"L'io inatteso" di Ubaldo Fadini: Deleuze, Carroll e Celati

Sospeso fra suggestioni letterarie e ricerca filosofica è il recentissimo saggio di Ubaldo Fadini “Il senso inatteso. Pensiero e pratiche degli affetti”. Vi presentiamo un montaggio di materiali tratti dal libro che Fadini ha elaborato in esclusiva  per Stanza 251 aggiungendo delle preziose note d’autore di taglio più personale.

Ubaldo Fadini fotografato da Carlo Zei

L'io inatteso. A proposito di una scelta

  

Questo libro, Il senso inatteso. Pensiero e pratiche degli affetti, è senza dubbio caratterizzato da un congedo, da un tentativo di allontanamento, che riguarda modi di lettura e di scrittura, percorsi di ricerca, sempre eccessivamente sorvegliati e consegnati a una volontà di continuare a riflettere, a rafforzare l'abito intellettuale di un autore che così si presta – forse con scarsa consapevolezza – a identificare la propria stessa singolarità. Singolarità che sono invece da cogliersi sempre al plurale, meglio: singolarità di vita tali che difficilmente trovano stabilità e che richiedono allora uno smarcamento dall'ordine un po' confuso e comunque inesorabile dell'identificazione del docente, dello studioso o di un'altra qualsiasi figurazione fissata una volta per tutte (o quasi...), con le sue pretese di semi-comica, ormai, “universalità” in quanto portatrice di valori affermati come indiscutibili, ancora oggi comunque particolarmente appetibili all'interno degli ambiti da cui vale a volte la “pena” discostarsi, separarsi.

Non più allora libri, sempre in ogni caso abbastanza “eccentrici”, dedicati a temi e appunto figure di facile collocazione nei settori del disciplinamento e del controllo delle intelligenze e delle sensibilità, ma storie, storie fatte o inventate, nel trascorrere degli affetti, tra corpo e cervello, e nel dipanarsi di una fantasia da cui si apprende la sua effettiva importanza per lo stesso costituirsi “mosso”, inquieto, di ciò che si definisce come “soggetto”. Certo, i pretesti sono vari: una presa d'atto di come la “facoltà penosa”, la stupidità, non smetta di fare il suo lavoro nella testa di chi scrive queste righe e che forse scrive per non fare del proprio fallimento una “bassezza”, qualcosa che intristisce ciò che ancora ha forza di stargli vicino. Ancora Deleuze, allora, ma non solo ed ecco l'apertura, che predispone il combattimento con la propria insuperabile parzialità:

  

“Nelle pagine conclusive di Differenza e ripetizione, Gilles Deleuze ritorna sul 'problema della stupidità' richiamando quelle osservazioni di Gustave Flaubert che riguardano un essere pensante duplice, meglio: sdoppiato/ripetuto, che mette in gioco insieme 'la stupidità come facoltà e la facoltà di non sopportare la stupidità'. Il contesto della riflessione del filosofo francese è quello delineato da una concezione della fondazione come determinazione dell'indeterminato, una operazione niente affatto semplice, che non consiste nel mettere in forma, nell'in/formare o nel formare materie a partire dalla condizione categoriale: 'Qualcosa dal fondo risale alla superficie, vi risale senza prender forma, insinuandosi anzi tra le forme: esistenza autonoma senza volto, base senza forma. Il fondo nella misura in cui si trova ora alla superficie è detto profondo, senza-fondo. Viceversa, le forme si decompongono quando si riflettono in esso, ogni modellato si disfa, tutti i volti muoiono, e sola sussiste la linea astratta come determinazione assolutamente adeguata all'indeterminato, come lampo uguale alla notte, acido uguale alla base, distinzione adeguata all'oscurità intera: il mostro. (Una determinazione che non si oppone all'indeterminato, e non lo limita)' (G. Deleuze, Differenza e ripetizione, Cortina, Milano, 1997, p.353)” (p.8 di Il senso inatteso).

“Ritornando al 'problema della stupidità' vale osservare quello che segue: la necessità del pensiero sta in un 'fuori', cioè in un 'incontro' con ciò che costringe/obbliga a pensare; la stupidità altro non è che 'caotica indifferenza di validi propositi che quotidianamente sollecitano lo spirito sotto forma di 'informazioni'': uno stato negativo fondamentale del pensiero. In Nietzsche e la filosofia, Deleuze individua il compito della filosofia proprio nel contrasto senza riserve ai miscugli di bassezza e stupidità che si concretizzano nei poteri consolidati, costretti – proprio dalla filosofia che si fa critica – 'ad assumere un aspetto nobile, intelligente, da pensatore'. La filosofia è faticosa, intempestiva, vive nell'opposizione (…).

Pensare vuol dire pensiero attivo: non dobbiamo però rimuovere il fatto che il pensiero può risultare inattivo in diverse maniere, può cioè dare prova di sé, impegnarsi completamente nell'inattività, impiegando tutte quelle 'finzioni' (al livello 'più basso' del pensare) attraverso le quali le forze reattive trionfano, restituendoci un modo di restare attivo contraddistinto da un notevole impegno a non pensare. Al di là del richiamo indiretto ai filosofi che non hanno smesso di recare danno alla 'stoltezza' (per riprendere La gaia scienza), togliendo a quest'ultima la 'buona coscienza', vorrei sottolineare un 'doppio passo' della ricerca deleuziana: la stupidità ci appartiene, va apprezzata nella e per la sua funzione basilare all'interno dell'avventura del pensare, nel momento in cui ci avverte che per poter pensare è condizione necessaria l'incontro (il 'fuori'), ciò che concretamente obbliga a non riproporre l'ovvio, lo scontato, l'abituale, ma a realizzare una sorta di 'sperimentazioni a tentoni' (…).

E' attraverso l'apprezzamento della stupidità che la filosofia può pensare di preservarsi da essa, nel momento in cui ne fa oggetto di una domanda trascendentale (com'è possibile la stupidità?) e riconosce nel 'meccanismo' della stupidità la 'più alta finalità del pensiero', quella di mettere alla prova, in gioco, 'la facoltà di non sopportare la stupidità', cioè l'altro passo di un movimento critico, che rattrista i poteri/potenti perché non favorisce l'incremento della stupidità e il rafforzamento delle 'bassezze'” (Il senso inatteso, pp.14-16).

 

E nel libro si rincorrono appunto, così come i pensieri dell'“autore” vagabondo, le analisi di Robert Musil e di Theodor W. Adorno e Max Horkheimer sulla stupidità, intesa qui come un effetto di dinamiche sofferte fino al limite della “atrofizzazione degli organi”, con riferimento ai diversi gradi del vivente e non soltanto alla dimensione dell'umano. Tornando però su Deleuze: ancora valgono come pretesto le sue pagine su Alice e su Lewis Carroll per riprendere un filo di ragionamento che si fa sempre più “scomodo” e che va a toccare i controsensi avvertibili nelle pratiche di “soggetti parziali e stra-vaganti” (distratti dalla presa di consapevolezza del po' di stupidità che appunto li accompagna), sollecitando una riflessione possibilmente più attenta sulle figure dell'“amico” e dello “straniero”, stimolando la tessitura di una rete affettiva e di sentimenti in grado di affrontare le convulsioni del mondo là “fuori”, del “fuori-soggetto” che sempre di più si rivela parte integrante e decisiva delle peripezie dell'individuo contemporaneo:

Riprendendo Alice disambientata, di Gianni Celati, quello straordinario esperimento di scrittura collettiva realizzata nella Bologna dei tempi attorno al '77, vorrei delineare – attraverso la figura-chiave della letteratura vittoriana del 'nonsense': Alice – un effetto di spaesamento che può sollecitare l'impresa filosofica a rivedere, in 'senso' critico, i suoi assetti e le sue configurazioni. Disambientare la filosofia con e attraverso Alice, con l'idea che il personaggio letterario di Lewis Carroll possa portare un contributo decisivo – a partire dalla sua collocazione sul piano della letteratura 'per' l'infanzia – alla individuazione di linee di deterritorializzazione, di contro-effettuazione delle pratiche più consolidate di affermazione di senso comune e di buon senso. (…) Mi sembra opportuno, a questo punto, ricordare il filo del ragionamento. Deleuze sottolinea come in Alice nel paese delle meraviglie ci siano dei continui cambiamenti di luoghi: appunto sotto il segno della profondità, poi delle altezze, infine delle superfici che 'scoppiano' (il mazzo di carte che si alza in volo e poi ricade su Alice). In Logica del senso la lettura è ancora di taglio quasi-psicoanalitico, con l'intenzione dichiarata di distinguere nettamente il 'romanzo del nevrotico' dal 'romanzo come opera d'arte', da comprendersi cioè come il frutto di un artista che è insieme 'malato e medico di una civiltà' (…). Non si può non rimanere sbalorditi, in Carroll, dalla espressione di potenza che si concretizza nello stesso processo della desessualizzazione, con i suoi salti tra le superfici, che restituiscono operazioni di sorvolo con configurazioni differenti delle superfici appunto sorvolate: ciò che conta, che dà piacere, è proprio il 'mistero' che balena nell'energia del salto, nel 'passaggio da una superficie all'altra'. Ma la mia attenzione nei confronti di Carroll non sta soltanto qui tra il piano della diagnosi e quello della prognosi: certo è importante il quadro sintomatologico che si delinea attraverso le storie di Alice, che ci restituisce un'opera artistica, ma quello che mi interessa è contro-effettuare ulteriormente Alice, continuare possibilmente a disambientarla e andare così incontro alla letteratura che può deterritorializzare la filosofia, stimolarla cioè in quella sua caratteristica che ne rappresenta ancora la forza vitale. Ed è a questo punto che mi ricollego al tentativo di Celati di gettare un ponte tra tali storie e quelle vissute concretamente in una stagione di contestazione aspra e apparentemente sbandata come quella del '77: è in tale prospettiva che la figura di Alice, già cara a tutti gli 'irregolari' del decennio precedente, viene incontro, per la sua 'intensità', a coloro che la percepiscono sotto tale veste intimamente cangiante per via del loro muoversi a lato degli spazi istituzionali dati. E' il movimento laterale di Alice a combinarsi con la ricerca di spazi di soddisfazione diversi da quelli contrassegnati dall'affermazione del principio di proprietà/identità, il cui 'logico' corollario era individuato – allora... – dall'ottenimento di un riflesso sbiadito di riconoscimento nella modalità dell'assoggettamento, della subalternità alle dinamiche di trasformazione del modo di produzione capitalistico. Ricerca continua di spazi, di misure appropriate alla determinazione parziale, provvisoria, della fantasia che noi siamo, dell'immaginazione che ci realizza (anche il viaggio di Alice è un sogno...). In 'fondo', si tratta di uno stra/vagare in cui è ovvio che ci si faccia delle storie, per riprendere Alice disambientata, dalla parte di soggetti dispersi, 'fuggiti', irrintracciabili, che non vogliono farsi 'catturare' (come Alice...), che (si) descrivono facendo saltare tutte le classificazioni veicolate dal 'buon' uso del linguaggio, quello reso canonico.

Non resta che da ricordare allora come Alice continui a muoversi nelle città, per riprendere il noto film di Wim Wenders, e capiti a Bologna, anche nel momento in cui uno scrittore singolare, Celati, organizza un seminario (al DAMS), nell'anno 1976-77, su Carroll, stimolando l'incrociarsi di vicende, fantasie, deliri che restituiscono l'idea che ormai Alice sia 'dappertutto' e non soltanto nelle teste e nei corpi delle ragazze e dei ragazzi, di difficile 'addomesticamento', che frequentano quello strano corso di letteratura. Scrive Celati, nel testo che introduce la riedizione del 2007 della pubblicazione dei materiali, di natura felicemente composita, di quel seminario, di quel collettivo di pensiero 'e' affetto, costitutivamente politico:

'Il nome di Alice era stato messo in giro dalla controcultura americana, ed era diventato una parola d'ordine per riferirsi a quel tipo di aggregazione sparsa e senza gerarchie che è stato chiamato 'movimento'. Nel libro di Lewis Carroll, grazie al fungo magico, Alice ingrandisce e rimpicciolisce di continuo fino a perdere il senso della propria identità; per questo la sua figura era associata a esperienze d'instabilità come quella dell'acido lisergico. Ma dietro la sua sagoma bambinesca si profilava anche l'idea di un individuo nuovo, per lo più destabilizzato, coinvolto in continue mutazioni, ma liberato dai precetti del 'come si deve essere', e più avvertito sull'importanza del 'come ci si sente'. Il 'come ci si sente' era un tema escluso dalle politiche tradizionali. Ora stava emergendo attraverso varie correnti di ispirazione esistenziale, ma anche attraverso il nuovo cinema e le canzoni. In particolare le canzoni di Bob Dylan, le più trasmesse da Radio Alice, annunciavano un cambiamento radicale nei modi del sentire contemporaneo; e lì spuntavano nuovi atteggiamenti di dissenso, altri modi di reagire all'addomesticamento sociale, non più rivolti al miraggio d'una rivoluzione futura. (…) tutto questo faceva parte dello spirito del tempo, come un implicito che circola nell'aria e nelle parole, a cui si aderisce senza sapere ancora bene cosa sia. E l'aria del tempo entrava in ognuno dei discorsi fatti in classe, durante il mio corso, dove c'entrava di tutto: l'amore, la psicanalisi, la politica, la musica rock, il cinema tedesco, i nuovi modi di scrivere e di pensare. Per un anno o poco più, Bologna è stata un laboratorio all'aperto, dove le idee e le opinioni circolavano a grande velocità, con letture frettolose o echi del sentito dire, e subito superate da altre. Poi è finita: è iniziata l'era di una nuova dogmatica economica, con una domesticazione ancora più faticosa dell'animale umano' (Gianni Celati, Sull'epoca di questo libro, introduzione a Alice disambientata, Le Lettere, Firenze, 2007, pp.8-9).

Ma non è finita la messa a valore di una positività non imprigionata nelle gabbie dello psicologismo, anche quello rinfrescato 'scientificamente'; una positività che ci restituisce un'idea del soggetto non 'chiuso nel sancta sanctorum di se stesso', serrato nello spazio di una pseudo-interiorità 'privata', ma in un qualche modo consapevole, anche minimamente, della presenza di 'automatismi corporei o mentali', di ciò che può anche essere 'nostro' ma che ci fa apparire, come scrive ancora Celati, 'movimenti esterni che condividiamo con altri'. Ecco quindi la possibilità concreta di leggere le 'mosse di Alice', del suo cammino singolare proiettato sullo sfondo del 'puro accadere dei fatti e degli incontri':

'Ed è appunto questa esteriorità a fare dell'allegria un movimento espansivo dove si annuncia una comunanza con gli altri. La cosa importante è che il movimento si realizza come spinta corporea, conato del desiderio, senza psicologia di mezzo, senza stati di coscienza vigile, i quali hanno sempre un effetto inibitorio sugli automatismi del corpo e della mente. L'allegria che ha cercato di farsi strada nel nostro libro deve sempre rinunciare all'idea del sapere come stato di coscienza, il sapere stagno da professionista patentato. E deve accettare questo modo slegato, pagliaccesco, con alti e bassi secondo i momenti. Perché la positività è sempre questione di momenti; è l'atmosfera, l'intonazione del momento esaltante o angoscioso, in cui si annuncia un'apertura mentale. L'adesione al momento trascende ogni forma d'interiorità, perché ci rimanda a un avvenire al di là di noi: e mentre sospende le ansie competitive, aiuta a pensare una comunità possibile, senza 'messaggi'' (Ivi, pp.10-11).

Stati di coscienza vigile, dunque, come obiettivo polemico. Certo, ma di stati di coscienza attenta al valore delle alterazioni ne abbiamo bisogno, anche al fine di accertare gli scarti di intensità, le mutazioni, le trasformazioni del sentire (sicuramente senza nessun 'psicologismo'). Attenzione, allora, da prestare ai 'casi', alla contingenza, anche per tradurre tutto questo in capacità di fare politica differente, a favore di nuove 'comunanze'” (Il senso inatteso, p.58. pp.63-66).

Ubaldo Fadini fotografato da Carlo Zei


Ubaldo Fadini insegna Filosofia morale presso l'Università di Firenze. Fa parte dei comitati di redazione e dei comitati scientifici di numerose riviste, tra cui "Aisthesis", "Iride", "Officine filosofiche". Tra i suoi lavori più recenti: La vita eccentrica. Soggetti e saperi nel mondo della rete (2009); Lessico Virilio. L'accelerazione della conoscenza, con Silvano Cacciari (2012); Il futuro incerto. Soggetti e istituzioni nella metamorfosi del contemporaneo (2013); Divenire corpo. Soggetti, ecologie, micropolitiche (2015); il tempo delle istituzioni. Percorsi della contemporaneità: politica e pratiche sociali (2016); Il senso inatteso. Pensiero e pratiche degli affetti (2018).

Ubaldo Fadini