IL SUONO NECESSARIO
Più volte ultimamente mi è capitato di commentare nuove uscite musicali con amici e di rilevare la stessa sensazione, quella di un primo ascolto interessante, luccicante e indubbiamente moderno, ma che dopo pochi ascolti si trasforma in una noiosa sfilza di effetti speciali che rimbalzano tridimensionali da un canale (stereofonico) all’altro, senza un racconto.
Ed è il racconto, la storia che latita, il percorso che non c’è. Molti dischi in uscita oggi sono delle grandi esibizioni di hardware e software – ho 100 effetti e li uso tutti – grande impatto iniziale ma poca sostanza, un po’ come quei dischi dimostrativi in quadrifonia in voga nei negozi di hi-fi negli anni 70 che ti facevano rimanere a bocca aperta per un quarto d’ora per poi tornare tristemente nello scaffale delle curiosità acustiche.
Allora che vuoi, direte, oggi è questo che gira: eh no, non tutto. Come se in pittura valesse quanti colori si usano e non come si usano: vorrebbe dire che il catalogo Pantone vale più di un Rothko e sappiamo che non è così.
Voglio il suono utile a descrivere uno stato d’animo, un’essenza dell’essere, non colonne sonore adatte a videogiochi, e la ricerca nel mare infinito delle produzioni musicali è faticosa, spesso infruttuosa, qualche volta fortunata.
In questo caso facile perché ho trovato quello che cerco molto vicino, nelle due uscite su CD Daniele Ciullini, curatore anche di un blog qui accanto su Stanza251, musicista di area industrial fino dai primi ’80.
Due dischi diversi connessi da un filo logico sottile che è il portato musicale di Daniele Ciullini, usciti quasi contemporaneamente.
Il primo – “Poisoning at home” – prosegue la dialettica industrial aggiornandone l’intensità anziché la rumorosità, trovando nella multi stratificazione la cifra espressiva, con i brani che si susseguono tra samples trovati, sottofondi, voci lontane, metalli.
Ogni ascolto ricerca motivazioni supplementari , gorghi diversi dove lasciarsi avvolgere, sempre in un flusso coerente e articolato.
Il secondo, dal titolo “Great events are coming” (che per qualche motivo mi suona oscuramente ironico) sposta l’asse concettuale e sonoro in una zona più intima. La strumentazione ridotta a pochi elementi, frammenti di “voci automatiche” , loops minimali, riescono a descrivere una cruda dolorosa bellezza, tracciando una solitudine lunare, forse incompiuta.
Qui si che c’è il racconto, suggestione non esplicitata, descrizione di un passaggio di vita reale o immaginata che ciascuno può tagliare e incollare sulla propria, un bianco opaco e un nero abbacinante.
Tutto qui, niente di più. Niente di più che il suono necessario.