Bestiarius immaterialis - Avvoltoio sepolcrale
Le sue ingombranti ali rannicchiate e la gobba spoglia – iconicamente: il becchino richiuso nel cappotto – appaiono tali e quali a quelle degli altri suoi simili sparsi nel cielo. Esseri legati inscindibilmente alla morte, da cui assorbono la vita. Uccelli funerari, simboli fraintesi del male e dell’oscurità, come gli stessi necrofori.
Gli avvoltoi tibetani si distinguono dai loro fratelli non per indole o per forma, ma perché fecero un patto con Homo, secoli e secoli fa. Specificamente con i monaci buddhisti che dimorano, sotto le zampe galleggianti degli alati, sul terreno duro delle alture sacre dove alla notte riposano e meditano. I cenobiti hanno appreso il dono della comunione con il circostante e del silenzio contemplativo che unisce a tutte le anime, dalle viscere, perciò parlano la lingua degli avvoltoi, con i quali, alla notte, riposano e meditano.
Fu possibile ad Avvoltoio interloquire esclusivamente con questo Homo: la particolare varietà che veste stoffe d’arancio e porpora sulle pelli e che mai si ciberebbe di carne per propria scelta (piuttosto la morte!), che mai tradirebbe l’animale o qualunque altro essere, per ossequio verso tutto ciò che vibra: dal vento antico al sogno sempre appena nato.
L’accordo tra Homo e avvoltoio è divino e mistico, si basa sulla sacralità della fine ritualizzata nel funerale celeste.
Avvoltoio si ciba dei defunti tra i monaci, che Homo serve canonicamente ai becchi affamati, in una liturgia che ricircola le energie dell’universo, riempiendo il flusso di un senso originario e rendendo Avvoltoio essenziale – l’essenza stessa della morte – esecrazione della fine e rinascita benedetta.