Supponiamo che
Supponiamo che la madre di Valeria non fosse stata un’alcolizzata. Supponiamo che la nonna di Valeria non avesse abbandonato sua figlia. Supponiamo che la bisnonna di Valeria non fosse scappata di casa all’età di 14 anni per inseguire un uomo di 10 anni più vecchio che la mise incinta otto volte. Supponiamo che il passato conti. Forse Valeria non sarebbe impazzita.
Supponiamo che quella mattina di agosto la sveglia non avesse suonato. Supponiamo che Valeria avesse perso tempo prima di uscire perché non trovava le chiavi o perché il telefono di casa aveva suonato proprio quando lei era sulla soglia «no grazie la sua offerta non mi interessa, l’abbonamento a internet che ho va benissimo». Supponiamo che, una volta fuori, il semaforo sotto casa fosse stato rosso e Valeria non avesse potuto attraversare la strada. Supponiamo che per quei pochi preziosi secondi Valeria avesse perso l’autobus. Forse Valeria non sarebbe impazzita.
Invece andò così:
Alle 7.26, perché a lei piacciono i numeri pari, Valeria viene svegliata dalla sonata numero 5 di Beethoven. Ha una di quelle radiosveglie Sony fine anni ‘90, quelle che puoi programmare sulla tua stazione preferita (nel suo caso Radio Classica) così che, alla peggio, è Debussy che ti fa scendere dal letto e non un acuto suono a ripetizione. Valeria non sopporta il suono del cellulare che, in ogni caso, tiene in un’altra stanza durante la notte. La sua naturopata l’ha messa in guardia sugli effetti negativi delle onde elettromagnetiche che, a quanto il test bio- energetico ha rivelato, sono presenti nel suo corpo in quantità allarmanti. Spaventata da questi esiti ha deciso di spostare portatile, tablet e cellulare nella sala da pranzo durante le ore notturne. Ha anche comprato mezzo kilo di noci che tiene in una ciotola in ceramica vicino al computer quando lavora, noci che, sempre secondo la sua naturopata, sono in grado di assorbire le onde maligne e (parzialmente) salvare i nostri ignari corpi da tremende conseguenze.
Così ha recuperato da un vecchio scatolone quella Sony di 23 cm di diametro ancora perfettamente funzionante. Senza wireless, senza USB, solo una presa per la corrente e la sensazione che, quella scatola atavica, non ti tradirà mai.
Certo la fa sentire un po’ vecchia.
Come quella volta che sulla riviera romagnola portò con sé il frigo portatile in plastica per tener fresche le bevande, un frigo arancione con la marca della Fanta in grande su un lato, che aveva ritrovato svuotando la casa di sua madre pochi mesi dopo la sua morte. Arrivò in spiaggia non curante delle dimensioni o dell’aspetto inusuale del suo frigo. Finché
dei ragazzi sotto l’ombrellone di fronte attirarono la sua attenzione esclamando a gran voce «Signora ma è fantastico. Il suo frigo vintage è bellissimo! Dove lo ha trovato? Possiamo comprarglielo?». Quella parola “vintage” (nella stessa frase, poco distante dalla parola “signora”) le fece uno strano effetto. Si sentì vecchia, non tanto per l’effettiva età del frigo, più che altro perché lei questo aspetto “cool” non lo aveva lontanamente considerato. Eppure, Valeria non è così vecchia. Ha solo 43 anni. Non è ancora in menopausa, la sua vicina Gloria ha appena partorito a 42 e Martina Colombari ha la sua stessa età e sembra abbia vinto Miss Italia la settimana scorsa. Tuttavia, si sente come se stesse vivendo in un’epoca sbagliata. Le nonne fanno shopping su ebay con le nipoti, le madri mettono i like sulle foto dei figli, il
pensionato di Forte dei Marmi prende l’Uber per andare al circolo di bocce. Lei no. Come se involontariamente non riuscisse a stare al passo coi tempi. Certo, anche Valeria ha l’i-phone. L’8 per la precisione, glielo hanno regalato i suoi colleghi per i suoi 40 anni, stanchi (chissà perché poi) di vederla tirar fuori un Nokia. Ma, a parte per le foto e WhatsApp, non è che lo sfrutti più di tanto. Il punto è che non gliene importa proprio, mentre (chissà perché poi) sembra importargliene molto a tutti quelli che le stanno attorno. Valeria devi metterti su Tinder, Valeria dovresti iscriverti a Classpass, ma come Valeria non sapevi del compleanno di Carmine? Era su Facebook! Valeria non hai idea cos’ho visto... la story del fratello di Mario mamma mia, Valeria se vuoi mia figlia ti installa apple-pay cosi paghi con la contactless, eh dai Valeria non fare la vecchia.
Valeria invece ha una grandissima passione per le piante carnivore. È iscritta all’AIPC (Associazione Italiana Piante Carnivore), ne ha circa una cinquantina in casa e da cinque anni non manca il meeting nazionale per gli appassionati che si tiene annualmente a Mira, provincia di Venezia. Conta una dozzina di amici cari incontrati durante fiere ed eventi, con i quali si scambia messaggi e lunghe telefonate. Ha avuto una relazione, breve, con Paolo un cinquantenne di Bergamo che conosce a memoria le quasi seicento specie, suddivise in sette famiglie e quindici generi, di queste piante che richiedono un’estrema cura e attenzione.
A Valeria non gliene è mai morta una.
Supponiamo che Valeria sia un’associale. Supponiamo che a Valeria interessino solo le piante carnivore come a quelli a cui interessano solo cani e canili e, degli uomini, chi se ne frega. Supponiamo che parlare con Valeria sia di una noia mortale. Supponiamo che sia una di quelle che facebook non ce l’ha perché “non fa intellettuale”. Supponiamo che Valeria sia sciatta e abbia i capelli grassi. Supponiamo che Valeria non faccia mai l’amore.
Se così fosse, vorremmo il peggio per Valeria.
Ma Valeria l’amore lo fa ogni volta che va a Mira, con uno o a volte due appassionati di piante carnivore. Valeria non ha i capelli grassi e non è sciatta. Non è nemmeno bellissima, ma è una donna attraente. Una di quelle che non ti fa girare di 90 gradi se ti passa di fianco ma che se, ci inizi a parlare, ti cattura con dolcezza. Valeria è un contrasto, un contrasto ammaliante. Ha un naso importante su dei lineamenti sottili. I suoi occhi da cocker, ovvero un po’ abbassati ai lati, le donano una perenne espressione malinconica, di una donna che sembra aver vissuto più vite. Ma i suoi denti bianchi e il suo sorriso perfetto la fanno sembrare felice. Quando la incontri vorresti capirne di più, scoprirne i segreti.
Può parlare per ore di un milione di cose, senza stancarsi mai, con la determinatezza di chi fa di un incontro un’occasione speciale di scambio. Può parlare per delle ore non solo di piante ma anche di geografia (sa tutte le capitali del mondo a memoria), della musica pop dagli anni ‘60 (con un interesse particolare per Marvin Gaye, The Carpenters, The Turtles and The Supremes), di neorealismo italiano (ha visto Umberto D 12 volte e La Terra Trema 7), di malattie tropicali (a un certo punto si era preoccupata che le sue piantine importate potessero anche portarle in salotto qualche germe pericoloso), di autori americani contemporanei (con una grandissima passione per Philip Roth) e della storia di Cuba.
Valeria sa poco di quello che le succede attorno ma conosce cose di cui pochi parlano.
Nonostante le sue capacità relazionali e la curiosità immediata che suscita dal primo incontro, spesso il suo essere fuori contesto la rattrista un po’. Ne ha parlato con la sua terapeuta che
l’ha più volte rassicurata «Valeria, lei è una persona in gamba. E molto sensibile. Non si lasci influenzare dalle chiacchiere. La sua non è ingenuità, è innocenza.»
Valeria, però, si infastidisce spesso.
Al cinema ad esempio. C’era andata da poco a vedere l’ultimo film di Tarantino. La piccola sala era piena. Lei era arrivata per prima, aveva scelto un posto vicino al corridoio, per assicurarsi, almeno da un lato, di non avere nessuno di fianco. Pian piano la sala si era riempita, con l’inguaribile ritardatario che arriva a film iniziato e che come prevedibile ha riservato un posto al centro della fila.
Per fortuna, Valeria pensò tra sé e sé, i film di Tarantino non sono film fatti di silenzi, ci saranno urla, lotta, scene chiassose che copriranno qualsiasi altro tipo di rumore. Purtroppo, venne presto smentita. Aveva già adocchiato la sua vicina di destra che, con aria spensierata, teneva in grembo un pacchetto di patatine San Carlo. Le gongolava tra le cosce e Valeria sapeva che da lì a poco lo avrebbe aperto, previsione che si avverò dopo pochi minuti. La ragazza iniziò a sgranocchiare le patatine esattamente come Valeria si era prefigurata, con la bocca semi aperta, una dopo l’altra, due alla volta, a manciate. Presto si sarebbe anche leccata le dita, pensò. Come se non bastasse la ragazza era particolarmente brutta. Aveva la pelle lucida quasi trasparente, i capelli arruffati e degli occhiali dalla montatura leggera che si posavano sulla punta di un naso troppo aquilino. Era brutta e mangiava con la bocca aperta. Un calore improvviso percorse il corpo di Valeria dalla punta delle dita dei piedi fino a quelle delle mani, il cuore sembrava palpitare più in fretta, la testa non riusciva a concentrarsi sullo schermo. Le orecchie le fischiavano. Era come se quell’irruente sgranocchiare le stesse rodendo il cervello. Le immagini proiettate non bastavano a farle scivolare quel rumore di dosso.
Si girò di scatto verso la vicina che, ignara della tempesta imminente, ridacchiava alle battute di Di Caprio. Ridacchiava e sgranocchiava. Valeria sprofondò nella sua poltrona, come una tartaruga che ritira la testa, sperando di attutire quello che le pareva puro fracasso.
Passò solo qualche minuto quando qualcuno in sala commentò una scena. Succede. Anche a Valeria a volte scappa una parola, un’incontrollata esclamazione come quando durante un film di Muccino aveva riconosciuto in una comparsa la sua vicina di pianerottolo «nooomaddai Gelsomina». Ma stiamo parlando di eventi rari, molto rari.
Questa invece era una di quelle signore che adorano commentare le scene, quella che va al cinema apposta per dire la sua, che se anche suo marito cerca di zittirla lei niente, continua, a bassa voce, certo bassissima, ma guarda caso con quella S sibillina che anche se sei seduto a cinque file di distanza ti penetra nel cervello.
Durante le due ore e cinquanta minuti del film Valeria contò ventitré commenti da parte della Signora S, che fa circa otto commenti all’ora, quattro ogni mezz’ora, uno ogni dieci minuti. Valeria chiuse gli occhi qualche secondo e immaginò di elevarsi dalla sua calda vellutata poltroncina verde, fluttuare tra le teste degli ignari spettatori, arrivare senza dare nell’occhio cinque file dietro di lei e, una volta sopra la testa della Signora Disgrazia, caderle sopra e schiacciarla. Pouf sparita. Il marito avrebbe osservato Valeria, le avrebbe fatto un sorriso riconoscente e come se niente fosse avrebbero, finalmente in pace, continuato la loro visione. Invece dalla bocca di Valeria uscì solo qualche shhhh dismesso. Ogni tanto si girava e lanciava nel buio sguardi assassini ma niente e nessuno sembrava essere in grado di fermare quell’affronto umano. Così, quando non si distraeva immaginandosi eventuali stermini, Valeria veniva richiamata alla realtà dal brusio di nuove patatine, popcorn o caramelle Ricola. L’unico pensiero fisso rimaneva «non devo più venire al cinema, i film me li devo scaricare».
Valeria, molto spesso, forse troppo spesso, vorrebbe stare da sola. Ha molti amici, vari amanti, le piace chiacchierare, uscire, non potrebbe mai immaginare di vivere senza incontrare nuove persone, scambiare opinioni. Eppure a volte, come quando va al cinema, un’opposta tendenza misantropa l’assale e ne trasforma i pensieri.
Quel mattino, quando la sveglia suona, Valeria sente che sarà un giorno importante. Esce dal letto, si fa un caffè, si mette addosso un vestito di lino leggero, prende la borsa sempre troppo pesante, esce di casa, attraversa la strada, il semaforo è verde. Prende l’autobus che ogni mattina, da dieci anni, la porta in Comune, dove lavora.
Su quell’autobus, quella mattina, un bambino di circa otto anni sta giocando con il telefono della madre. Ha dei riccioli pel di carota e un visino quasi simpatico. La madre guarda distrattamente fuori dalla finestra mentre lui, intento, digita. A ogni punto, o a ogni mossa vai a saperlo, lo smartphone emette un suono. Blip. Blip. Valeria immagina sia Tetris, chissà se esiste ancora. I blip sono costanti ed acuti ma nessuno pare farci caso se non Valeria.
Dopo alcuni minuti, infastidita, si gira verso la madre, la fissa sperando che questa capisca il disagio e quanto quel blip sia scortese, inappropriato ed invadente alle 8 e 20 di un martedì mattina. Che poi, se fosse stato un giovedì o le 8 di sera non sarebbe cambiato nulla, ma questo conta ben poco.
Forse a questo punto Valeria avrebbe dovuto chiedere per cortesia di metterlo in modalità silenzioso. Forse avrebbe potuto spostarsi. Invece no. Sta per entrare in uno dei suoi sogni a occhi aperti, dove si eleva dal suo corpo e sopprime la causa. Solo che stavolta non sogna. Di scatto si gira verso il bambino, lo prende tra le braccia e con forza lo scuote e lo getta per terra sotto lo sguardo attonito dei passeggeri e della madre che non hanno il tempo di reagire. Il bambino sbatte la testa con tutti i suoi riccioli arancioni per terra e Valeria si sente, forse per la prima volta, profondamente appagata e calma.
Viene arrestata. Valeria viene internata. La terapeuta che la segue sa che Valeria è un soggetto a rischio. Le sue passate depressioni, le sue dipendenze, qualche episodio psicotico la incasellano in uno stato dove il tutto è possibile, la pazzia dietro l’angolo.
Mai avrebbe immaginato che potesse arrivare a tanto, che potesse farsi del male sí, che potesse colpire qualcun’altro però era un’altra storia.
Come poteva spiegarlo, Valeria, che in quel blip ci sentiva un degrado? come poteva spiegare che quel blip aveva scatenato tutta la rabbia che aveva dentro?
Si fece paura e si sentì in colpa, non tanto per quello che aveva fatto al bambino ma per quello che si era inflitta. D’ora in poi il suo quotidiano non sarebbe stato lo stesso. Qualcuno l’avrebbe monitorata giornalmente, ogni suo azione un potenziale pericolo. Lei stessa ora temeva quello di cui era capace.
È un meccanismo che chiamano fight or flight, una fisiologica risposta con la quale il nostro corpo reagisce quando ci sentiamo in pericolo, attaccati. Si tratta di pura sopravvivenza. Solo che per alcuni, come per Valeria, il nemico non possiede armi e non ha cattive intenzioni. È il suono di un telefono nel momento sbagliato, è uno sconosciuto che ti pesta un piede per sbaglio, è la ragazzina che fa la bolla con la gomma, è la cassiera del supermercato che batte i tasti con estrema lentezza. Valeria deglutisce ogni volta che si sente colpita da questi invisibili detonatori. Ingerisce a poco a poco frustrazioni e rancore.
Supponiamo che Valeria avesse deglutito anche quel martedì mattina, sull’autobus.
Forse la collera sarebbe diventata incontenibile, in qualche modo avrebbe dovuto disfarsene. Forse avrebbe urlato, forse si sarebbe strappata i capelli, forse sarebbe scesa dall’autobus o chissà, forse si sarebbe gettata sotto all’autobus.
Invece adesso Valeria, seduta vicino alla finestra di questa nuova fredda bianca stanza, osserva fuori.
È una giornata di sole, ci sono altri pazienti che chiacchierano in giardino, nella sua testa pochi e distinti pensieri, nella sua mano destra una piccola pianta carnivora che la sua collega le ha fatto recapitare. Con la punta dell’indice della mano sinistra la accarezza, si sente stranamente serena. Finché l’infermiera entra nella sua stanza per portarle il pranzo.
Entra e sbatte la porta.
Sbatte la porta rumorosamente, senza prestare attenzione.
Sbatte la porta e Valeria deglutisce mentre la piantina le cade di mano.
Alice Rainis vive a Londra da sei anni dove lavora come Art Buyer. Precedentemente ha vissuto a Parigi lavorando in ambito fotografico. Pur occupandosi professionalmente ti immagini, la sua passione è la scrittura.