Da lontano e da sempre. Un pensierino per Julio e Jorge Luis

 

C’è un momento, della mia vita da lettore, che vorrei non scordarmi mai (che sembra un po’ la traccia di un pensierino e un po’ lo è e, parlando di una cosa così piccola e personale, forse, non potrebbe essere altrimenti):

Avevo letto Rayuela l’anno prima e mi aveva sconvolto – un effetto abbastanza comune, credo, per chi riesce ad immergervisi, almeno un po'. Mi ero appena trasferito a Roma e tra le prime persone che conobbi c’era F, che è uno degli individui che tutt'ora preferisco, in assoluto . Quando ci incontrammo la prima volta, scrivendo la mia data di nascita, mi informò, con distratto entusiasmo, del fatto che sono nato lo stesso giorno e lo stesso mese di Julio Cortázar (pronunciando il suo nome con l’accento al punto giusto, che io, ignorante, non avevo mai considerato, non potendone, in pratica, parlare con nessuno che mi potesse correggere) (facendomi rendere conto, inoltre, di avere totalmente ignorato la data di nascita, o di averla, ancor peggio, scordata). Questo dato insignificante e minuscolo, che era sempre stato a portata dei miei occhi, mi rese orgogliosamente felice, come se mi spettasse qualcosa di misterioso e straordinario da quella rivelazione e mi sembra riverberarsi ancora oggi nelle mie scelte piccolissime e in quelle decisive.

Mi piace pensare – in modo del tutto infantile, me ne rendo conto – che qualcosa di lui viva in me, pur sapendo che vive in chiunque abbia letto le sue frasi perfette e complesse e il suo scintillante linguaggio che, ineluttabile, s'insinua e si mischia al sangue e alla carne. Ti contagia, è un’anomalia. Distorce il modo che avevi di vedere la letteratura e le cose del mondo e tutto cambia, inevitabilmente.

 

Riporto qui un estratto da Il giro del giorno in ottanta mondi (pubblicato da Sur edizioni e nuovamente in tutte le librerie, sempre con la spledida traduzione di Eleonora Mogavero) in cui Cortázar omaggia il suo e nostro maestro Jorge Luis Borges (peraltro nato il 24 Agosto) con una poesia raffinata, densa e magica. Anch'io «oggi la mischio a questo mazzo di carte e magari qualcuno te la leggerà a Buenos Aires, Borges, e tu sorriderai, la tratterai un attimo nella tua memoria, che conosce migliori occupazioni, e a me questo basta da lontano e da sempre».

 

 

The smiler with the knife under the cloak

 

 

Giusto a metà dell’ensaimada

si bloccò e disse: Babilonia.

Pochissimi capirono

che voleva dire il Río de la Plata.

Quando se ne resero conto era ormai tardi,

chi fermerà quel puledro che galoppa 

da Patmos a Gottinga con le redini tese?

Si cominciò a parlare di vikings

al café Tortoni,

e questo guarì alcuni da Juan Pedro Calou

e fece ammalare i più deboli di rune e di David Hume.

 

Lui intanto leggeva

romanzi polizieschi.

 

Scrissi questa poesia nel 1956 in India, of all places. Non ricordo bene le circostanze, avevamo parlato di Borges con altri argentini cercando di dimenticare per un po’ il bombardamento di Suez e un documento dell’Unesco sulla comprensione internazionale che ci avevano dato da tradurre; a un certo punto sentii che il mio affetto per lui, all’improvviso quasi tangibile fra sikh e odore di spezie e musica di sitar, era come un practical joke telepatico che Borges mi stava facendo dalla sua casa di calle Maipú per poter dire in seguito: «Strano che qualcuno mi voglia bene da un posto inverosimile come Nuova Delhi, vero...?!» E il foglio di carta si inceppò nella macchina mentre ricordavo certe lezioni di letteratura inglese dalle parti di calle Charcas, in cui lui ci aveva spiegato come il verso di Chaucer fosse esattamente la metafora creola di «portare il coltello sotto il poncho», e mi invase una tenerezza idiota che annegai nel succo di mango e nella poesia che non inviai mai a Borges, intanto perché io Borges l’ho visto soltanto due o tre volte in tutta la mia vita, e poi perché quanto a mandare poesie la vita mi ha chiuso i rubinetti verso i trentotto anni.

Non volli mai renderla pubblica anche se stavo per farlo quando la rivista L’Herne mi chiese un contributo per il numero dedicato a Borges, ma sospettai che i borgesiani di professione avrebbero visto un’ironica mancanza di rispetto in quel futile riassunto di tutto il bene che ci ha fatto la sua opera. Fu quasi un peccato perché il numero, quando uscì, era così grosso da sembrare un elefante, ragione per cui sarebbe stato il veicolo perfetto per la mia poesia indiana; comunque oggi la mischio a questo mazzo di carte e magari qualcuno te la leggerà a Buenos Aires, Borges, e tu sorriderai, la tratterrai un attimo nella tua memoria, che conosce migliori occupazioni, e a me questo basta da lontano e da sempre.

 
 

l'immagine di copertina di questo blog è stata realizzata da lucia foti