Bestiarius immaterialis - Gliptodonte
Il gliptodonte era un po’ gatto e un po’ volpe. Rivestito di una tonda corazza aculeolata: il guscio dell’uovo dentro cui si generano e dal quale vengono alla luce i neonati. Amava avvicinarsi agli altri esseri, lasciare che toccassero sotto la sua armatura quella tenera morbidezza che era il suo corpo spoglio. Consentiva a tutti i viventi, fossero quadrupedi, bipedi, radici o pietre, di giovare del suo spirito di gatto e delle sue debolezze di volpe. Sotto il suo ventre caldo, protetto dal guscio orbicolare, d’esagoni acuminati, accudiva i suoi molti ospiti, tenendoli al sicuro dal freddo, dalle intemperie e dalle zanne preoccupanti dei cacciatori sleali e malvagi.
Quando incontrò Homo s’innamorò perdutamente di quella sua capacità – l’intelligenza – che gli permetteva premurose amorevolezze cui nessun altro essere poteva arrivare – non le si può raggiungere solamente attraverso l’impulso istintivo della vita. La memoria di Homo consentiva alle sue zampe manate di rimembrare i punti di maggior piacere sull’addome del gliptodonte.
Finché il primo Homo non abusò di quell’intimità, trafiggendo il cuore morbido della volpe-gatto per cibarsi delle sue carni succulente.
Diventò presto l’alimento preferito di Homo perché cuocendolo al fuoco, col guscio rivolto alle fiamme, era pratico da sostenere oltre che gustoso. E, soprattutto, non bisognava cacciarlo: era privo di qualsiasi difesa, abbandonato alla fiducia negli esseri e nell’esistenza.
Homo iniziò a offrire il gliptodonte anche agli altri animali, quindi a usarlo come concime e poi come legante per i massi che costituivano la sua tana.
Infine si estinse e per migliaia di anni Homo visse la sua dipartita sentendosi addosso una nostalgia straziante e penosa.
Poi lo sostituì e se ne dimenticò completamente.