Troppo tardi

fotografia di Bärbel Reinhard

fotografia di Bärbel Reinhard

Parte I: Non ce ne siamo accorti finché non è stato troppo tardi.
Pensavamo che il cielo intorno a noi non avesse misteri: non il nostro sistema solare, non la via lattea, le stelle, le fasce di asteroidi o come si chiamano, non con i telescopi orbitanti, i radar, i supercomputer, la tecnologia. Invece doveva essersi infilato in qualche zona morta, in qualche punto cieco. Nessuno lo aveva visto cambiare traiettoria; o forse era stato un errore di calcolo, qualche effetto gravitazionale sottovalutato.
L’asteroide 1999 AN(10) si sarebbe schiantato contro la terra tra 74 giorni.
La notizia avrebbe dovuto restare segreta, mentre le superpotenze mettevano a punto una qualche soluzione. Laser, missili e bombe atomiche ci avrebbero salvato. Ma poi si era capito che non si poteva fare nulla. Il corpo celeste era troppo grosso. Avrebbe impattato contro la Terra e l’avrebbe distrutta da lì a 74 giorni. Saremmo morti tutti. Nessuno avrebbe potuto sopravvivere. Sarebbero state le ultime settimane della Terra, così come l’avevamo conosciuta.
A ben guardare, un gruppo di hacker cinesi aveva divulgato la notizia sei mesi prima. Un asteroide enorme avrebbe colpito la Terra a dicembre. Era sembrato uno scherzo, nessuno ci aveva creduto, almeno sulle prime; poi però uno scienziato indostano si era lasciato scappare delle dichiarazioni allusive alla televisione, subito prima di togliersi la vita. E altri lo avevano seguito. Non era passato giorno senza che qualche astrofisico si sparasse o si buttasse da un ponte o finisse sotto un treno, finché l’opinione pubblica aveva cominciato a farsi delle domande sul perché di tutte quelle morti su Periscope e YouTube. Erano nati movimenti popolari per conoscere la verità. E alla fine era stato necessario rivelare ciò che stava succedendo. Ed era stato il panico. I notiziari Tv erano esplosi su tutte le reti planetarie. La gente guardava i notiziari della sera, i notiziari speciali, le ultime notizie, i notiziari lampo, le ultimissime notizie e l’ultimissimo notiziario della notte. Fra un notiziario e l’altro trasmettevano gli approfondimenti e i focus e gli speciali dettagliati. Furono intervistati tutti gli astrofisici più esperti. La gente non ne sapeva un gran che di meteoriti, in effetti, a parte il fatto che ne stava arrivando uno bello grosso sulla terra. La sua sagoma bitorzoluta era apparsa all’improvviso su tutti gli schermi del pianeta.

Parte II: Takeshi
Takeshi aveva capito subito che gli hacker cinesi erano da prendere sul serio. Persone solitamente restie a palesarsi avevano attirato l’attenzione in maniera plateale. Takeshi aveva un amico nerd che conosceva qualcuno che a sua volta avrebbe potuto mettersi in contatto con il team di ethical hacker che, facendo un penetration test sul sito dell’agenzia nazionale cinese per lo spazio, aveva estratto informazioni non proprio di pubblico dominio. Non che l’agenzia cinese per lo spazio godesse di grosso credito, visto che la loro stazione orbitante si era disintegrata nell’atmosfera dopo che se ne era perso il controllo. Ma dai loro calcoli, l’asteroide non sarebbe transitato nelle vicinanze della terra, no: ci sarebbe arrivato dritto sui denti. Così, mentre l’agenzia controllava e ricontrollava calcoli e traiettorie, per evitare di dare al Partito false informazioni catastrofistiche, e d’altro canto, chi avrebbe dato loro torto: avrebbero esitato e forse taciuto anche di fronte a certezza assoluta: con il Partito non si scherza; mentre gli scienziati erano immersi nelle operazioni matematiche e rivedevano i modelli fisici alla ricerca di una qualche falla; mentre i calcolatori computavano e aggregavano i nuovi dati che arrivavano freschi dai satelliti, gli hacker scoprivano i risultati e non esitavano nemmeno un istante a divulgarli.
Takeshi Kijima era un giornalista, e aveva fiutato lo scoop. Era riuscito a verificare la fonte, e aveva sottoposto i dati pubblicati a certi suoi amici scienziati, che li avevano trovati attendibili. Un fisico gli mostrò una simulazione al computer di quello che sarebbe successo di lì a sei mesi, e le mani gli tremavano sul mouse. Il corpo celeste infuocato sarebbe caduto sulla Colombia. Cataclismi, terremoti, incendi, maremoti, vulcani, fallout ne sarebbero seguiti. Takeshi sarebbe stato il primo a divulgare la notizia, poi sarebbe seguito l’inferno.
Il pensiero di diventare finalmente famoso lo elettrizzò. Se fosse riuscito a trovare un editore americano, la notizia poteva valere il Pulitzer. Ma poi, la consapevolezza improvvisa che non ci sarebbe mai più stato un premio Pulitzer lo attraversò come una spiacevole corrente fredda.
Al volante della sua auto, sulla strada di campagna che lo portava da sua madre, Takeshi fissava la strada che sembrava interrompersi contro le pendici del monte Fuji. Gli automobilisti gli correvano incontro, smaniosi di raggiungere una qualche meta. Una donna con un bambino sul sedile anteriore lo superò con una manovra stizzita, senza guardarlo. Di lì a qualche mese, pensò lui, sarebbe stati entrambi solo dei fantasmi.
-Madre- Takeshi sollevò le labbra dalla tazza -tra sei mesi…
-Ti piace il tè?
-Come? Sì, certo. Ti stavo dicendo…
-Allora bevi. Non concentrarti sulle tue ansie, figlio, mantieni la concentrazione solo sul momento presente.
Takeshi abbassò gli occhi e inalò il profumo. Il tè era buono. Poi si ricordò perché era lì.
-Madre, ho paura.
-La paura è la via per il lato oscuro.
-Tu… vorresti sapere quando i tuoi giorni finiranno?
-A me non importa nulla. Ogni giorno è benedetto. Ma la compassione, che io definirei amore assoluto, illimitato, è al centro della vita. Noi siamo spronati ad amare.
Mentre guidava verso il suo appartamento di Kyoto, Takeshi ripassava le parole di sua madre. “e che la Forza sia con me” mormorò.

Parte III: Laura
Laura guardò la madre sul sedile accanto. Sembrava essersi calmata, e adesso dormiva, con la bocca aperta e il respiro catarroso. Con un occhio al traffico, posò il dorso della mano sulla fronte del passeggero: era calda, più che calda.
Imboccò la rampa verso il pronto soccorso. Era il quarto ospedale che girava, e le risposte erano sempre le stesse: siamo sotto organico, la gente ha lasciato il lavoro, non prendiamo pazienti anziani.
Con la storia dell’asteroide, in tanti avevano lasciato il lavoro per andare al mare. Ai caraibi. Avevano ritirato i soldi dalle banche, le banche erano fallite, ma chi se ne frega? C’era stato un blando tentativo di scoraggiare la pratica, poi si era lasciato correre.
-Posso chiedere a lei?
-Dica- questa volta la dottoressa sembrava gentile.
-È per mia madre. Ha la febbre, non so cosa sia.
-Quanti anni ha?
Ci risiamo, pensò Laura, è troppo vecchia per occuparsene.
-Settantaquattro- poi aggiunse, d’un fiato: -senta, non mi dica che non potete prenderla…
-Non sto dicendo questo. Però a prima vista sembra una semplice influenza, potrebbe occuparsene benissimo lei, a casa.
-No, io non posso, io…- si morse le labbra -non sono capace.
-Basta un letto caldo, tenerla idratata e aspettare che passi. Le prescrivo qualcosa per la tosse secca.
Laura si asciugò delle lacrime di frustrazione. Perché era così difficile? Perché proprio stasera avrebbe dovuto rimanere ad accudire la mamma?
Scopare, voleva scopare. Non scopava mai, e stasera avrebbe potuto, usciva con quel tipo trovato sulla chat. E stamattina la mamma si ammala. Cazzo! Se avesse cercato di rimandare era sicura che sarebbe andato tutto a rotoli.
La vita sentimentale di Laura era un deserto. Laura non era bella, lo sapeva. Ma c’erano donne brutte che avevano trovato un compagno, un marito, che erano riuscite a farsi una famiglia, degli amici, a trovare un proprio spazio, mentre lei era rimasta chiusa in quel bozzolo asfissiante. Una crisalide orrenda che sarebbe rimasta tale. Un filo di seta che la strangolava. Non riusciva a strapparsi da quella ragnatela appiccicosa che era sua madre. Quando staccava una mano, lei la catturava per un piede. Non aveva mai trovato la forza sufficiente per lasciarla andare. Ogni volta che ci provava, e Dio solo sa se ci aveva provato, il rigurgito acido dei sensi di colpa e quella straziante tenerezza le chiudevano la mente e lo stomaco e la facevano tornare al punto di partenza.
Adesso però c’era l’urgenza che rendeva il tempo una variabile anelastica. Non poteva più rimandare.
Una sua amica le aveva fatto provare una chat apposita: stasera avrebbe scopato Francesco.
Stasera avrebbe scopato Francesco.
Sua madre si svegliò tossendo.
-Laura- sussurrò.
-Non è niente mamma, ti riporto a casa.
Il cellulare segnalò un messaggio in arrivo. Laura accelerò d’istinto. La strada curvava e sembrava finire dietro le ultime case.
-Mi porti dell’acqua?- chiese lamentosa la madre mentre Laura le rimboccava le coperte.
-Ce l’hai qui sul comodino mamma- tagliò corto.
-Non ci arrivo.
-Sì- disse Laura allontanandosi -sì che ci arrivi.


Parte IV: Gladys
Gladys Kipsang era una forza della natura. I suoi geni avevano creato il corpo perfetto per la corsa. L’allenamento costante e la volontà incrollabile l’avevano portata ad ottenere risultati straordinari. Riusciva a correre la maratona in 2 ore e 3 minuti, ma lei sapeva di valere un tempo sotto le due ore.
Nessun uomo, né tantomeno donna c’era ancora riuscito. Sembrava che il portoghese, Da Silva, ci potesse arrivare, l’anno scorso. Poi però si era fermato a 2 ore e 20 secondi. Bel tentativo.
Lei sapeva di poterlo fare. Lei lo voleva fare. Voleva essere la prima, lo avrebbe fatto per se stessa, per i sacrifici, le lacrime e la rabbia. E per suo padre, quel testa di cazzo che avrebbe voluto che lei si fosse sposata e fosse rimasta a Meru, in Kenya, a sprecare la propria vita come cameriera o donna delle pulizie.
-Guardami!- gli avrebbe detto -guardami, stronzo! Guarda tua figlia, e guarda te stesso, e dimmi cosa vedi.
Quando il colpo di pistola dello starter squarciò l’aria, atleti e atlete partirono in un gruppo compatto. Un gigantesco animale dalle innumerevoli gambe che si muoveva in ondate costanti.
Lei era scattata con gli uomini, le donne avevano un ritmo troppo lento, e si spinse subito in testa, con due connazionali, un etiope, il portoghese e uno scandinavo.
Gladys seguì il ritmo ipnotico del suo corpo abituato alla corsa. Lo sguardo fisso dinnanzi a lei, le braccia come pendoli simmetrici avanti e indietro lungo i fianchi. Impostò il tempo mentale che come un cronometro le diceva che tutto stava filando liscio, anzi, andava a meraviglia. Persino il vento le era a favore. Non avrebbe potuto chiedere niente di più. 
Il biondino fu il primo a mollare, poi mano a mano tutti quanti rimasero indietro. Al ventiduesimo chilometro era nettamente in testa. Più che vederle, percepiva le reazioni della folla quando passava. Un boato la accompagnava e si spegneva dopo il suo passaggio, per riaccendersi in lontananza, alle sue spalle, all’apparire del secondo atleta. 
Continuò, continuò. Ci fu una crisi, al trentesimo chilometro. Ci fu la fatica al trentasettesimo chilometro.  Ma tutto passò, e si ritrovò sul rettilineo, dove l’ultima leggera discesa nascondeva il traguardo, come se tutto sparisse nel nulla.
Un’ora, 59 minuti e 14 secondi. Sarebbe stato quello il tempo con cui tutti si sarebbero dovuti confrontare da lì in avanti. Al traguardo fu assalita da telecamere e macchine fotografiche. Le luci e i flash si riflettevano sul suo sudore e sui suoi denti bianchi.
L’indomani le prime pagine dei giornali sarebbero state tutte per lei. Un trionfo mondiale. Un primato che sarebbe entrato nella storia. La ricompensa di una vita intera di sacrifici.
Si svegliò con l’intenzione di mandare la prima pagina del giornale a suo padre. Ma la prima pagina recitava: “La fine del mondo è arrivata”.

Aldo Quario

Aldo Quario