"L'ULTIMO UOMO DELLA TERRA"

L'ultimo uomo DElla terra", del 1964, è il primo adattamento cinematografico dal romanzo di Richard Matheson "I Am Legend ( “Io sono Leggenda”, che ricordiamolo in Italia uscì, nel 1957, con il titolo “I vampiri”), una coproduzione italo/statunitense, che vede alla regia Ubaldo Ragona e Sidney Salkow. Ora, senza scivolare nelle diatribe sulla vera “paternità” registica (se il film in questione è figlio legittimo di Ragona oppure di Salkow, visto che nella versione d'oltreoceano è riportato solo il nome del secondo, è siccome il nome accreditato in Italia sia quello di Ragona, sembrerebbe che il film sia in realtà girato da Salkow), resta la versione più fedele, e la migliore, per un film che lascia il segno, gioiello indiscusso di quel fantahorror che ancora ci inquieta e ci fa pensare. Quando uscì nelle sale non scaldò gli animi degli spettatori, ed anche la critica lo bollò con poca attenzione, ma, come spesso accade per le opere più incomprese, il passare del tempo lo ha riscattato diventando un vero e proprio “oggetto di formazione”, capace di suggestionare, e non di poco, l'opera di molti di cineasti. In particolare di uno, ma questo lo vedremo in seguito...


La prima trasposizione dal libro di Matheson (come si dice, la prima volta non si scorda mai) reta, al netto, un piccolo film, produttivamente parlando, riscattato però da un'indubbia qualità tecnica, merito di una buona regia (da qui la diatriba sulla paternità), e da un’ottima prova attoriale. Ma ciò che colpisce è la messa in scena, nell’aver saputo calare tutta la vicenda n una credibile realtà post/apocalittica, tetra e spettrale, anche perchè “reale”, visto che gli esterni sono stati girati nella periferia romana, ed è per questo che, ancora oggi, questo film lascia un segno. E’ un fantahorror di sottrazione, e, proprio per questo, la resa resta superba, e questo grazie ad una serie di semplici, ma efficaci accorgimenti. Malgrado il budget risicato, ed i limiti di una produzione tirata al risparmio, anzi, forse grazie a questo, perchè lo sappiamo che meno soldi si ha tasca è più il cinema deve trovare la maniera di sfangarla. E’ il gioco di riuscire a fare qualcosa di sorpredente con poco, di creare spettacolo con il minimo sindacale, così quando un regista (e la sua squadra, un film è sempre un'opera collettiva, di cooperazione tra professionisti, questo va sempre sottolineato) è bravo, inventa, trova soluzioni creando e cercando l'effetto con pochi, ma geniali stratagemmi. Occorre saperlo fare l'horror, occorre saperle raccontare certe storie, saper raccontare la paura, sapwerla raffigurare, diciamo così, lavorando su di essa, demistificandola. Questo è il cinema che ci piace, ed è quello che fa la differenza, queste sono le opere che segnano la storia, questo è il cinema che va riscoperto.

Per questo mi sono sentito in dovere di scrivere un’appunto, poche righe su “L'ultimo uomo della terra”, senza voler fare recensioni del caso, senza dover dare punti o voti, ma semplicemente per sottolineare certe cose. Questo film ha influenzato molto cinema a venire. Infatti, se si osserva con attenzione, in varie sequenze del film di Ragona/Salkow si riconosce l'influenza che questo ha avuto su George A. Romero, e quanto ci sia di questo nel suo "La notte dei morti viventi", del 1968. Già, perchè i rimandi sono evidenti. Sappiamo per certo che Romero abbia preso spunto anche dalle pagine di Matheson, ma è il film di Ragona/Salkow che lo ha suggestionato visivamente. In particolare osservando le scene dove sono presenti questi vampiri deambulanti, che si muovono a scatti, sofferenti, ecco che tutto questo non ci può ricordare (complice anche il bianco e nero delle due pellicole) molto da vicino gli zombi de “La notte dei morti viventi”.

“l’ULTIMO UOMO SULLA TERRA”, di Ubaldo Ragona/Sidney Salkow (1964)

“LA NOTTE DEI MORTI VIVENTI”, di George A. Romero (1968)

Bisogna dare al cinema quel che è del cinema… Già, perchè il cinema risponde empre ad esso, quello che io chiamo l’effetto domino, muovere una pedina per muovere tutte le altre che vendono dopo: così i morti viventi romeriani vengono alla luce (si fa per dire) dai vampiri post-pandemici del film di Ragona/Salkow. E' come il film di Ragona/Salkow, la pellicola di Romero racconta di un incubo che può essere reale, uno shock per un evento che non ha precedenti: già perchè “L'ultimo uomo della terra” narra di una pandemia capace di sterminare, nel giro di poco tempo, l'intera popolazione terrestre. Causa di questo un nemico invisibile, che neanche gli scienziati e le istituzioni riescono a contenere, un morbo sconosciuto che si diffonde per via aerea (geniale l'idea dell'invisibilità del virus che diventa visivamente, e sonoramente, tangibile, con le folate di vento che sbattono minacciosamente contro i vetri delle finestre, e le foglie spazzate via...), così da trasformare i cadaveri, dopo poche ore, in riottosi vampiri. Come tutti i vampiri che si rispettino, sono emodipendenti, fotofobici, allergici all'aglio ed insofferenti agli specchi. Quindi, su carta, sono i più “tradizionali” vampiri che si rispettino. La letteratura gotica ci viene in soccorso, e ci insegna, visto che mai si poteva pensare che un virus riuscisse a vampirizzare l'intera umanità. Pardon, non tuti, perchè c’è lui, l'eroe del caso, anzi l'antieroe, suo malgrado, il "sopravvissuto", all'anagrafe Robert Morgan, uno scienziato interpretato da un Vincent Price in stato di grazia, che da tre lunghi anni, vive, anzi, sopravvive rintanato in casa. L'ultimo uomo sulla terra, immune agli effetti del virus, tutti i giorni compie sempre lo stesso rituale: la mattina esce di casa per dare la caccia ai vampiri, perlustrando quartiere dopo quartiere, e seguendo scrupolosamente tutte le regole del caso: aglio, specchi e paletti di legno appuntiti (come Van Helsing ci insegna). Poi, brucia i corpi, in un'enorme fossa comune aperta durante la fase acuta dell'epidemia e, la sera, rientra nella sua dimora, visto che i vampiri si destano con l'imbrunire per iniziare, così, la loro invasione. Tutti i giorni, giorno dopo giorno...

E' rimasto l'ultimo vivo tra i morti, anzi, i non morti. Anche se non vorrebbe, questa è la nuda realtà, quella di un futuro dispotico, che porta, Robert, con tutte le sue forze, a reagire per non farsi morire, a fare qualcosa, a darsi da fare, visto che i vampiri sono sempre in agguato, sempre più numerosi e maledettamente feroci (a proposito, parentesi cinefila: menzione speciale per l'attore Giacomo Rossi Stuart qui nel nel ruolo di un molesto vampiro, che tutte le notti tormenta Price bussandoli alla porta, per una terribile verità...). Ma è la forza di "sopravvivere" di Robert che lo spinge a tirare avanti, a lottare. Persino l'incontro con un cane randagio lo proietterà in una felice speranza, purtroppo solo momentanea... I giorni passano seguendo il rituale, da ammazzampiri improvvisato per necessità, fino a quando, un giorno, questa routine verrà spezzata con l'incontro del nostro scienziato (che intanto sta studiando un antidoto, mentre giornalmente trasmette da una radio messaggi per sapere se c'è ancora qualcuno di vivo, di non contaminato) con una giovane ragazza, all'apparenza normale, anche se in lei nota fin da subito qualcosa di strano, di anomalo: scoprirà poi che questa fanciulla è, in realtà, una vampira. Una vampira che cammina in pieno giorno? Ma cosa sta succedendo? Le domande si sommano ad altre domande, fino alla scoperta, sconcertante, che la donna fa parte di una comunità di vampiri, evoluti da uno stadio “primitivo” della malattia, e che si stanno organizzandosi con l'obbiettivo di ricostruire una nuova civiltà, dispotica, sul pianeta terra.

Il film, come accennato, è stato girato in alcune zone della periferia di Roma, sfruttando location già esistenti, ma capaci di evocare scenari da futuro apocalittico. Tutto è reso con una forza ancora sorprendente, ambientare una vicenda estrema, in una Roma metafisica e modernista che, per limiti di budget, è stata abilmente “camuffata” in un lugubre mondo dispotico. Spettrale, che fa paura senza barocchismi, o forzature, ma il tutto reso con semplici accorgimenti tecnici e visivi (grazie anche ad una fotografia che accentua certe atmosfere, ed il bianco e nero aiuta non di poco), tutto si fa davvero credibile. Colpiscono in particolare le sequenze ambientate nel quartiere dell'EUR (una Roma spacciata per una città della California, anche se si vede che non siamo negli U.S.A., eppure questo non ci disturba, anzi, almeno per il sottoscritto, mi piace da matti l'idea di una menzogna giocata a regola d'arte), dove si vede Vincent Price vagare mentre cerca qualche possibile spiraglio di una civiltà ormai perduta. Perso lui e perduto il mondo, ma Robert/Price non si lascia sconfiggere, la sua solitudine è si fatta di paura, ma la paura è anche coraggio e follia nel darsi un obbiettivo, almeno cercare di trovare un senso alla sua solitaria esistenza, del perchè è proprio lui l'ultimo uomo vivente... Tante le sequenze che colpiscono (come quello dei soldi che svolazzano abbandonati per strada, ormai carta straccia che non ha più alcun valore). Ma c'è ne una che merita di essere citata: quella dove Price entra in un supermercato, ovviamente abbandonato, ma ancora abbastanza fornito sugli scaffali, intento a fare provviste, soprattutto nel supermercato il nostro eroe tiene una dispensa di aglio che serve per allontanare gli emo/molestatori. Questa sequenza, per chi mastica certe cose di “cinemese”, non può che ricordare “Zombi (Dawn of the death)” di Romero, datato 1978, dove al centro della storia c’era proprio un centro commerciale…

Concludendo, una nota è necessaria sul finale del film, pessimista come pochi, senza alcuna speranza ma anche lirico nella sua drammaticità, se vogliamo “religiosa”. Ed è quello che colpisce il sottoscritto, anche se fa storcere il naso a molti, perchè questa scelta si discosta dalle pagine del libro, e visto che l'impostazione "messianica" del protagonista carica ancor più di simboli e simbolismi l'intera vicenda. Ma anche nell’opera scritta di Matheson c’è sempre un’aurea religiosa, che va letta tra le righe, nelle sfumature, perchè il sopravvissuto è investito di un compito di salvezza: simbolismi a parte, è la storia di un possibile Messia che diventa, suo malgrado, non un “Salvator Mundi” come vorrebbe (o dovrebbe, ma di cui si sente, ad un certo punto, costretto ad esserlo, come se la sua presenza giustificasse un ruolo di guaritore in extremis, essendo un medico, con la scoperta di un vaccino, di una cura); ma soltanto un testimone. L’ultimo uomo sulla terra, il testimone dell’apocalisse, l’ultimo vivente fra i non viventi. In fondo, Robert resta un martire ( un nuovo San Sebastiano? La sequenza conclusiva, all'interno di una chiesa, con la morte dello scienziato trafitto da lance, sull’altare, in fondo c’è lo suggerisce...).



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Raffaello Becucci