The Dryden West
Scattando foto
Quando notai che l’uomo che mi si metteva sempre davanti nel parco scattava anche lui delle foto, mi scocciai. Mi bloccava la visione, si metteva nella mia inquadratura, vedeva prima ciò che volevo vedere io, prendeva la posizione migliore, più ravvicinata. Un altro anziano con la macchina fotografica che documenta ciò che vede, facendolo in modo che l’uomo che gli sta dietro, cioè io, gli veda solo le spalle. Il suo volto era come il lato della luna che non si fa vedere.
Quando incominciai a guardare il mondo attraverso un obbiettivo, ebbi l’impressione di stare dietro a ciò che vedevo, come il cervello sta dietro gli occhi. Altre volte era come al cinema, dove si guardono ombre e luce proiettate da una stanzetta nel retro della sala che illuminano e oscurano uno schermo. Queste sensazioni divennero un concetto dell’anima come qualcosa che ci sta dietro, che riceve e valuta quel che vedono gli occhi.
Ogni volta che vado al parco per scattare la gente che si gode la giornata libera al sole, appare quest’uomo e si insinua tra me e la scena che l’anima o chiunque mi stia dietro suggerisce di fermare. Ciò che rimane sulla pellicola sono spalle, un maglione, capelli bianchi e un collo che sembra pelli di lucertole cucite insieme per far capire che si è vecchi.
Forse dovrei toccargli la spalla. “Ehi scusa ma mi stai rubando la foto. Ero qui prima di te.” Una confrontazione stile scuole elementari. Si torna sempre indietro, non si va mai avanti, non veramente.
Forse si girerebbe per mollarmi un pugno, ma ciò che temo e che si girerà e la sua faccia sarà la mia. Oppure non sarà una faccia, ma un lato oscuro.
L’ombra che gli copre la schiena è quello di un recinto composto di catene che lo terranno sempre davanti a me. Quelle catene-fantasma oscurano anche me.
Chi mi sta fotografando?
Donna bianca che fuma
La signora Hagstrom si rifiuta di raccontare la sua storia. Non parla mai di ciò che è successo ieri, o dieci minuti fa. Cose già avvenute non le interessano. Insolito, tra la gente del Dryden West. Quasi tutti qui viviamo nel passato.
La storiafobia della signora Hagstrom potrebbe essere un rifiuto di invecchiare, oppure è segno di qualcosa di ombroso nel suo passato. Una volta intravidi una pistoletta nella sua borsa mentre lei vi frugava per le sigarette. Ma forse era un accendino esagerato.
Ficcanasare e sbirciare sono un modo di tener legati passato e presente, e forse anche di lasciare indietro qualcosa che verrà visto in futuro. Ci si può aggrappare a una foto, perlomeno.
Non ha mai menzionato il signor Hagstrom. Sarà che è morto, oppure vive da un’altra parte. Gliel’ho chiesto, ma lei fa finta di non aver sentito. Sa quali fantini monteranno quali ronzini in tutte le corse all’ippodromo oggi. Può darsi che il passato le sia stato annientato nel cervello dal deterioramento. Signora Hagstrom beve e fuma forte. Ma non manca niente quando la guardo negli occhi, e lo faccio sempre quando le chiedo di uscire con me.
Facciamo sembrare tutto così casuale, qui al Dryden West. “Mi accompagni all’ippodromo in pomeriggio?” Ma i preparativi sono barocchi. Ci metto una mattinata per rendere mettibile un completo, stirare una camicia, darmi una ripulita, vestirmi, pettinarmi. Esco a prendere un regalino per non presentarmi da lei a mani vuote. Gli altri ci prendono in giro come alle medie, anche se non siamo gli unici a uscire insieme ogni tanto. Ma ci limiteremo a uscire. Sono già stato sposato diverse volte. Ho mollato l’idea che possa funzionare.
La signora Hagstrom si cura l’aspetto. Nessuno qui l’ha vista spettinata, o struccata. Le luci sono spente, oppure bassissime quando lei mi dice che è tardi e che devo andarmene. Quelle sopracciglia sono l’oggetto di pettegolezzi.
Forse indossava quello stesso cappotto e aveva la stessa acconciatura quando lei e il signor Hagstrom rapinavano banche. All’ippodromo strappa le scommesse perdenti e le butta in aria per ricadere come neve sul deserto. Prima che tocchino terra, l’esito di quella corsa truccata è già dimenticata.
Forse ho voglia di sapere la sua storia perché non me ne dirà mai niente. Il modo in cui alza la spalla quando la radio trasmette una vecchia canzone fa intuire tanto.
Giornale
Signor Houghton era a spasso e notò un gruppo di braccianti che stavano svuotando un magazzino distrutto dal fuoco. Era a Chinatown, presumibilmente. Buttavano le macerie bruciacchiate nel retro del loro camion. Dopo mobili d’ufficio carbonizzati tirarono fuori pile di giornali imballati, misteriosamente illesi. Al signor Houghton volarono scintille in testa.
“Scusate ragazzi, posso prendere i giornali?”
“Sèrviti pure, vecchio.”
Ma erano più di quanto riuscisse a portare. Non guida più ed è parsimonioso. Non si sognerebbe di fermare un tassì per trasportare l’affascinante raccolta di giornali cinesi. Andò in ferramenta e si comprò un carrello.
Avrà fatto venti corse tra magazzino incenerito e Dryden West. Portò tutto su in camera, malgrado il divieto di usare l’ascensore per trasportare merce. Era felicemente sudato. Nessuno gli chiese cosa stesse facendo. Forse quei netturbini gli hanno detto alla fine, basta così, vecchio. La zona è sigillata.
La mania dell’accumulo affligge molti residenti di città. Di solito l’ammasso di roba richiede anni. Signor Houghton aveva stipato la sua stanza in un solo pomeriggio. Ma a differenza di quei maniaci che muoiono soffocati sotto i loro bizzarri tesori, non intendeva tenersi ciò che aveva trovato.
Forse la piccola cassa l’aveva già. Magari negli anni ‘30 era uno di quei ragazzi giornalai ambulanti a Chicago o New York o dovunque proviene. O può darsi che abbia comprato il marchingegno assieme al carrello.
Comunque lo maneggia con maestria. Non guarda giù e non fa mai errori. Ma forse è solo che nessuno se ne lamenta. Sono giornali cinesi dopotutto, e non vi sono tanti cinesi in questo quartiere.
Si mette ogni giorno ad un angolo diverso, sempre al sole. Canta l’inno dei giornalai, “Giornale! Ehi, prendete il giornale!” Non dice che sta vendendo giornali cinesi seriamente arretrati, ma chissà se l’onestà nuocerebbe alla sua impresa. Sta attento ai profitti però, eccome.
Non riesco a vedere come si chiama il giornale, o se sono tutti dello stesso giorno. Se sì, che giorno era, e perché non sono stati venduti? Può darsi che sia l’archivio di un periodico di Chinatown morto per bancarotta o per mancato interesse.
Per qualche ragione pensai che il signor Houghton non me ne avrebbe venduta una copia, quindi mandai un ragazzo a comprarla. Gli diedi un dollaro e dissi di tenersi il resto. Tornò indietro e disse che il vecchio li vendeva a un dollaro e trentasette centesimi. Gli diedi un altro dollaro. Il ragazzo intascò sessantre centesimi e si comprò un gelato, l’ho visto. Portai il giornale al ristorante New Havana, che ospita una bisca clandestina nel retro.
Signor Chong fa il banco di mah-jongg. Alle anziane quel gioco piace sul serio. Forse Chong lo fa per la compagnia al femminile. Di mattina non ci sono molti giocatori, quindi Chong studia il bollettino delle corse di cavalli. Consultò brevemente il vecchio giornale, lo ridiede e disse che non sapeva leggere il cinese.
Movimento
La gestione del Dryden West organizza feste e altri eventi per crearci delle piacevoli attese. A meno di sessantacinque anni l’attesa ha un altro significato. Ricordo bene le emozioni che precedevano una festa.
Sono solo ricordi. Ballare con la Signora Hagstrom è un’altra storia. Dopo averle fatto fare qualche giro in pista, mi sento obbligato a chiedere anche ad altre signore di ballare. Molte non vogliono, o così dicono. Gli uomini sono una minoranza qui, quelli che sanno ballare ancora di più.
Abbiamo Halloween, Carnevale, Pasqua. Costumi diversi, diversi orari, ma di base la festa è uguale. Ci riuniamo nel salone per bere e ascoltare musica, poi mangiamo insieme.
Ogni mese avviene un altro ballo nel corridoio al piano di sopra.
Sentiamo un suono di campana, una nota acuta e argentea, e un odore di lana e birra sbrodolata con fiori di limone. Poi sentiamo voci.
Le giovani voci emanano vitalità, felicità, emozione, anche se stanno parlando del funerale di un amico morto in un incidente stradale dopo aver bevuto troppo a una festa, o annegato tra le minacciose onde. Succedono spesso queste disgrazie. Sentiamo le ambulanze che corrono verso il mare ma arrivano sempre troppo tardi.
I suoni emessi dagli anziani sono assessuati.
La prima volta che guardai la festa nel corridoio ero convinto che fossero i fantasmi dei giovani che muoiono come mosche qui in città. Le ambulanze arrivano sempre troppo tardi. Ancora un ballo alla casa di riposo prima di partire per la grande festa nei cieli.
Nessuno si spaventa alla vista delle giovani ombre che si divertono in questo spazio sterile riservato a noi che siamo messi a parte, silenziosi e in procinto di sparire. Il profumo della gioventù selvaggia scaccia il tanfo della vecchiaia.
Noi che ci riusciamo stiamo alle nostre porte per guardare. Ci sarà musica, ma non riusciamo a sentirla. I giovani sono mossi da un ritmo spettrale. Noi, fermi, vediamo noi stessi, di nuovo giovani o ancora giovani. Nessun bisogno di rifare, di risentire. La baldoria svanisce come una scintilla di falò che si alza verso le stelle.
Tante scintille smorzate da cataclismi mondiali e tragedie locali. E noi a guardare ed aspettare. Quando finisce la festa nel corridoio finisce non resta che buio, silenzio e noi. Ci giriamo e rientriamo nelle nostre stanze, ci chiudiamo dietro le porte e cerchiamo dormire. Di solito non è possibile in quelle notti.
Della danza non parliamo mai.
Il Rito di Primavera è il prossimo evento sul nostro calendario. Una sfilata di vecchietti conciati da ninfe, satiri, fatine. Quelli che lavorano qui ci scattano foto per farsi due risate, dopo. Ma stiamo pensando tutti la stessa cosa: quante feste ci rimangono?
La benda
Signor Cullen dev’essere stato un vero donnaiolo ai suoi tempi. Se lo guardi da destra è sempre un bell’uomo, e si veste anche bene.
Dall’altro lato è tutto diverso.
Signor Cullen non parla molto, anzi non parla. Tutto il contrario degli altri residenti. Ho chiesto un po’ in giro. Nessuno lo ha mai sentito dire una parola, nemmeno ‘Che bella giornata, eh?’
Forse è sordomuto.
Quando gli chiesi cosa gli era successo all’occhio sinistro ha girato i tacchi e se n’è andato. Non capivo. Chiedere dei malanni altrui qui al Dryden West è come chiedere di vedere foto dei nipotini. Si sentono sermoni e filippiche su dentiere, colostomie, scarpe ortopediche, apparecchi acustici e altri strumenti per aiutare e umiliare gli anziani.
Dottor Hallwright, oftalmologo in pensione, sostiene che si tratti di un cancro roditore. Mentre raccontava i casi che aveva visto e curato immaginai un ratto della Norvegia che scavava a morsi una galleria attraverso una testa umana, partendo dagli occhi. Mangiava i nervi che controllano la visione, la parola, l’udito. Poi rividi il viso della mia prima moglie.
Sull’orlo
Ho cinque figli là fuori nel mondo. Non ci sentiamo molto, ma so di aver detto a ciascuno di loro che la vita è un dono meraviglioso.
Bisogna dire roba del genere ai bambini, dargli ragioni per dover crescere, andare a scuola, innamorarsi, comprare roba e inventare le proprie ragioni per continuare a vivere. Tre dei miei hanno fatto figli anche loro. Non male.
Qui all’ospizio ci dicono che la vecchiaia è una cosa fantastica. Qui, morire è come il primo giorno di scuola. Imparerai qualcosa quando ci arrivi. Ma almeno nessuno ci dice che la morte sia una cosa bella e allegra.
Mercoledì è la Serata Las Vegas, si beve e si gioca a carte. Venerdì è la Serata Hollywood. Il Dryden West è dotato di una sala proiezioni, come le case delle stelle del cinema. Altre sere la sala proiezioni è la sala tivù, ma di venerdì ci fanno vedere film girati durante il nostro alcione. Lo schermo lancia ombre nere e bianche su volti istoriati. C’è sempre il pieno.
Non abbiamo illusioni in riguardo alle storie di Hollywood, quelle sul finto schermo e quelle che si raccontavano sulle vite delle stelle. A nessuno mancano le illusioni, quando se ne vanno.
Dovremmo avere nostalgia dei nostri figli quando sono cresciuti e sono andati via e sono a disagio quando vengono a trovarti per via degli errori che hai fatto crescendoli, o per via di ciò che gli è successo là fuori nel mondo. So di non aver sempre fatto del mio meglio, non ho avuto sempre la pazienza che ci sarebbe voluto. La disperazione entra nella vita di famiglia mascherato da attore comico da film muto. I miei figli non mi mancano. Non come sono né come erano.
La signora Flobert racconta di aver fatto tanti figli col defunto marito. Mostra fiera le foto e narra le loro educazioni, i loro amori e le loro carriere. Entra nei dettagli, ma con l’età sono diventato cortese.
La signora Claypoole, sghignazzando, dice di aver scoperto che la signora Flobert ha fatto solo una figlia: nata morta in una casa per ragazze-madri. “Non c’è mai stato nessun signor Flobert,” proseguì. “Quelle finte foto le trova ai mercatini.”
Chissà perché questa informazione rendeva così felice la signora Claypoole.
La signora Flobert ci tiene molto alle serate Hollywood, ma ha la terapia per la schiena è le anche di venerdì pomeriggio quando viene l’imponente massaggiatore afro-americano. Quindi arriva sempre in ritardo. Le altre donne si rifiutano di riservarle un posto in prima fila. Signora Flobert dice che l’apparecchio acustico non le è di grande aiuto, e i suoi occhiali hanno almeno tre gradazioni. Quindi se non sta davanti allo schermo vede nebbia e sente ronzìo.
Monta la sua pertica. Le altre beghine vorrebbero zittirla quando sposta le sedie, ma lei non sente i loro commenti, oppure fa finta.
Fantasmi di luce che una volta erano uomini e donne impiegati come stelle, e ora sono condannati a dare spettacolo per sempre. Cerchiamo di ricordare i loro nomi, che altri film hanno fatto, che macchinone guidavano, chi sposarono e divorziarono, quanti figli hanno avuto o adottato, quali dipendenze li hanno rovinati. Le loro finte vite dovevano essere modelli e punti di riferimento per le nostre vite presunte vere.
Ricordo la prima volta che ho dormito sotto le stelle, nel deserto vicino a Las Vegas, quando ero nell’esercito.
Il giorno dopo avevamo ordini di assistere a un test della bomba atomica. Era molto luminosa e drammatica, ma riuscivo a pensare solo a quanto preferivo le stelle del cielo.
Uomo e masso
Il signor Verhoos venne a vivere al Dryden West a soli sessant’anni. Era raccomandato, oppure avrà corrotto qualcuno. A differenza degli gli altri qui, Bud Verhoos lavora a tempo pieno. Fa l’idraulico, e guadagna bene. Lo chiamano spesso, anche di notte, e se ne va di corsa, nel suo furgone sgangherato.
Certe donne qui gli chiedono favori: il rubinetto del bagno perde, la fede gli è cascata nel gabinetto, viene via la guarnizione della vasca. Bud è il loro uomo tuttofare.
Mi ha aiutato a rimettere in moto la mia vecchia Plymouth, che avevo dato per spacciata. Bud Verhoos è un uomo competente e razionale. Eppure insiste che questo masso è suo padre.
Bud mi ha portato a vedere la roccia--a presentarmelo, dovrei dire--un anno dopo il suo arrivo. Ora mi conosceva abbastanza bene, disse. La roccia sta, o giace, in un parco della memoria dall’altra parte della città. Ciò che memorializza il parco non è chiaro, non vi sono lapidi o insegne di alcun genere. Se si tratta di un monumento di guerra le date incise indicherebbero un conflitto insostenibilmente lungo. Le tombe, se è una tomba, di solito recano nomi.
Bud Verhoos, idraulico diplomato, mi presentò alla roccia come avrebbe fatto con una persona vivente. Una persona paralitica e sorda.
“Mio padre,” disse.
A quel punto ci saremmo dovuti stringere la mano. Feci un cenno con la testa.
Mi chiese di scattargli un ritratto insieme e si mise in posa.
“Voglio avere un ricordo,” disse, mentre ci allontanavamo in macchina, la mia. Non voleva andare a trovare suo padre nel suo brutto furgone. “Il vecchio non ci sarà sempre, ammettiamolo. Non vorrei arrivare al punto di non ricordarmi che faccia aveva, il suono della sua voce.”
Piedi
Stanno sparendo i piccoli ambigui negozietti che una volta proliferavano qui in città. Di solito a sparire sono cose grandi tipo elefanti e dinosauri, ma il commercio è un mondo a parte.
Alcuni negozietti dovevi entrarci per capire che ti trovavi in un negozio, e dovevi chiedere cosa vendevano.
Quando ho visto questa vetrina ho pensato che magari era uno di quei negozi lì.
Mia madre portava belle scarpe e andava fiera dei suoi piedini. Ogni tanto usciva con zia Doris per comprare scarpe. Prima e dopo queste spedizioni consumavano qualche cocktail. Zia Doris non era una vera parente. Mia madre non andava d’accordo con le sue sorelle, preferiva l’amica, che forse non si chiamava nemmeno Doris. Lei chiamava mia madre Yvonne, malgrado il suo vero nome fosse Marcie. Tornavano a casa nel tardo pomeriggio. Uscivo per lasciarle da sole a godersi le nuove scarpe. O forse loro mi dicevano di sloggiare, non ricordo.
Gironzolavo e guardavo vetrine al crepuscolo. I negozi erano chiusi ma tanto non volevo comprare nulla. “Lubrificanti” in lettere d’oro contornate di nero, dipinto a mano su una vetrina dietro la quale erano accatastate copertoni per trattori. “Vini d’Importazione” che gettava lunghe ombre a forma di lettere su occhiali di plastica, dentiere e apparecchi acustici in posa.
A casa trovavo un groviglio di borse e sacchetti, carta d’imballo e scatole per scarpe buttati qua e là per il salotto. Senza fare rumore svuotavo i posacenere e mettevo i bicchieri macchiati di rossetto nel lavabo in cucina. Mia madre era di sopra che dormiva. Zia Doris era tornata a casa sua, ovunque fosse. Preparavo la cena con ciò che c’era nel frigo e guardavo la tivù col suono spento.
Forse era stata una scuola di danza? Una fabbrica di arti artificiali? Una bottiglieria che spacciava un liquore chiamato Succo Rumba? Fui comunque rapito dal desiderio.
Uomo cappelluto
Verso la fine dell’estate, credevo di avere una vista del Luna Park tutta per me. La brezza dal mare portava musica, risate, schianti dall’autoscontri e urla dall’otto volante. Mentre guardavo il misuratore della luce, arrivò Mister Spalle.
“Senti,” gli dissi. “Ti dispiacerebbe... ”
“Freddo,” disse. “Fa sempre così freddo, ora. Vorrei solo stare qui al sole per un altro pochino. Grazie.”
Testo: Matthew Licht
Immagini: Fred Licht
Fred Licht è cresciuto in un quartiere nero di Los Angeles. Suo padre, ebreo semi-ortodosso, scriveva e suonava musica R&B col suo gruppo di musicisti neri. Ha imparato la tecnica fotografica studiando il manuale di Ansel Adams. Dopo aver studiato Storia e Legge a UCLA, si è trasferito in Danimarca, dove insegnava, allestiva mostre d’arte e produceva programmi in televisione. Tornato a Los Angeles, ha guidato un camion per tre anni per sostenere l’impresa del padre malato. Attualmente è fotografo commerciale e padre single di tre ragazzi.
Matthew Licht è fiorentino di adozione, ha pubblicato diversi libri in inglese e italiano. Sotto pseudonimo collabora a romanzi gialli. Per Stanza 251 scrive settimanalmente il blog bilingue Hotel Kranepool, sull'industria dell'ospitalità metafisica. Non è parente di Fred Licht il fotografo, ma di altro Fred Licht, storico d’arte e curatore di mostre, che è suo padre. Tempo fa gli ha consigliato di smettere di scrivere Hotel Kranepool, “The joke’s gone on long enough.”