"ROSSO SANGUE"
Delirante delirio, ecco un’altra di quelle pellicole tutte da riscoprire, roba per palati raffinati, tassello che conclude la trilogia horror di Joe D'Amato, qui celato sotto lo pseudonimo (un altro?) di Peter Newton. In fondo, Aristide era così, come dire, uno, nessuno e centomila... Ho già scritto sul caso D’Amato, mi piace descriverlo come un genio senza esserlo, maestro, ma soprattutto artigiano di un cinema folle e sgangherato, di un tempo ormai perso, quindi storia ed archeologia della settima arte: come sapete, adoro i suoi film, alcuni sono dei miei punti di riferimento, soprattutto di Aristide mi ha sempre incuriosito la fenomenologia del suo fare cinema, tra mito e mitologia, anche maledetta, quella di un’auto, malgrado ancora venga visto sotto certi lenti, che è stato un punto di riferimento del cinema più sommerso. La capacità di saper mescolare le carte del genere, tra generi, azzardando spesso, mi piace sempre soffermarmi sulle sue visioni horror, con una serie di film, una manciata, ma capaci di scrivere un pezzo di storia…
Così, di serate trascorse da visionare queste pellicole, ho deciso di prendere in esame, per farci una riflessione, il film "ROSSO SANGUE", del 1981, che su carta doveva essere il seguito del famigerato "Antropophagus", anche se la storia se ne discosta. Certo, torna l'antropofago George Eastman (Luigi Montefiori, anche sceneggiatore del film con lo pseudonimo di John Cart), qui nel ruolo di un sadico criminale, un individuo all'apparenza normale (magliettina e jeans d'ordinanza, sembra Montefiori quasi uscito dal set di "Cani arrabbiati" di Mario Bava), cui si cela, però, una misteriosa entità, frutto di un esperimento genetico. Chi è Mirkos Tanopoulos (questo il nome, un altro tassello che lo lega, seppur indirettamente, alle ambientazioni grece di “Antropophagus”)? Il mistero si infittisce…. Sembra quasi un’essere ritornante, indistruttibile, solo il cervello è vulnerabile, visto che è l'unico organo che non riesce a rigenerare cellule. Già questo è cult: perchè, malgrado sia un film di derivazione, l’idea centra l’obbiettivo, nel mistero di una figura umana, metafora della morte violenta. Con pochissimi mezzi, pochi fondi, location improvvisate (l'idea di ambientare la storia negli U.S.A, in una zona residenziale di Fiano Romano), insomma con i mozziconi, il nostro D'Amato è riuscito nell’impresa di mettere in piedi forse uno dei migliori "slasher" italiani, ispirato ad "Halloween- la notte delle streghe" di Carpenter, ma con un proprio segno. C’è la notte, la cittadina residenziale, l'uomo ombra, “cattivo”, e, poi, la giovane ed innocente ragazza, prima vittima designata e poi, per causa e necessità, eroina*…
Lo “zombismo” secondo il credo di Massaccesi…
La prima cosa che colpisce del film è lui, il protagonista, l’anima nera della vicenza, Mirkos Tanopoulos: al netto di qualsiasi lettura che ne possiamo dare, questo sadico omicida, pare proprio uno zombi. E’ interessante questo, ed è ancora più interessante per l’essere uno zombi, come dire, “sui generis”: non a caso, l’unica maniera per eliminarlo è colpirlo al cervello, come tradizione insegna per i morti viventi. Ma non solo: c’è qualcosa di stranamente “soprannaturale”, anche perchè questo signore, che è un’uomo modificato (?), vivente oltre la vita stessa, alto e desideroso ed affamato di vendetta, sembra un demone evaso dall’inferno, e come un demone è braccato da un prete. Si aggira seminando morte, fino a quando, giunto in una grande villa, dove dimora una ragazzina malata, di nome Katia, impossibilitata a muoversi. Sappiamo già che questa sarà la "final girl" di turno, perchè certe cose sono già scritte, l’incontro tra l’orco con la bambina: "ROSSO SANGUE" resta, nel risultato, un violentissimo thriller notturno, compatto nella resa, perchè la tensione non si perde ma cresce, il film è anche ricco se vogliamo di sbavature, ma è proprio questo il suo bello, visto che siamo davanti ad un’opera nera, sporca e sepolcrale di un D’Amato ispirato, malgrado la pellicola risponda ad un certo cinema statunitense, ma, come detto, il taglio del regista emerge, ed è colma di effettacci, tanto sangue ed scannamenti trucidi, un pò di frattaglie in bella vista (da antologia, la scena di una testa ustionata nel forno, un pezzo notevole, disturbante, insomma di chi sa fare cinema senza compromessi, ma soprattutto sa raccontare l’estremo ed il raccapricciante, violenza “pornografica”, nel senso di racconto, senza però fame di voyerismo…).
Scrivevo sopra di pornografia cinematografica, di racconto pornografico, ma non da intendersi come eros, come sesso “filmato”. Perchè si limita sempre un termine a certe scelte di mercato, parlare e scrivere, dibattere di pornografia significa saper raccontare l’inconfessabile “sconfessandolo”, quindi mostrare (nella finzione scenica) l’efferato in modo esplicito, nel film non c'è eros, manco scampoli di un erotismo “alla D’Amato”. Possiamo però leggerci sfumature “sessuali” che sono tipiche degli slasher movie, ma sono sempre in secondo piano. Siamo comunque di fronte ad un horror puro, ma non purista: “ROSSO SANGUE” contamina idee e sottogeneri, sottolineando ancora di più l’idea(le) del cinema secondo Joe D'amato: malgrado sia un un film che ricorda altre pellicole di successo, quindi siamo sempre investiti su quel senso di “gia visto”, resta una "slasherata" fatta come tradizione insegna, composta da predatori e prede, e con una giovane donna, una bambina, Katia, all'apparenza fragile ed indifesa, che sconfiggerà l’essere immondo, il Mostro affamato di sadismo e di giovani vite, quindi ci ricorda molte cose viste e riviste in sala. Malgrado tutto, il buon Aristide era uno che sapeva davvero come tirare i fili della tensione...
*Nota del “cinefilo randagio”: già, perchè uno fissato come me sul cinema, si perde nei dettagli, sulla sequenza finale, quella con la piccola Katia che tiene in mano la testa mozzata di Mirkos, è una di quelle che restano: pochi, pochissimi secondi, a chiusura del film, ed ecco la rivelazione, il colpo di scena (atteso), che mi porta ad imbastire delle (possibili) letture iconografiche, trasversali, che vanno dal cinema alla pittura, perchè, lo sappiamo, che un film è un contenitore. Occorre saper leggere l’opera cinematografica dal di dentro, cogliendone i dettagli, così, osservando questa ragazzina imbrattata di sangue fino all’inverosimile, con in mano il suo trofeo, mi viene in mente Davide e Golia, ma, soprattutto, anche altri episodi biblici, ad esempio quello di Giuditta ed Oloferme…
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