Paesaggi sonori: intervista a Francesco Michi
L’appuntamento di oggi è all’interno della sobria eleganza di Stanza 251. Cornice ideale per una conversazione il cui perimetro sarà definito intorno a temi quali paesaggio sonoro, ascolto attivo, interazioni fra paesaggio visivo e sonoro. In questa ricognizione intorno al suono ci condurrà Francesco Michi, fra le altre cose coordinatore per l'Italia delle attività del FORUM KLANGLANDSCHAFT (FKL), associazione internazionale per il paesaggio sonoro.
Qual’è il nostro atteggiamento in presenza di eventi sonori? Come li viviamo e come li trasmettiamo agli altri? Come assumere un atteggiamento consapevole per costruire un’ interazione con l’ambiente sonoro circostante? Interazione intesa come processo creativo: dal più semplice ascolto attivo a forme più complesse come la progettazione di forme abitative concepite a partire proprio dall’elemento sonoro. Incidentalmente si parlerà anche di musica ma il filo rosso da seguire resterà la valorizzazione del ruolo dell’ascolto attivo e la creazione di modelli relazionali creativi. Anche per questo appuntamento abbiamo privilegiato l’aspetto relazionale della conversazione rispetto al più freddo schema di domande e risposte scritte. Quello che segue è dunque il fedele sedimento elettronico di pensieri e parole sviluppati dal vivo.
FRANCESCO MICHI - FM
DANIELE CIULLINI - DC
ROBERTO CAGNOLI - RC
CARLO ZEI - CZ
DC: Puoi spiegarci cosa si intende con “paesaggio sonoro”?
FM: La locuzione “paesaggio sonoro” si spiega praticamente da sola. I riferimenti sono “paesaggio”, termine di ambito principalmente visivo, derivante da una pratica pittorica, e “sonoro”, che emette un suono . Mettendo insieme le due parole, di uso estremamente comune, non è poi difficile dare un senso a cosa si può intendere con “paesaggio sonoro”. Ciò che può risultare complesso, invece, è l’uso nei vari ambiti in cui trova applicazione. Negli anni Sessanta “soundscape”, il termine originale tradotto in italiano come “paesaggio sonoro”, fu usato da Schafer per la prima volta in The Tuning of the World, o addirittura, forse, in un libro precedente, e veniva da lui definito come «un qualunque ambiente che sia un oggetto di studio dal punto di vista acustico». Cito a memoria.
Poi la stessa locuzione sembra nel tempo raffinarsi e, pur trattando dei suoni dell'ambiente che ci circonda - che è ovviamente il primo messaggio che il nome suggerisce - si qualifica come concetto che fa principalmente riferimento al soggetto percepente. La traduzione in italiano rende ben conto di questo passaggio. Quindi il paesaggio sonoro è, sì, tutto ciò che mi circonda, ma più esattamente, è ciò che io rilevo in ciò che mi circonda.
Ciò che mi circonda, oggettivamente, sarebbe l’“ambiente sonoro”, almeno così poi Barry Truax lo definisce nel suo Handbook for Acoustic Ecology, libro che scrisse per enunciare molti dei concetti che il gruppo canadese di Murray Schafer aveva elaborato e usato nelle indagini che stava facendo.
Schafer, con i suoi studenti e collaboratori, fondò in Canada negli anni Settanta un gruppo di ricerca, il World Soundscape Project, che cominciò a registrare, studiare e analizzare il paesaggio sonoro. L'obiettivo, o forse il punto di partenza, era quello di interpretare i suoni dell'ambiente utilizzando competenze derivanti anche del mondo della musica, con lo scopo di suggerire come migliorare l'ambiente sonoro di tutti quanti. In pratica, la frase iconica di Schafer è, e ancora cito a memoria: «…il mondo è una grande composizione e noi siamo allo stesso tempo i suoi autori, i suoi interpreti e i suoi esecutori». Per cui ne siamo responsabili, trattiamolo, il mondo sonoro, come tratteremmo una composizione musicale, vediamo se possiamo correggere qualcosa, cioè interpretiamolo, intanto così, utilizzando dei parametri che vengono derivati direttamente dal mondo della musica, ad esempio la fondamentale e così via. E da questa base di partenza vediamo se riusciamo a capire come un musicista potrebbe, lavorando insieme ad altri esperti di altre discipline, creare un mondo migliore dal punto di vista acustico.
DC: Quindi addirittura applicando “le leggi della musica” o la sensibilità che ne deriva, perché noi parliamo di tonica e di altro ancora.
FM: Si tratta di analizzare il mondo sonoro tendenzialmente come si analizzerebbe un brano musicale e sulla base di questo cercare gli elementi migliorativi. I dati si ottengono non solo con il nostro ascolto, ovviamente, ma con le interviste, con le rilevazioni di tempi. Il paesaggio sonoro non è un'istantanea, è una cosa lunga, una cosa che esiste nel tempo. Un paesaggio sonoro ha una sua persistenza, nel senso che per sapere esattamente com'è un paesaggio sonoro di un luogo, non ci possiamo trascorrere solo un minuto, ci dobbiamo stare molto tempo e tornarci ancora e ancora, perché un evento sonoro può capitare, oppure può non capitare e può essere anche significativo “quando” capita, o se ha o non ha una sua ritmicità nel tempo. Il mondo della musica è questo, alla fine, no? È quello dei suoni che si sviluppano nel tempo.
Quindi Schafer fu il primo a teorizzare un lavoro di questo tipo. Il suo gruppo canadese, World Soundscape Project, cominciò a registrare, a scrivere testi, inventarsi le passeggiate sonore, inventarsi anche la soundscape composition, cioè la composizione che viene fatta con materiali sonori ambientali registrati e che è cosa diversa dalla musica concreta. Quest'ultima usava materiali sonori registrati nella quotidianità, ma poi questi suoni venivano manipolati variamente con strumenti meccanici ed elettrici, materiale “bruto” nelle mani del compositore.
La soundscape composition, usa anch’essa materiali registrati, ma in teoria i suoni e i contesti ambientali rimangono riconoscibili, lo scopo è richiamare associazioni, ricordi e l'immaginario dell'ascoltatore in relazione al paesaggio sonoro. Detto questo, il termine paesaggio sonoro viene nel tempo sempre più declinato come relativo al rapporto tra il soggetto percepente e il mondo esterno. È ovvio che quando ascolto un paesaggio, o qualunque altra cosa, non ascolto esattamente tutto quello che c'è. La differenza tra il mio ascolto e quello che fa il microfono è sostanziale, cioè io ascolto ciò che mi attrae, ciò da cui la mia attenzione viene richiamata. Il microfono è insensibile a tutto questo, lui prende tutto quanto.
Ma sicuramente in una passeggiata in un bosco io sentirò cose che Daniele non sente, per esempio, o Daniele sentirà altre cose dalle quali io non sono stato attratto, a meno che non ci sia stato un rumore forte o particolare che si è imposto all’attenzione di tutti quanti. Quando facciamo le passeggiate sonore, la parte finale di restituzione dell'esperienza è quella nella quale ci si rende conto di che cosa ognuno ha ascoltato e si mettono a confronto le varie interpretazioni dei propri ascolti nello stesso ambiente.
DC: Le varie visioni…
FM: Qui già ci sarebbe da discutere. Direi piuttosto ascolti diversi. Per quanto riguarda la visione noi umani abbiamo gli occhi disposti frontalmente, guardano a diritto; l'orecchio non è così, l'orecchio non ha un obiettivo da puntare, l'occhio in ogni caso si “aggancia” da qualche parte. L'orecchio viene attratto, viene colpito, ma non ha un puntamento intenzionale1.
RC: Le passeggiate sonore, terminano sempre con un confronto? La passeggiata sonora ti stimola? C'è qualcuno che fa da guida, evidenziando dei suoni più e altri di meno, oppure viene presa come una scampagnata? Mi sembra molto interessante il fatto che alla fine della passeggiata sonora ognuno si confronti, che ci sia una specie di circolo di persone in cui ognuno racconta la propria passeggiata sonora, diversa rispetto a quella degli altri.
FM: Le tecniche per condurre e passeggiate sonora sono tante, ognuno ha la sua, c'è chi lo fa senza dire niente - nemmeno un riscontro finale, c'è chi lo fa invece con la produzione di “partiture” che i partecipanti elaborano segnando in una linea temporale gli eventi che hanno udito, o dai quali sono stati colpiti, per confrontarli poi con quelli degli altri. C'è chi lo fa sussurrando cose, c'è chi si ferma e dà spiegazioni, dà modo di capire le dinamiche dei vari suoni: ogni tecnica ha ovviamente uno scopo diverso, che dipende da chi le conduce. C'è un bel libro di Elena Biserna Walking from scores che è uscito due anni fa che parla della scrittura di partiture che partono o conducono al passeggiare, e porta molti esempi sulla codificazione di alcune passeggiate sonore, di come vengono trattate anche dal punto di vista della elaborazione della partitura stessa.
Fammi però finire questa storia della definizione di “paesaggio sonoro”, perché ci tengo ad arrivare a un punto: via via che siamo andati avanti, includendo e evidenziando sempre di più nel concetto di “paesaggio sonoro” l'importanza della figura del soggetto percepente, si arriva a una delle ultime definizioni che qualifica come soggetti percepenti da considerare anche le forme viventi al di là della specie umana. Quindi qualifica il paesaggio sonoro come l'ambiente sonoro dove le relazioni sociali interagiscono con qualunque oggetto percepente a prescindere dalla specie; se prima il riferimento era soltanto umano, ora si cerca di concentrarci sullo studio del paesaggio anche nelle relazioni che si scambiano in un mondo pensato come inter-specie.
Ad ottobre 2023 ho progettato e condotto una passeggiata a Lugano, intitolata Entangled walk. Avevo letto da poco il libro Entangled Life (nell’edizione italiana L’ordine nascosto. La vita segreta dei funghi), di Merlin Sheldrake, un libro scritto qualche anno fa che ha anche avuto un discreto successo editoriale, dove si parla, fra l’altro, del modo in cui le ife fungine vanno a prendere nutrimento nel terreno, le reti che creano nel cercare il cibo. La differenza tra animali e funghi in questa ricerca è semplice: gli animali si nutrono introducendo il cibo nel loro corpo, i funghi introducendo il loro corpo nel cibo, essi entrano dentro il tessuto stesso delle cose che poi daranno loro nutrimento. Proprio su questo principio ho creato la passeggiata sonora, che era quindi basata sulla costruzione di una mappa condivisa realizzata da tutti i partecipanti. Dopo una breve spiegazione di tutto questo ragionamento (le ife, il nutrimento ecc.), ho chiesto ad ogni partecipante di andare per conto proprio, partendo tutti da un unico punto, ma poi ramificandosi nel territorio, cercando di trovare un luogo dal quale trarre una sorta di nutrimento sonoro.
E così tutte le persone che hanno partecipato, attraverso i loro strumenti di geo-localizzazione, i cellulari, hanno disegnato su una piattaforma web, una mappa, con questi “rami”, che si muovevano, procedevano nello spazio, e si fermavano quando veniva trovato un luogo ritenuto soddisfacente. La passeggiata sonora creata su questo principio, ha portato dunque alla costruzione di una mappa condivisa realizzata da tutti i partecipanti. Ogni partecipante si muoveva da solo, ascoltava da solo, ma era legato ad un progetto ed un intento collettivo.
DC: C'è un'esperienza simile fatta sempre in Svizzera da un collettivo di musicisti che fa capo all’etichetta Insub Records: definiscono un territorio uguale per tutti, si spargono nel territorio ciascuno con una sorgente sonora e quando trovano il luogo nel quale creare un'interazione allora producono dei suoni. Si può trovare su Bandcamp ovviamente all'indirizzo di Insub Records.
RC: È un'esperienza speculare rispetto a quella decritta prima, porto io il suono in un posto in cui mi sento ispirato.
DC: Giusto per celia. Avevano scelto tutti un posto vicino all'aeroporto per cui tutti i brani avevano questo fil-rouge degli aeroplani: c'è chi ha portato mezza batteria, chi ha portato un sax, un’arpa. Però c'è questo processo, uguale e contrario.
FM: Mi interessa sottolineare il fatto che il tentativo che avevo in mente era quello di provare a vedere se è possibile immedesimarsi, o immaginarsi, in un rapporto con l'ambiente sonoro diverso da quello umano. Un rapporto che non vede soltanto le relazioni fisiche, temporali o musicali degli eventi, ma piuttosto valuta la possibilità di sentirsi “accolto” dall'ambiente sonoro stesso. Può benissimo essere accogliente un sottopassaggio, per certi versi, se uno è a proprio agio, anche se i suoni lì magari sono quelli dei treni che passano sopra, riverberati dalle pareti di cemento.
RC: Penso sia difficile astrarsi dai propri pensieri.
FM: Sì, non è detto infatti che sia successo: a cosa porta tutto questo poi? Onestamente, non ho idea.
DC: Per questo ti ho proposto questa conversazione perché, dal mio punto di vista, la cosa affascinante è che la lancetta tra ambiente e soggetto agente prima mi sembrava tutta spostata sull'ambiente (entro in campo di grano, come quello in Svizzera, in una foresta, e prendo a vario livello quello che l'ambiente mi regala, mi porge). Poi, piano piano, mi sembra di capire, anche dall'esposizione che hai fatto, che c'è un ruolo progressivamente sempre più attivo da parte di chi entra nell'ambiente: c'è un'interazione sempre maggiore. Addirittura sembra di vedere che l’ambiente lo si legge in maniera diversa e, in sostanza, si cercano modi di rapportarsi sempre diversi e sempre più intimi, vicini, connessi.
FM: Credo che il problema sia quello di iniziare a considerare come atteggiamento attivo l’ascolto di per sé, non solo quello che porta ad una azione o ad una produzione fattiva.
DC:Altrimenti anche da mero fruitore, cioè io con il registratore nell'ambiente, prendo quel che c'è. E questo è il livello zero.
FM: Sì, è già un po' più attivo di quello che dico io: l'ascolto mediato attraverso l'uso del registratore in qualche modo consente di conservare una memoria sonora. Per certi versi però può anche essere interessante imparare a non usarlo (a meno che quest'uso non sia motivato dalla necessità della conservazione per un qualche scopo). Mi riferisco, per fare un esempio, al non andare in viaggio portando con sé con la macchina fotografica, quindi cercare di ricordarsi le immagini o le esperienze che sono connesse al viaggio stesso o a una gita affidandoci ad una memoria più attenta; senza il registratore (in realtà devo dire che non è poi così comune portare un registratore con noi, ma appunto è tanto per fare un esempio) si innesca anche per l'ascolto un'attenzione temporale e spaziale più attiva perché si è consapevoli che quel momento, quella situazione, non ricapiterà.
In un certo senso imparare a ricordare le avventure sonore durante una passeggiata, ad esempio, permette in qualche modo di comporre attraverso l'ascolto: cioè è possibile, se c’è la volontà, allenarsi a ricordare alcune cose e metterle insieme. Creare per sé stessi una sorta di composizione mentale basata sull'esperienza dell'ascolto. Stefano Zorzanello condusse un bel workshop su questo qualche anno fa in uno dei nostri congressi. Altrimenti si può condividere l'ascolto in qualche altro modo, cioè parlandone, non facendo sentire materiali registrati, ma parlando del proprio ascolto, descrivendolo, cercando un modo per esprimere ciò che è ascoltato e comunicarlo ad altri, che a loro volta, magari, racconteranno il loro. Si può creare una sorta di polifonia di esperienze, cosa che rende innanzitutto evidente che le persone ascoltano diversamente, e ci mostra come lo fanno.
RC: La restituzione dello stesso paesaggio, da più persone, può diventare un altro paesaggio?
FM: Così, raccontato, ad esempio, diventa una sorta di paesaggio letterario, se vogliamo, no? Perché le esperienze espresse, raccontate, sono esperienze in qualche modo mediate. È un lavoro letterario, narrativo. Su quella base si può costruire un paesaggio complesso, narrato, che si “adagia” sulle esperienze di più ascolti.
DC: Come Fuori? Quel lavoro che avete fatto?
FM: Sì, o meglio, Variazioni su Fuori, il lavoro che abbiamo fatto con Mechi Cena e altre persone. Fra gli esecutori c'erano fra gli altri Giulio Aldinucci, Francesca Ciullini, Maurizio Montini, Andrea Venturoli e Pietro Michi. Per quel lavoro abbiamo variato (e conseguentemente reinterpretato) una partitura del 1965 di Chiari, che si chiama appunto Fuori, che prevede un performer che, nello spazio della performance, si concentra, segue le regole dettate dalla partitura stessa, e racconta ciò che sente. Questo potrebbe richiamare un famoso pezzo di Cage, 4'33”, in cui non c'è produzione di suono effettiva e che accomuna nello stesso atteggiamento ascoltatori e performer. La differenza è che in 4’33” c'è una attesa del suono, una sospensione, che è anche il senso musicale della pausa, e, per chi ce la vuol vedere, una implicita richiesta di attenzione al suono ambientale; cosa che personalmente non condivido più di tanto.
Anche il lavoro di Chiari da cui siamo partiti accomuna performer e pubblico nell’ascolto dello stesso paesaggio. Però lo fa attraverso la mediazione del racconto del performer. In Fuori, il racconto permette il riconoscimento e il confronto delle esperienze di ascolto simultanee del pubblico stesso: è il “racconto” di un'esperienza che tutti quanti in quel momento stanno condividendo. Noi abbiamo trasformato Fuori in un'esecuzione polifonica con otto esecutori, i quali in un ambiente aperto, ognuno in un punto diverso lontano dagli altri, per un'ora, hanno eseguito la partitura di Chiari. Ogni esecutore ha registrato la propria esecuzione, poi ha rielaborato la propria registrazione. Abbiamo dunque ottenuto otto diverse letture dell’ascolto del paesaggio, conseguentemente otto racconti, otto interpretazioni della partitura di Chiari (perché è secondo le regole della partitura che l’ambiente sonoro è stato raccontato). Dopodiché gli otto racconti sono stati sincronizzati e diffusi contemporaneamente in modo da creare questo coro di otto racconti diversi, sovrapposti. Racconti che ogni tanto si incontrano e formano quasi dei duetti, terzetti, a volte addirittura usano le stesse parole in una sorta di coincidenza nel descrivere lo stesso evento sonoro. Si può ascoltare dunque come si ascolta un brano musicale composto da più voci parallele, sovrapposte: sono le voci dei vari racconti, delle parole e delle pause, delle diverse prosodie. Una musica prodotta non da chi fa suoni, ma da chi li ascolta.
Il tema dell'ascolto è un tema fondamentale oggi, nel senso che ci stiamo accorgendo ultimamente di quanto l'ascolto riesca anche nelle scienze umanistiche, oltre che nelle scienze pure, ad aprire degli spiragli nuovi nella ricerca. Il richiamo all'ascolto è diventato uno strumento di indagine a tutti gli effetti, dopo essere stato ignorato per tanto tempo. Lo stesso vale per i suoni, classificati quasi come un effetto collaterale degli eventi, non materiali da cui trarre informazioni per la conoscenza.
DC: Cioè c’è stata una gerarchizzazione tra suono e fruitore del suono, nella quale uno, il fruitore, è relegato in un angolo, in un ruolo passivo.
FM: Sì, come dire, senza solleticare il suo ruolo attivo.
DC: E poi c'è tutta la parte che mi sembra altrettanto interessante, la parte performativa di tutto questo universo sonoro. Cioè non solo si rovesciano certi rapporti storico-gerarchici, ma il ruolo sempre maggiore di quello che era il vecchio fruitore presume proprio l’assunzione anche di un ruolo direttamente performativo, cioè si cammina, ci si ferma a determinate stazioni, distanze, ecc.
FM: Si percepisce il tempo nel quale le cose si sviluppano, e così via.
DC: Quindi c'è anche questo aspetto in più che arricchisce.
FM: È un tipo di performance, quella della passeggiata sonora - è qui che siamo tornati, vero? - che non ha un esecutore e un ascoltatore, ma che cerca in qualche modo di appiattire questi ruoli, di far sentire allo stesso modo l'uno e l'altro. È un problema di educazione; bisogna dare prestigio all'ascolto, il prestigio che gli è stato tolto a favore dell’enfasi che viene data alla produzione dei suoni, a chi realizza musica. Valorizzare, rendere orgoglioso l'ascoltatore del suo ruolo d'ascoltatore, di ascoltatore attivo, di ascoltatore del mondo, in particolare.
DC: E il ruolo dell'ascolto oggi mi pare particolarmente delicato, perché siamo abituati a fruire sempre meno: prima c'era il 33 giri, poi siamo passati a forme più rarefatte, più concentrate. Adesso si scaricano i brani dal web, ci si fa la compilation, ma non è automatico che una volta fatta, la si ascolti tutta fino in fondo.
FM: Questo va anche bene. Ora qui si sta parlando di musica e non più di suono, che è già un altro mondo.
DC: Però c'è sempre il problema dell'attenzione.
FM: Ho passato nottate intere a sentire dischi con gli amici; ci mettevamo in ascolto e li sentivamo restando in silenzio. La musica non veniva usata come sottofondo, non ci accompagnava per tutta la giornata, non la sentivamo con le cuffie per la strada: il nostro mettersi a sentire era motivato dalla volontà di farlo. Ed era un rito che prevedeva lo stare zitti e ascoltare.
DC: Io lo faccio ancora così.
RC: Quando ascolto la musica, mi metto anche in una posizione fisica adeguata per l’ascolto, con gli amici, con le casse nella giusta posizione.
FM: Io credo che oggi questo non esista più. O non esista più di tanto. L’ascolto della musica, nel quotidiano, è una operazione a carattere individuale, ormai in cuffia, ognuno per conto suo. E ancora, ascoltiamo musica in qualunque momento della nostra giornata. Volenti o nolenti, peraltro.
Perché al di là di quello che vogliamo ascoltare e che portiamo con noi nei vari dispositivi, che ascoltiamo con le cuffie, ovunque andiamo siamo costretti ad ascoltare musica.
DC: Siamo costretti a sentire la musica di chi ci sta accanto sull’autobus, ad esempio. Io faccio una serie di cose che chiamo Daily Pleasure e, fra i piaceri quotidiani, c'è l'ascolto. Ascolto, chiudo la porta, metto lì, posso prendere una bottiglia di vino e un bicchiere, ma questo è quanto. Magari ascolto uno o due dischi, ma quando faccio questa cosa, non leggo nemmeno la copertina, come si faceva un tempo.
CZ: Però buffo questo che dici sulle cuffie: mi fa venire in mente una cosa, in modo particolare perché sto spesso con gli studenti e loro le usano continuamente. Le cuffie, come le usavamo noi dagli anni settanta, avevano la funzione di farti concentrare su quello che ascoltavi, per sentire meglio, se le condizioni ambientali non lo consentivano o le casse che avevi non erano buone. Adesso l'obiettivo delle cuffie è l'opposto, le cuffie servono a isolarsi dall'ascolto dell'esterno, tant'è vero che tutte hanno un riduttore di rumore, l'invenzione più importante delle cuffie è l'eliminazione del rumore: servono non tanto a sentire la musica, perché la musica è uno Spotify generico, magari non sai nemmeno cosa ascolti, ma a creare un paesaggio sonoro completamente artificiale e personale, ad eliminare il mondo esterno. Non sai quello che succede fuori e, sebbene tu non sappia assolutamente cosa stai ascoltando, e magari neppure ti interessa minimamente, è del tutto sotto controllo, è artificiale: quindi sei rassicurato, sei al sicuro. E quindi è l'esatto opposto di come le usavamo noi: ci servivano per amplificare, come una droga, la capacità di concentrarci e percepire.
FM: Qui si entra nell'antropologico, come è che l'essere umano si è trovato costretto, in qualche modo, a difendersi, per rimanere in quest’ambito, dal rumore esterno, ad isolarsi dalla realtà sonora, ma forse anche dalla realtà tout court?
CZ: Certo, certo. E la mancanza di controllo controbilancia con questi strumenti di controllo che si usano, in realtà.
RC: All'interno dei paesaggi sonori è prevista delle volte un'interazione volontaria? Un suono o un input sonoro esterno, immesso volontariamente per produrre una reazione.
FM: “Paesaggio sonoro” è una locuzione che descrive un campo di ricerca molto vasto, che va appunto dagli ambiti dell’umanistica a quelli più o meno scientifici.
Non ha le caratteristiche di una “religione”. Tutto si fa, e tutto si può fare! Esistono esperienze nelle quali, in un ambiente di un certo tipo, si impone un suono. Le installazioni sonore, specie quelle site-specific, sono alla fine questo. Ed è ovviamente lecito. Anzi ci sono diverse azioni artistiche, ma anche esperimenti scientifici, urbanistici, sempre nell'ambito dei soundscape studies, nelle quali si usa la diffusione di suoni di un certo tipo e con particolari criteri di spazializzazione per ottenere risultati artistici e scientifici. Non è che l'attenzione all'ambiente sonoro impone una situazione monacale per cui “assolutamente niente” si tocca: sarebbe impossibile, per lo stesso motivo per cui il mondo stesso produce cose non desiderate.
RC: Il fatto è che ci sono dei suoni che sono prodotti e che non voglio e allora come fosse un'iniezione di suono in un punto, fatta per modificare e ottenere risultati volutamente artistici.
FM: In questo senso ce ne sono tantissimi ed è corretto così. Qualunque intrusione di un suono estraneo in un certo ambiente, per esempio, potrebbe aiutare a rendersi conto del fatto che intorno a quel suono, ce ne sono altri; ed è proprio grazie a quel suono, che trovi “estraneo”, che riesci ad ascoltarli di nuovo, dopo che l'abitudine non li faceva più notare.
Quindi sono anche espedienti con i quali si sensibilizza all'ascolto, si caratterizza, in qualche modo, o si corregge, un ambiente con un qualcosa. È come nello zen, quando il maestro dà il colpo col bastone sulla spalla dell’allievo per richiamarlo all'attenzione. Può essere esattamente la stessa cosa.
RC: Ho conosciuto una persona che insegna musica in una scuola che ha introdotto nel suo insegnamento la pratica di portare i bambini fuori, di far loro notare i suoni dell'ambiente, di farglieli annotare. Però mi diceva che è molto difficile e trovava addirittura l'opposizione di alcuni genitori che dicevano: “Devi insegnare musica e te li porti fuori a sentire i suoni!?!”. È un pregiudizio. Ritieni che sarebbe invece opportuno cominciare questa educazione all'ascolto inserendo in qualche modo anche proprio l'ascolto come materia scolastica?
FM: Lo stiamo facendo. Il forum per il paesaggio sonoro, il Forum Klanglandschaft (FKL), del quale sono coordinatore per l'Italia, dal 2022 fa, insieme ad altri partner, congressi proprio su questo, invitando a partecipare insegnanti di materie musicali e di altre materie, suggerendo l’utilizzo dell’ascolto e del paesaggio sonoro come possibile aggancio multidisciplinare. Stiamo cercando di creare delle situazioni dove ci sia uno scambio di esperienze fra coloro che tentano quest'approccio; invitiamo a lavorare su questo non soltanto gli insegnanti di musica, ma quelli di tutte le materie, anche se, per il momento, questi ultimi non rispondono granché.
Secondo noi il paesaggio sonoro è un'occasione, è il “terreno” per creare dei racconti interdisciplinari, narrazioni interdisciplinari, che hanno a che fare con materie letterarie - la storia, la letteratura - ma anche con materie scientifiche come la matematica, la biologia. Uno dei più grandi campi di applicazione del suono e dell'ascolto oggi è quello della biologia della ecologia, della meteorologia. Rob Mc Key racconta del monitoraggio attraverso “registratori sempre accesi” lungo il percorso delle farfalle monarca. Le loro rotte che cambiano, il loro numero, le loro permanenze, forniscono dati che aiutano gli ecologi a comprendere gli effetti del disboscamento, degli erbicidi, dei cambiamenti climatici e di altre attività umane. Dati utili alla comprensione dei mutamenti, delle dinamiche e dello stato di salute di tutto l’ecosistema.
Dall’ascolto gli ecologi riescono a ricavare tante informazioni che non sono riferite solo all'ambito del sonoro; l'ascolto sta diventando fondamentale in questi campi, è un modello di ecologia interconnessa. E per questo sarebbe auspicabile che già nelle scuole fosse fatto notare che l'apprendimento tramite l'ascolto è una prassi importante e che esistono delle strutture anche ad alto livello che fanno ricerche utilizzando l’ascolto.
Addirittura utilizzando l'intelligenza artificiale stanno cercando di ricreare la lingua degli elefanti, giusto per dirne una: cioè è possibile, con un sistema di elaborazione dei dati presi dalle registrazioni e con ricostruzioni attraverso algoritmi di intelligenza artificiale, cercare di interagire acusticamente con gli animali, in questo caso gli elefanti, con l’obiettivo di capire la sintassi del loro linguaggio, rimandare loro messaggi elaborati per vedere se c'è una risposta congruente, imparare così la loro “lingua”: cercare di trovare un sistema per creare una sorta di stele di Rosetta che ci permetta di comunicare con loro.
Vi ricordate Il giorno del delfino? Si tratta di un film di fantascienza del 1973 in cui due biologi marini conducono delle ricerche sul comportamento e sul linguaggio dei delfini e, dopo innumerevoli tentativi, riescono in qualche modo a farli “parlare”. Adesso siamo andati totalmente oltre: con l'intelligenza artificiale è possibile elaborare in poco tempo una grande quantità di dati, riuscire a capire se ci si sta avvicinando a comunicare con l'animale e, soprattutto capire se l’animale - dalle sue reazioni a questi tentativi - ha desiderio di interagire “verbalmente” con noi. E quest’ultimo è un altro aspetto fondamentale di questo tipo di ricerca: gli essere umani sono sempre antropocentrici, siamo noi che cerchiamo di metterci in contatto con loro, ma siamo sicuri che loro lo vogliano?
DC: Invece ragionando “romanticamente”, un'altra cosa sulla quale riflettevo riguarda cosa resta delle incursioni e delle interazioni, col paesaggio sonoro. Cioè, resta qualcosa di registrato? Resta l'esperienza personale? È una meteora, che sfavilla e poi scompare?
FM: Non è una religione, occuparsi di paesaggio sonoro non impone di per sé comportamenti. Quando fai un viaggio, ti puoi portare a casa materiale, foto, souvenir. Puoi anche poi elaborare questo materiale e produrre cose, oppure semplicemente contentarti di aver fatto quel viaggio.
DC: Forse dipende anche dal tipo di esperienza sonora. Ad esempio una cosa come il tuo lavoro Variazioni su Fuori può benissimo andare su disco.
FM: Ci va, c'è stata ed è su disco.
DC: Quell'esperienza di cui dicevo prima, di quel collettivo svizzero Insub, anche quella può andare su disco? Forse sì. Altre cose no.
FM: Secondo me, quella degli svizzeri forse è più problematica presentarla su disco, perché l'impatto effettivo ce l'hai se sei lì. Allora, che senso ha metterla su disco? Non è possibile ricreare quella situazione. Ha lo stesso senso ascoltare un esperimento del genere a casa mia, piuttosto che essere là? Ha davvero lo stesso senso? Come lo prendo? Come lo classifico? Come un appunto di qualcuno che mi racconta di quello che ha fatto?
DC: È il disegno di qualcosa, ma non è certo la scena reale.
FM: In realtà è una testimonianza di una cosa che è stata fatta, ma caso per caso l'autore o gli autori dovrebbero porsi il problema di quale medium usare per comunicare, per testimoniare, in un modo che non sia un modo banale, che non sia superficiale. Questo per tutto, anche per le arti plastiche e tutto il resto. Teniamo conto del fatto che l'oggetto che è prodotto a testimonianza di una certa performance o happening, trasporterà il contenuto sonoro immediatamente da un’altra parte, cioè quella esperienza che fissata su un medium come ad esempio un CD, sarà trasportata da un ambiente nel quale ha una sua collocazione…
DC: Dal campo di grano svizzero allo studiolo di casa mia evidentemente c’è un abisso.
FM: Se lo facciamo sentire a uno che non sa nulla di tutte queste operazioni, forse dice che questa musica la sa fare anche lui. È chiaro che tutto il contesto che sta alla base della progettazione e realizzazione di quel lavoro non è evidente dal solo ascolto del materiale registrato.
DC: Senza dubbio l'aspetto della restituzione o del fissare, diciamo su supporto fisico l'esperienza, è senz'altro la parte minore dell'esperienza stessa.
FM: Sì, forse è una parte minore. Però è quello che comunichi, per cui...
DC: È per questo che ragionavo intorno a questo aspetto, anche se è minore.
FM: Tornando agli svizzeri, non è che sia illegittimo farlo, però secondo me c’è un po' di frainteso nel fatto che venga prodotto un oggetto (un CD) su una cosa che non è propriamente un oggetto (una azione tendenzialmente site-specific). Non avendolo esperito sul posto potrebbe essere difficile percepire il contenuto del CD come qualcosa che non ha una completezza propria, diciamo così, come potrebbe essere un brano musicale inciso, sia pure all'aperto. Soprattutto sarà impossibile percepire un suono alla sua giusta distanza da chi ascolta, avere prospettive mutevoli come accadrebbe se l’ascoltatore fosse presente sul posto, percepire quello che un altro esecutore fa da un'altra parte in maniera diversa e così via. Queste sono tutte cose che probabilmente arricchivano (o forse ne costituivano la parte centrale) il lavoro originale, nella sua esecuzione sul posto. Dunque probabilmente nemmeno la stessa idea che ha generato il lavoro dei musicisti svizzeri è rispettata e resa chiara nella sua proposizione in un disco.
Sto parlando senza aver mai sentito il lavoro di cui stiamo parlando. Può darsi che l'autore sottolinei che quello su disco è un prodotto diverso, perché lui lo considera un prodotto diverso, solo derivante dall'evento registrato. Questo in fondo è problema autoriale o relativo all’ autorialità, si tratta anche dell'idea che uno ha del proprio lavoro e di come farlo fruire.
RC: A proposito della fruizione, come si può fare a diffondere l’esperienza del “paesaggio sonoro”?
FM: Credo che le soluzioni, se esistono, siano al di fuori dei modi di produzione e di fruizione della musica o degli eventi sonori che solitamente conosciamo e pratichiamo, specialmente per il tipo di proposte di cui stiamo parlando, incentrate sull'ascolto “creativo”, per cui sembra che non ci siano canali di comunicazione “a larga banda”.
Dobbiamo risolvere, credo, creando interesse piano piano attraverso l'educazione.Secondo me è fondamentale intendere l'insegnamento della musica anche (se non soprattutto) come in primo luogo educazione all'ascolto: questo, piuttosto che spingere solo verso la produzione di musica e suoni. Essere educati all'ascolto può comportare per un esecutore pensare allo spazio nel quale il suo lavoro sarà presentato e dunque fruito, pensare anche a come eventualmente tenerlo presente mentre compone, oppure prendere da questo stimolo ecc. Cercare nelle scuole di non limitare l'esperienza musicale soltanto finalizzata a produrre brani sonori o musicali, ma anche ad ascoltare ciò che succede e quindi, a inventarsi nuovi ambiti di intervento. È educazione, sostanzialmente. E c'è chi lo fa, anzi, sono in tanti ormai, non è una cosa di massa, certo, non sarà mai una cosa di massa, perché al momento non ha un mercato, però è l’educazione all’ascolto che, al di là dell'ambito strettamente musicale, poi permetterà, e permette già in effetti, ad esempio agli architetti, di progettare probabilmente un villaggio a misura d'uomo. Tutta questa attenzione all'ambiente sonoro, a tutto quello di cui abbiamo parlato finora, non è finalizzata, e non è da indirizzare solo, verso l'attività concertistica o qualcosa del genere. È una campagna che, partendo da esigenze che sono estetiche, etiche, musicali (anche storicamente, come dicevamo prima, si è partiti da questo ambito 50 anni fa), vuole influire sulla vita delle persone, su nuove strategie di urbanizzazione, sulla sensibilità, su tutto quanto sia nella sfera dell'attenzione umana, senza aver ricadute soltanto nella proposizione o riproposizione di eventi spettacolari.
RC: Si introduce un altro elemento col tema dell'architettura, perché finora si è parlato di paesaggio sonoro come abbastanza legato alla natura, e agli spazi extraurbani. In realtà poi non è così, il paesaggio sonoro può essere la strada.
FM: L’abbiamo detto fin dall’inizio: è tutto ciò che ci circonda. Esserne consapevoli vuol dire probabilmente riuscire a dare informazioni sul nostro ambiente sonoro a chi di dovere oppure a prendersi cura in prima persona di ciò che ci circonda.
RC: Quindi nell'architettura il paesaggio sonoro può intervenire come correttivo?
FM: Innanzitutto, più che altro un architetto dovrebbe considerare anche l’ambiente sonoro nel quale il suo lavoro si inserisce e come il suo lavoro influirà sul paesaggio stesso.
Si racconta delle case giapponesi che con le pareti in carta di riso permettevano al giardino, che era strutturato in modo armonico, con laghetti cascatelle e campanelli di bambù, di entrare all'interno della casa, di creare un ambiente piacevole dentro e fuori, con permeabilità. Così accadeva nell’antica cultura giapponese. Nella nostra si mettono i doppi o tripli vetri che isolano sempre di più. Contribuire all'apertura verso i suoni dell'ambiente, a far sì che i suoni dell'ambiente non vengano temuti, perché ci si occupa della loro qualità, è il modo in cui le scienze del paesaggio sonoro potrebbero influire sui lavori di chi si occupa dell’ambiente, di chi progetta e realizza gli spazi che viviamo.
DC: Un paesaggio sonoro è un bel prisma con tante facce.
FM: Sì, appunto, è uno strumento, una locuzione che qualifica un atteggiamento nell'ambito della ricerca sul suono.
RC: Questa disciplina si è integrata nei tuoi ascolti musicali?
FM: Non ascolto quasi più musica, ho perso la voglia di farlo. O vado ad un concerto, o difficilmente mi metto ad ascoltare qualcosa in altro modo. Lo faccio raramente, qualche volta lo devo fare per alcuni progetti, altre perché sono stimolato dall’esterno: magari mio figlio, lui fa e produce musica, mi propone delle cose da sentire, sue o di altri, e questo mi piace. Preferisco andare ad un concerto, oppure pensarci, alla musica, in generale. La musica è ingombrante e onnipresente.
Ho grossi problemi, ad esempio, ad andare in alcuni ristoranti. Di solito chiedo gentilmente se possono spegnere o abbassare la musica, quando esagerano, perché veramente talvolta è una tortura. Dovunque vai hai l’impressione che la musica non ti abbandoni mai e neppure la ascolti, c'è e basta! A volte non riesci nemmeno a dialogare con soddisfazione con gli amici, e poi ti perdi tutti quei suoni che vengono dalle voci degli altri, dalle varie prosodie, dall'ambiente stesso e così via. Sono cose che possono essere gradevoli, non dovrebbero essere mascherate.
RC: Senti, invece Suonetti come è strutturato?
FM: Suonetti era una trasmissione radiofonica che io e Mechi Cena scrivemmo e che fu diffusa dalla Radio Svizzera nel 2011, mi pare. Avevamo già realizzato una trasmissione per la Radio Svizzera che si chiamava L'Essere Rumoroso e che si strutturava in una serie di audio documentari che trattavano appunto del rapporto dell'uomo con il sonoro. Dopo questa serie de L’Essere Rumoroso, ci venne proposto di fare una serie di trasmissioni di un minuto che andasse in onda tutte le notti a mezzanotte. E fu fatta. Era previsto di farlo per due mesi, o qualcosa del genere. Raccontini che avrebbero preso il posto della lettura dei Sonetti di Shakespeare, uno al giorno, che andava in onda a mezzanotte tutti i giorni. Per questo fu dato loro il nome di Suonetti: brevi racconti che trattavano di esperienze sonore.
Piccoli racconti, poesie, brani in prosa, tutti della durata di un minuto. Una volta che avevamo realizzato e trasmesso i primi due mesi, ci fu rinnovato il contratto e siamo andati avanti un anno; ne abbiamo fatti in tutto 180. Li abbiamo poi pubblicati con la casa editrice Le Mezzelane nel 2016. Abbiamo fatto anche una serie di recital un po’ in tutta Italia. Recentemente con Mechi Cena stiamo riconsiderando l’idea di riprendere con le letture, questa volta insieme a un batterista, Simone Tecla: voci e batteria. Vediamo cosa viene fuori da questa esperienza.
DC: Di cosa trattano i racconti?
FM: Brevi storie o riflessioni, per esempio, di o su esperienze personali, oppure lette e poi romanzate, tratte da qualche articolo, dalla lettura di un libro: memorie, spunti. Racconti che amici ci hanno fatto e che noi abbiamo rielaborato sviluppandone la chiave dell'attenzione sul suono. In ognuno di questi ci siamo proposti presentare un piccolo episodio che ha a che fare col suono, che poi viene anche commentato, con una piccola morale, una spiegazione di qual era l'eccellenza di quel suono lì, o di quell'esperienza.
RC: È il racconto di un episodio sonoro senza produrne realmente il suono.
FM: Assolutamente.
RC: Quindi ognuno si immagina il suono.
FM: Sì. Noi umani abbiamo una sorta di data base in testa di tutti i suoni che abbiamo ascoltato. Riusciamo a richiamarli, a ricostruirli. I romanzi di fantascienza ci hanno fatto costruire nella mente dei suoni che non abbiamo realmente mai sentito, semplicemente raccontandoceli. La nostra esperienza di ciò che abbiamo ascoltato (e di come certi suoni si producono) è in grado di farci pensare alle sonorità dentro un'astronave, se ci vengono “ben narrate”, o a macchine strane che non abbiamo mai conosciuto. Noi ce lo mettiamo il suono, in questi oggetti, se ce li raccontano: utilizziamo dei tasselli di memoria acustica, suoni che ricostruiamo attraverso una sorta di “consapevolezza della meccanica” che li produce. Se noi andiamo a uno scavo, a Pompei ad esempio, e la guida ci parla di com'era il traffico lì con le carrozze ecc., siamo in grado di immaginarci quell'ambiente sonoro, anche se nessuno di noi probabilmente ha mai avuto una esperienza diretta di ruote di legno su un pavimento di pietra. Ci basta talvolta il racconto per produrci un'esperienza sonora. Certo, non ricostruiamo la realtà dell’epoca, ma ci facciamo una idea. E non solo. Il racconto del suono rispetto alla sua pura riproduzione, cioè un suono registrato, appare più realistico, riesce a contestualizzare meglio l’esperienza.
Questo volevamo dire con i Suonetti. Il contesto è importante quando noi parliamo di un'esperienza sonora. Con un registratore puoi sentire il suono di una certa campana. Sì, è vero che è una campana, sappiamo anche che è proprio “quella”, ma è soprattutto il racconto dell'esperienza e ti riporta nel momento in cui quel suono, quella campana, l'hai sentita e, in qualche modo, suggerisce, sottolinea e comunica quale sia stata la tua emozione, quale emozione il suono, nel suo contesto, ha prodotto.
RC: E far conoscere Il motivo per cui suona la campana è più importante del suono.
FM: Sì, per certi versi sì. Il motivo per cui in te “risuona” la campana. Cioè: è ciò che sta intorno al suono, la sua “storia”, ciò che racconti dell'esperienza che lo ha accompagnato, perché ritieni che quel suono sia importante o notevole. Ecco, notevole, più che importante.
RC: Notevole è si riferisce alla mia capacità di notare.
FM: Esatto. Tutta una serie di piccoli racconti sono dedicati a due personaggi, una coppia in cui lui durante la notte si alza dal letto, e va sul divano e ascolta i rumori, sente qualcosa. E riflette sulla paura, ad esempio la paura dei rumori della notte che fanno trasalire; forse perché sono più intensi, perché forse nel buio, la notte, ci ricordiamo alcune nostre paure ancestrali. Tutte riflessioni che scaturiscono, in questi piccoli raccontini, da delle emozioni che sorgono con l'ascolto di un suono.
Alcuni riferimenti:
Augoyard, Jean-Françoise, H. Torgue, Repertorio degli effetti sonori,Quaderni di M/R LIM, Lucca 2003.
Bakker, Karen, The sounds of life, Princeton University Press, 2022 traduzione italiana, I suoni segreti della natura, Feltrinelli, 2023
Biserna, Elena, Walking from scores, les presses du reel, 2022
Farina, Almo, Soundscape Ecology: Principles, Patterns, Methods, and Applications, Springer Springer, Dordrecht 2014.
Schafer, Raymond Murray, Il Paesaggio Sonoro, Casa Ricordi, 2023.
Truax, Barry, Handbook for Acoustic Ecology, versione online https://www.sfu.ca/~truax/handbook2.html.
Sheldrake, Merlin, Entangled Life, New York, Random House, 2020 traduzione italiana, L'ordine nascosto, Marsilio, 2020.
Mc Key, Rob, “Networking the Flight of the Monarchs”, <https://www.academia.edu/91372401/Networking_the_Flight_of_the_Monarchs?uc-sb-sw=81928611>.
su Variazioni su Fuori: https://www.arteco.org/michi/htm/lavori/workshop_variazioni_su_fuori/pag.htm https://www.discogs.com/it/release/14760490-Francesco-Michi-Mechi-Cena-Variazioni-Su-Fuori
Michi, Francesco, Suonare l'ascolto: le Variazioni su Fuori di Giuseppe Chiari, in Calanchi, A, Morini, M. a cura di, Giornate Sonore, Aras Edizioni, 2018
Michi, Francesco, La narrazione spettacolarizzata del paesaggio sonoro, da Giuseppe Chiari a Philip Dick e oltre in Rocca, Mocchi, Quadri, Sillano a cura di, Teatro di suoni. Versione online: https://www.academia.edu/118849647/La_narrazione_spettacolarizzata_del_paesaggio_sonoro_Da_Giuseppe_Chiari_a_Philip_K_Dick_e_oltre
Per Suonetti:
Cena M., Michi F., Suonetti, Le Mezzelane. 2016.
Per Entangled walk: http://www.entangledwalks.net
Per il workshop di Stefano Zorzanello Coperinico in ascolto https://vimeo.com/348148948.
Il giorno del delfino è un film del 1973, diretto da Mike Nichols, con George C. Scott, Trish Van Devere e Paul Sorvino
Sul Forum Klanglandschaft (FKL) e le sue attività in Italia: www.paesaggiosonoro.it
Un sentito ringraziamento va a Silvia Presenti e Pietro Michi per la revisione del testo trascritto.
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1 In realtà esiste quel fenomeno che si chiama “effetto party” per cui ad esempio se sei ad una festa puoi, concentrandoti, ascoltare una conversazione estrapolandola dal rumore complessivo, così come ascoltando un coro o una orchestra puoi focalizzarti su uno strumento o su una voce. Sembra però che questo sia da attribuirsi alla capacità di localizzare nel brusio e nello spazio parole o linguaggi.
Francesco Michi vive e lavora a Firenze, dove si è laureato in Filosofia e successivamente diplomato in Musica Elettronica presso il Conservatorio di Musica. Nel 1982, insieme a Mechi Cena e Jorge Martinez, fonda FORMAT - architetture sonore - gruppo di musicisti intende sperimentare approcci creativi con i materiali che la tecnologia, soprattutto quella povera, offre all'uso quotidiano, nonché studiare l'ambiente acustico e le sue modificazioni. Dal 1999 ha utilizzato anche il Web come piattaforma per lavori ispirati alle tematiche dell'ambiente sonoro umano. Tiene concerti, workshop, realizza installazioni ed organizza eventi, festival e congressi su temi collegati al “paesaggio sonoro”. Nel 2007 e 2008 con Mechi Cena realizza due serie di trasmissioni per dalla Radio Svizzera Italiana dal titolo L'Essere Rumoroso sui rapporti tra l'uomo e l'ambiente sonoro, e ancora nel 2011 la serie di 180 puntate intitolata Suonetti, raccolte poi in un volume (Le Mezzelane, 2018). Dal marzo 2009 è il coordinatore per l'Italia delle attività del FORUM KLANGLANDSCHAFT (FKL), associazione internazionale per il paesaggio sonoro. È co-curatore e ha pubblicato saggi sul tema dell'ascolto e del paesaggio sonoro all'interno, fra gli altri, dei seguenti volumi: Keep an ear on (Fratini, 2013), Per chi suona il paesaggio (Fratini, 2015), Soundscapes and sound identities (Galaad, 2017), Different Rhythms (Galaad, 2019), Soudscapes of work and of play (Galaad, 2021), Unheard landscapes (Galaad, 2023).