady character. “What’s your father look like, Adam?”
He had to think about it.
“Kind of like me,” he said. “Only bigger.”
We ambled around the Akron Terminal. The newsstand hadn’t opened yet, or was permanently closed.
I hadn’t called to let my mother know I was on my way.
No one was waiting for Adam, either.
“Here’s what we do, Adam,” I said. “Let’s go to my mommy’s house and wait for your daddy there. Unless you want to have breakfast here first.”
“Breakfast here first.”
That’s what I wanted, too. Extra hour or so in the terminal diner to gear up for the impending inevitable. And it wasn’t impossible that some past-it hood would turn up, plead engine trouble or a run-in with a moose, and take Adam off my hands.
Wasn’t my style to take him the cops. Even though that would’ve been the best idea, in this case. They’d take my number and address, ask some questions, eventually bring him back and say, “Listen mister, do you mind? Poor kid’s got nowhere else to go, for the moment, and we sorta got more important, police-type business to worry about.”
The waitress came and took our order. “What’s your mother look like?” Adam asked.
Since he was so curious, I gave it to him straight, no details spared. Veiny eyeballs, tongue like a bad stretch of pavement, teeth with blackened seams across the middle, crowned by Dr. Spannick the cut-rate dentist with the hairy hands and horrible breath. Nearly lost my appetite, even though the corned beef hash with fried eggs and ketchup on top looked good. So I thought about what it’d be like to kiss Adam’s mother.
“Hey Adam, what’s your phone number? We should call your mom to let her know we got here and you’re OK.”
He shook his head hard enough to dislodge the glasses from his banal ears.
“What? You don’t know your own home number?”
He choked a snigger, as though he knew but wasn’t about to tell.
“Don’t you have it written down somewhere? Like in your pocket, in case you get lost? This is important, Adam. Do you want your mommy to worry?” Mental note: stop talking to the poor kid like he’s an idiot. Talk normal to him, stupid. What’s wrong with you? No one likes to be patronized by strangers who have nothing to be high and mighty about.
“More about your mother. More about your mother,” Adam said, like my mother was some unbelievably humorous comic book character about whom an infinite series of dirty joke-like adventures can be told when laughter’s the only face to put on a situation.
“OK I forgot to tell you that her face is burning red. Especially when she gets angry, and you better watch your step around her, ‘cause she gets angry real easy. For instance, suppose I was to go like this…” Hoisted a butt-cheek and let go a post-bus decompression fart.
Comic genius slays mentally retarded male of indeterminate age.
“Oh man she’d blow a gasket. You know what she’d do? Spank me, that’s what. Spank me with a shovel…a god damn snow shovel.”
A glance out the window showed it had begun to snow, in a weepy way. Seven in the morning. My mother wouldn’t want to be disturbed for another hour or so.
Pictured Jilly getting ready to go to work, her first day as the newly single creative director at a major ad agency. Cup of strong coffee and The New Yorker, that week’s or a back issue. The subscription label still had my name on it. Jilly in pajama bottoms and a hooded sweatshirt. Basically doing fine, glad for enhanced closet space and one less depressed person around. Nearly went off on another weeping jag, but I was in the middle of telling a mentally handicapped person a funny story about my mother. Kept scanning the parking lot outside the Terminal Diner. Maybe the creep who sired Adam would still show up. I could try to stick him with the breakfast check.
“…and then she jammed her butt-picking fingers in my nose, like this.” Self-inflicted nostril-grab. “And dragged me over barbed wire and broken glass. And then she made me eat a rat. Didn’t even cook it first. But that was OK, ‘cause she’s a lousy cook. She’s awful mean, Adam. But only with me. She’ll be nice to you. You guys’ll be best friends, I guarantee it.” Like he’d already moved in.
The early morning waitress patted Adam’s head and said whenever he wanted to come back and visit, she’d give him a free slice of yesterday’s peach pie. There’s always a piece of yesterday’s pie left over, for nice guys. She barely looked at me, even though I left her a tip.
We left the bus station on foot. Adam took my hand at the crosswalks, dropped it the instant we were safely across. Mrs. Rosscom was opening up the Smoke n’ Novelty Shop her crazy husband had dumped on her when The Reaper socked him a one-two punch of emphysema and liver cancer. Left his widow with two hundred square yards of downtown commercial space jammed to the bulging eyeballs with practical joke items, tobacco-related paraphernalia, backdated cheesecake mags and selected hardcore stuff racked in pressboard shelves in the northwest corner, where a giant red-green macaw named Ixnay blew an air raid siren at shoplifters and scattered expensive bird seed on the floor all the ding-dong day.
Mrs. Rosscom recognized me instantly. Mert’s punk kid, who once stole 35 cents’ worth of candy bracelets. I wanted to give them cute little Shirley Stevens, my first big love, who never even looked at me because she was in 7th grade and I was still in 5th. Her look said see, you eventually have to pay for your crimes and sins. You had high-flown dreams of success in the big city, college boy, but you got stuck with a life-crushing millstone around your neck too. Welcome back to Akron. Did you really think you could get away?
“Hey Teeter, what’s shakin’?” The answer was her hands, in the primal stages of Parkinson’s disease. Teeter was Mrs. Rosscom’s nickname in high school. My mother Mert still called her that, even though Teeter didn’t like it. Or maybe because she didn’t like it. My mom got stuck with Mert, because Myrtle was a popular name long ago. I didn’t know what Teeter Rosscom’s real name was, and right then I didn’t care.
She didn’t even hear me. She was too busy subjecting Adam to a third-degree love mugging.
“You and your daddy are in town to visit grandma Mert, huh?” She was trying to figure out why we’d shown up in the middle of the week with no major holidays in sight. “Why I’d bet a hunnerd bucks it’s your birthday, big boy, so I’m gonna give you a present. C’mon inside.”
Candy bracelets had rocketed to a nickel apiece. Adam looked like a millionaire matron on her way out Tiffany’s. He had a small-town swinger mag tucked in a flaccid armpit.
“Thanks a lot, Teeter.”
“Tell Mert I said hi. Wanna bring her some smokes? She has trouble getting down here these days, and I need the business more than the superdupermarket does.”
“Sure. Give me two cartons of Kools and a joy buzzer.”
“You’d love to give her a heart attack on top of it, wouldn’t you. Finish the job.”
“OK. Screw you and keep your stale coffin nails.”
Teeter decided I wasn’t worth looking at any more. She beamed on Adam again. “Well at least you’re a nice young man, young fella whatever-your-name-is. Come back to the store and I’ll give you another present and then we’ll watch football or whatever you like and you can tell me all about yourself.”
I didn’t have keys to the house I grew up in. Hand ‘em over, college boy. We’ll have to take in boarders if you won’t lend a hand.
I knocked.
The door opened a crack to reveal a red eyeball buried among wrinkles and a row of brown teeth with barn-door gaps between them. “Whadduya want?”
But I was sure she recognized me.
“How ‘bout letting us in, Mert?” I stopped calling her Maw even before I started shaving. “Kinda cold out here.”
She took the chain off. Background squalor popped into view. “So, college boy. ‘Bout time you paid a visit. Too bad your pop’s not around for this honor. He died, you know?”
“I was at the funeral, Mert.” Adam needed a slight shove between the kidneys to get him to go inside. Mert’s place smelled like the scary bus toilet.
“Where’s your snooty girlfriend? Who’s this kid? Don’t tell me…”
“Not what you think, Mert. Whatever you’re thinking.” Got Adam’s jacket off. His sexy negligent mom hadn’t even put a hat on his head. His hair was even thinner at the top. “Adam here got a little lost, but we’ll have him straightened out soon. Right now he’d probably like to take a nap, because it was a lo-ong bus ride. You feel like taking a nap, Adam?”
“Maybe later. Can I go to the toilet?”
Mert grabbed his pudgy hand. “I’ll take you, honey. While this galoot makes a pot of coffee.” Unsuspected maternal instincts had been aroused. She guided him upstairs. Maybe she’d give him a bath. She could’ve used one herself.
Eye-popping picture of Adam’s mom in a tub, her coral-pink nipples bobbing in heavenly foam.
The kitchen was filthy. Set some water to boil and cleaned up a bit. Shades of my early days as a dishwasher in an Upper Broadway jazz joint where they slung burgers and chili, a place where other college students hung out. And some of them really did snap their fingers.
Didn’t get fired, there. Just didn’t show up one day. Couldn’t stand to hear Freddie Freeloader or So What even one more time.
Felt good to wash dishes. Mopped the kitchen linoleum. Got out the vacuum cleaner, a bulbous sci-fi robot model, and gave the living room shabbery a going-over. Watery soundwaves descended. Old Mert really was giving Adam a bath and a back-scrub. Maybe the first since his baby days. Adam’s mama didn’t seem like she lavished attention and physical maintenance. But then, neither did Mert.
There was a framed photo of an old car Pop thought particularly snazzy next to an autographed Liberace headshot on the living room wall. Took them off their hooks, dusted the gilt and wiped the glass.
Mert was reading Adam a rhyming story that sounded like Horatius at the Bridge. Either Mert had poetry books in her room, or she knew those verses by heart. Both concepts were mind-blowers.
The thought hit that Adam must know his sexy Mom’s name, even if telephone numbers were a problem. Got an idea Adam’s mom’s name was Debbie, maybe because she reminded me of a chick who used to get in a lot of trouble for smoking in the girls’ room at school. Debbie Spinello’s Pop, the town barber, was gunned down under mysterious circumstances.
Maybe Debbie Spinello moved to the big city and got knocked up by a party or parties unknown.
Mert was reading Victorian epic poetry to a mongoloid. Anything was possible.
Debbie Spinello and I had groped our way through a string of sweaty car dates. Since my Pop was a mechanic, at least I always had a car. He sold me a series of lemons before I got wise. High school jocks called hot dates with Debbie “goin’ for a Spin.” Took a while, but I got to the point where I wasn’t jealous. Long-dormant busted-rubber nightmares stirred, but the dates refused to match up. Unless Adam was even older than he looked.
Mert stuck her head in the door and burst yet another reverie. “What a sweet little guy. How come you never had any kids, college boy? Probably too late, now.”
“Definitely too late, Mert. Forgot to tell you, Jilly and I aren’t together any more. But don’t worry. She’s got a great job, she can afford the rent and she likes city life.”
“Not her I’m worried about. She knows how to look out for herself. But what’re you gonna do? Open a home for lost retards? Can’t do it here, I tell you that right now.”
“One step at a time, Mert. I thought I’d look after you a while, but you seem to have regained your snap.”
“You always were too-little-too-late, but I appreciate it. And I heard they’re looking for someone to load the dishwasher at the Terminal Diner.”
“Fantastic. I’ll go apply first thing tomorrow.” I meant it, too. “Thanks, Mert.”
“How come you stopped calling me Mama? You used to, once.”
“When I grew up you just seemed more like Mert, that’s all. What’s Adam up to?”
“Taking a nap. He asked if the story about Horatius was true. I think he would’ve dropped off sooner if I said it was just a story.”
“How come you never read me any poems, Mert?”
“Well I wanted to, but your old man said it’d turn you into a sissy. Really finished him, when you went away and didn’t want to take over his business. And he thought it was my fault you left, too.”
“I stopped caring about how or why other people’s cars work or don’t work. And then I didn’t want to fix them when they stopped.”
“Story of your life.”
“And a true one.”
“You always wanted to know if the stories in books from the library were real. But I wasn’t lying. They must at least be based on things that really happened. Most stories start out that way, even if they’re not true like in newspapers.”
“Newspapers aren’t true either, Mert. I worked at one for a while. Stories come in one way and go out another.” Best job I ever had, in terms of dough. Memories of loathsome reporters and editors flitted. Dishwashing was a picnic and kite-flying contest, in comparison.
At home, me and Jilly took turns making dinner and cleaning up. Our kitchen was too small for us to do normal everyday things together. Some friends who lived in Jersey had two bathrooms in their ranch-moderne house, with two sinks apiece. Blew my mind there were people who managed to live that way. Broke my heart that Jilly and I couldn’t figure out how.
Mert used to take care of home-front details. Pop sat on the couch in his grease-stained overalls until dinner-time. Mert either didn’t care or didn’t have the gumption to leave. Her high school portraits said she was never much to look at, which she might’ve made up for by being a mattress-back like Debbie Spinello. Pop had a shotgun pointed at his sacral iliac when he said I do and I will. Rows upon rows of shotguns and deer-hunting rifles packed the racks at Mossberger’s Sporting Goods on Main Street. The place had closed down, but the pink neon sign kept buzzing at night. Seemed like a weirdo color scheme for a store whose stock-in-trade was animal death. Pink foam bubbled from the snouts of lung-shot stags tied to auto fenders while the heroes celebrated their tribal meat conquests with beer in the Flame Tavern.
One staggering dickhead said you got to love the animals before you kill them. That’s the spirit of hunting, he said. Love.
At least I never killed any animals. “Got anything to make lunch with, Mert?”
“Not unless you want cheese and crackers, or crackers and jack mackerel.”
“Lend me the car. I’ll go to the supermarket.”
“Sold it. DMV says I can’t drive any more. My eyes are bad and I got some trouble moving the left side of my carcass because I had a stroke, in case you forgot.”
Waited for Adam to wake up before I went out for food. The friendly butcher might toss us an extra turkey drumstick or a free pound of high-fat hamburger if Adam smiled and said hi.
At around 1:30, I grew impatient. Had to shake him pretty hard. Worried me, until his inexpressive eyes opened to full dullness.
“C’mon. I need a big strong guy to help carry stuff from the supermarket. You ready?”
“Yeah.”
Mongoloids, like orangutans, are supposedly endowed with inhuman strength. Adam could grab my ankles and tear me in half, if he felt like it, but he let me hold his hand all the way to the supermarket. The streets of Akron were still strange to him, after all. Strange to me, again.
“Is your mother’s name Debbie, Adam? Or Deborah, or Deb, something like that?”
“Nope.” He shook his head vigorously at the mere thought.
“OK, what is her name, then?”
“Uhm, forgot.”
“Come on, Adam. No one forgets his own mommy’s name. What’s my mommy’s name?”
He looked at me like that was a dumb question. “Mert. Only she’s not mean, like you said.”
“I said she was only mean to me. But you’re right. All that meanie stuff was just a story I made up ‘cause I thought it was funny. To make you laugh, get it? But good jokes are usually short. Tell me your mommy’s name so we can look for her and get you back home.”
“Forgot.” He pulled my hand so I’d lean down. Then he whispered a secret. “She said to say I forgot. But I really remember.”
“You can tell me, Adam. I won’t tell her you didn’t do what she said.”
He shook his head hard, pulled me lower. “She said she wouldn’t love me any more if I told anyone her name.”
His insufficient brain was primed to explode. Bad as old Mert could sometimes be, she never said she wouldn’t love me if I got kicked out of school again, or if the cops brought me home drunk and disorderly again, or if I got another girl pregnant so she had to go away to the unwed mothers’ home in Keekatchie. “Don’t worry, Adam. Your mommy loves you an awful lot. You know that, don’t you?”
Dull ray of sweet hope dawned. Another vigorous, positive head-wag.
“Only she’s in some kind of trouble. That’s why she put you with me for a while. We can help her out by staying calm. But right now let’s help my mean old mommy Mert by going to the supermarket for ice cream and a birthday cake. Because I got a feeling someone’s got a birthday coming up soon. Am I right?”
He thought I might be trying to trick him. “Maybe.”
“Look, there’s no law says it’s got to be your real birthday when you buy a birthday cake. Today’s the day we get to do whatever we want. After we get back from the supermarket, that is.”
Mrs. Abernathy ran the supermarket’s in-house bakery. She said since Adam’s cake was a special order, he had to put the icing on himself. She taught him how to decorate cakes without making a mess, and made sure he spelled his name right. Mr. Klottke the butcher insisted, when he heard hamburgers royale were on the late-lunch menu, that we take an extra pound of top ground sirloin, just in case he decided to show up for the party. Then he threw in a bottle of his home-brew steak sauce, inscribed “No Charge, for Adam’s Birthday”. The cash register chick said ice cream was on special half-price sale, but the lazy stockboys hadn’t put up the signs and balloons yet.
She winked at Adam. “Don’t tell anyone about the special sale. It’s a secret.”
“He’s really good,” I said, “at keeping secrets.”
She didn’t hear me.
On the way home, we stopped back at the Terminal Diner. Maybe there’d be a lone guy waiting, hoping against hope that his lost defective son would be on the next bus from New York. The place smelled of leftovers being transformed into chili. June, the afternoon-shift waitress, was turning half-empty bottles of ketchup into full bottles. We’d gone on a couple of dates, back in high school and about a hundred pounds ago.
“Hey Juno…”
“Don’t call me that.”
I was touched. She still recognized my voice. “Hey Juno, we heard there’s a position available beyond yon swinging porthole door.”
She looked up, then. “Sorry...Hey well now that you mention it, he’s absolutely perfect.” Hire-the-handicapped incentives and tax easements flipped and clattered behind her eyes. She grabbed Adam’s pudgy, limp, dry hand. “C’mon honey, let’s go meet your new boss. Joe’ll teach you what to do and you can prob’ly even start right away. There was an extra-large lunch crowd today.”
“Wait a minute…” My dream gig went poof in a bubble of divine justice. June the waitress wanted to do a civic good deed even more than she wanted to gloat on a college boy busted down to dishwasher in a greasy diner. So I kept my trap shut.
Maybe they needed someone at the Public Library. Figured I’d better inquire without Adam.
He eventually came out of the kitchen dressed for life’s reality party in a heavy-duty black rubber apron and gloves and a paper hat on his head.
“Come pick him up around eleven,” June said. “Dinner shift’s usually done by then.”
The near-futurescope showed me and Mert staring at each other across a yellow-and-pink birthday cake while excellent ground meat endured Alaskan temperatures in the lime-green fridge Mert bought in 1955.
No need to ask Adam if he really wanted to wash dishes. He could get diner-weight dishes and coffee cups as clean as anyone. And they might let me step in for him, once I solved the mystery of his mother. In the meantime, Adam would learn the route between Mert’s place and the diner, and get used having his own set of keys. “Way to go, Adam. Mert and I are real proud of you. And I’m sure June and Joe will give you dinner here, so we can have your birthday party tomorrow night, instead.”
“Oh yeah, I forgot,” Adam said, and smacked his forehead a bit too hard.
“Never mind, Ad. Remember, today’s the day we get to do whatever we want.”
“Oh right. What do you want to do?”
Lay a deep alcoholic base at the Flame Bar & Grill’s happy hour? Pick up a Secretary College sophomore? Buy an ax at the hardware store and butcher Mert the way I wanted to back in 10th grade, just for the hell of it? “I want to watch you scrub your first professional frying pan, Adam. Too bad I don’t have a camera. Got a camera, Juno?”
“Oh sure I keep one handy to snap all the famous people who constantly stop by.”
There was a framed autographed picture of former Nixon Nazi John Dean nailed up behind the cash register, next to a novelty store $3 bill and an Ohio road map.
Andy was a demon with a Brillo pad. Greased-over porcelain, glass and aluminum sparkled. He gleamed, a rainbow soapbubble-cluster on his left eyebrow.
The Public Library wasn’t on the way home, but I made the detour. Never exactly haunted the place, back in the days when it might’ve done me some good. Thought I knew just about everything I needed to know, then.
When I finished filling out the job application form, the Assistant Librarian, a girl I knew slightly in high school, definitely not the car date type, said don’t hold your breath for this plum. The Library drew volunteer hags galore. Akron municipal taxes didn’t pay for a whole lot of Public Library, she said. Fewer patrons every year, fewer donations. Then she asked about life in the big city during the years of rage and splendor. She asked if I’d been to Studio 54, so I made up stories about wild nights with fabulous people. She would’ve said yes to a date. Maybe even a car date, if she had a car.
The library was practically embalmed. The reading room smelled of formaldehyde. I went to the main desk, filled out request forms for some medical books.
The short winter afternoon passed.
The 19th century English doctor who lent his name to what was wrong with Adam wrecked a potentially brilliant career when he chose to specialize in imbeciles and idiocy. He was convinced the appearance of external racial characteristics in unfortunate individuals across the human spectrum was proof of universal brotherhood, that humankind’s alleged races were one.
I handed back the medical books and took a trip through the Help Wanted sections in the local newspapers. Back in high school I’d dropped Machine Shop in favor of English Lit. That was the first step in the wrong direction, but I remembered some basics: the piston pumps up and down in the cylinder when the gas spurts and explodes.
The rest, I could figure out.
The man who ran the garage and gas station just outside Tunkhannock took me on for a three-month trial, at minimum-wage. He said I could use the courtesy beater car, unless a customer needed it. And he’d better not catch me filling the tank on the sly. That was the last guy’s racket, and he had to leave town in a hurry.
Petty gas thief must’ve rode out on the bus Adam and I rode in on.
The lady at the uniform store was someone else I went to high school with. Bette Leffmeier, former prime car-date sweater-meat who’d stuck to her life’s mission of bursting brassieres, gave me an embroidered name patch for free, and sewed it on my new blue jumpsuit. Bette knew Mert wasn’t up to threading needles any more, not that she’d ever done much sewing or embroidering.
My Pop didn’t wear a nameplate on his coveralls, because the customers knew who he was. He gave up on coveralls when he became the boss of his place, but his place was gone. Couldn’t even give him the satisfaction of bestowing a tail-between-legs mercy hire. He dropped out of high school, and volunteered to fight the Axis. He wound up in a New Orleans supply depot instead. His mission was to prepare invasion craft and armored halftracks for delivery to where the action was. No shortage of action in New Orleans though, he said.
But I couldn’t remember the name of the garage where he started out. He told me, though. Must’ve told me a hundred times.
Matthew Licht (testo e immagini)