Le lacrime di Hosé Santiago Diaz
Quando Hosè Santiago Diaz posò il ricevitore, tre gocce di sudore gli scendevano sulle guance. Faceva molto caldo quel giorno al paese. I bambini giocavano con un pallone di stracci oltre il cortile di nonna Suarez. La stanza odorava di nafta per proteggere dalle tarme i vestiti nell’armadio. Sarebbero diventati un pallone un giorno, quei vestiti. Nessuno li metteva perché nessuno li aveva mai messi, e ad Hesperillo non c’era niente di più assurdo che fare una cosa per la prima volta. Tre gocce di sudore, fredde come neve al sole gli scesero sul collo. Anche della neve non v’era mai stata traccia. Un clima insolito quello di Hesperillo, che variava dal caldo torrido e asciutto, di quello che secca le piante con un unico soffio, ad uno terribilmente umido e afoso. Hosè Santiago Diaz era nato lì, in una stalla di mattoni e paglia costruita da suo padre nelle calde notti d’un luglio impietoso. In quella stessa stalla morì il padre, tre anni dopo. Fu per un attacco di cuore, così raccontava sua madre. Di Ferdinando Diaz in famiglia si parlò ben poco, ma ad Hesperillo lo ricordavano tutti come un uomo vivace, dall’animo buono e capace di imprese straordinarie. Qualcuno sosteneva che una volta avesse persino liberato dal peso di un incudine la gamba sinistra di Francisco Galvez, l’unico fabbro di Hesperillo, che infatti era stata amputata poco sotto al ginocchio. Francisco Galvez parlava sempre mal volentieri di quella sua mutilazione, per questo, quando Hosè Santiago Diaz domandò come fosse capitato, lui lo rispedì a male parole da dove era venuto, provando a calciarlo con quel suo ridicolo moncherino. Non che Hesperillo non gli piacesse, ad Hosè Santiago Diaz, al contrario, nel cortile di nonna Suarez crescevano cedri carnosi e maturi e dai giardini di tutto il villaggio si spandeva un odore inebriante di gelsomini e vaniglia. Gli uccellini cantavano, le lucertole, rosse, verdi e blu sibilavano negli incavi dei muri a secco, e la pace regnava su tutte le creature di Dio, ad Hesperillo. C’erano pochi uomini al villaggio e le donne, tutte le donne, erano a loro modo graziose, anche quando la loro bellezza sfioriva per via degli anni. Una notte sua madre gli confessò il segreto di quel prodigio. Le donne di Hesperillo, gli disse, sono così belle perché nessuna di loro ha mai pianto. Allora Hosè Santiago Diaz le domandò che cosa volesse dire piangere, e quella rispose che gli esseri umani sono come il cielo, quando, in certe stagioni, si gonfia di rabbia, compassione o rimorso, ma Hosè Santiago Diaz disse che non capiva, e si addormentò, ormai ragazzo, tra le braccia di sua madre. Di quella notte ricordava ogni dettaglio, il tetto del fienile trapuntato di stelle, le cicale gonfie di succo giallo, sparse qua e là nella terra schiantata dal sole, le mani di sua madre intrecciate tra i capelli, neri e crespi come una di quelle nuvole di cui raccontava. Ne aveva molti di ricordi Hosè Santiago Diaz e quasi tutti erano uguali tra loro. All’età di sedici anni ebbe il suo primo rapporto sessuale. Lei si chiamava Maria Do Carmo Esquivel, viveva a pochi passi da casa sua, lì dove la strada s’allarga in una valle di sassi bianchissimi, disposti in cerchie regolari e concentriche. La casa di Maria Do Carmo Esquivel, una rudimentale costruzione in legno verniciato d’azzurro, era posta al centro del cerchio più piccolo. Così composto, quel paesaggio aveva un aspetto ipnotico, sopratutto se osservato dall’altro della discesa. Lui le regalò uno strano oggetto, un colibrì di rame a cui Francisco Galvez aveva lavorato giorno e notte, con l’intento di decorare la bara di José Buendia, che all’epoca fu sindaco di Hesperillo. Morì a cinquantasette anni , Josè Buendia, travolto da un carro che trasportava bestiame. Ne aveva prodotti centoventiré, il fabbro, di quei minuscoli colibrì di rame, e Hosè Santiago Diaz pensò che uno in meno non avrebbe fatto alcuna differenza, così lo rubò e corse a perdifiato giù per la strada, verso la valle di sassi bianchissimi. Maria Do Camro Esquivel accolse l’audacia di quel gesto con una gioia smisurata. Ne fece un ciondolo e lo appese al collo, stando sempre molto attenta a non farsi notare quando passava davanti alla fucina di Francisco Galvez. In una calda giornata di giugno si decise a ricambiare quel dono magnifico che le era stato offerto con qualcosa di ancor più sacro e vincolante. All’età di diciannove anni Maria Do Carmo Esquivel dava alla luce il suo terzo figlio, Demetrio Diaz, un vero prodigio, dotato fin da piccolo di una forza straordinaria. Un miracolo che per poco non le costò la vita, a Maria Do Carmo Esquivel. Anche Demetrio Diaz nacque nella stalla dove, anni addietro, Hosè Santiago aveva gridato al cielo per la prima volta. Tutti al villaggio dicevano che il bambino somigliava più al nonno che al padre. Di questa somiglianza Hosè Santiago Diaz andava molto fiero, anche se non riusciva a spiegarsi il perché di tanto orgoglio. Forse, a riempirgli l’animo di gioia, era la speranza che attraverso il figlio avrebbe potuto conoscere suo padre. Si sentiva ridicolo a pensare certe cose, ma questo non bastò a sminuire la sua felicità. Tre figli, tre gocce nella sierra arida e silenziosa che circonda Hesperillo da ogni lato. Fu quando Demetrio Daiz venne alla luce, che Hosè Santiago vide sua moglie piangere e quella fu la prima e l’ultima volta. Pensò a quello che sua madre gli aveva raccontato a proposito delle donne di Hesperillo, mentre Maria Do Carmo Esquivel urlava e si dimenava in preda alle doglie. Ma anche ‘sta volta non riuscì a capire il significato delle lacrime. Vero è che il corpo di Maria Do Carmo Esquivel cominciò ad appassire. Il rame giallo della sua carne si spense, si fece cupo e grigio, il suo odore divenne acido, i seni si svuotarono, i capelli si fecero stopposi, sgraziati, come lanugine d’ ombra. Ai suoi tre figli, Hosè Santiago Diaz insegnò tutto ciò che sapeva su come affettare i cactus senza ferirsi, catturare lucertole e pappagalli, accendere il fuoco e far tacere le cicale con un solo schiocco della lingua. I tre ascoltavano avidamente gli insegnamenti del padre. Appresero in fretta e i ricordi di Hosè Santiago Diaz, che erano tutti uguali tra loro, divennero anche i ricordi dei suoi figli. Ad Hesperillo la vita proseguì senza sorprese e i tre bambini crebbero calciando palloni di stracci e guardando la sierra riarsa dai tramonti dell’ovest e i dolci crepuscoli in cui il caldo s’ acquietava un poco e la polvere rossa s’alzava come un grosso rapace di sabbia, per poi ricadere sconfitta sul crinale di qualche montagna. Dalla madre i tre impararono ad intrecciare ceste di vimini e gabbie, a far suonare verdi foglie di canna poggiandole appena sul labbro inferiore, a lavorare la manioca per trarne farina e poi focacce bianche e profumate. Quando il padre di Maria Do Carmo Esquivel morì, la famiglia si trasferì nella casa al centro della valle di sassi, lustri e levigati come grosse uova di rettile. Non fu semplice per Hosè Santiago Diaz provvedere al sostentamento della moglie e dei tre figli. In quel periodo Maria Do Carmo Esquivel soffriva molto. Per via dell’ultimo parto, grosse varici viola le si diramavano su entrambe le gambe costringendola a letto per lunghi periodi. Anche il carattere non era più quello di una volta, s’era inasprita, dormiva moltissimo e aveva poco appetito. Se in un primo momento era difficile vederla sorridere, da un certo punto in poi fu impossibile. Ad Hosè Santiago Diaz sembrò che fosse l’unica donna del villaggio a sfiorire a quel modo, ma non smise mai d’amarla, poiché ad Hermosillo non v’era niente di più assurdo che smettere di fare qualcosa. Fu così che Hosè Santiago Diaz si trovò costretto a trovare un impiego. Nonna Suarez gli propose di raccogliere i cedri del suo giardino quando questi fossero maturati, Francisco Galvez di assisterlo al mantice quando il lavoro era troppo per sbrigarlo da solo, Estrella Martinez di badare a suo padre, malato ormai da tempo immemore. Di quest’ultimo lavoro Hosè Santiago Diaz si vergognava moltissimo. Non era certo un impiego adatto ad un maschio quello, ma i suoi doveri di padre e marito, a confronto, richiedevano una virilità maggiore di quella che sacrificò per badare al vecchio Martinez. Il vecchio, lui, non parlava mai, respirava soltanto, attraverso il lenzuolo di cotone e la canicola spessa che trovava sempre il modo d’insinuarsi nella stanza, mista all’odore dei cedri, della vaniglia e del gelsomino. Ogni giorno doveva lavarlo e girarlo su un fianco, per impedire alle piaghe d’infierire sul corpo del moribondo. Josè Martinez era stato un buon amico di suo padre, ma quando Ferdinando Diaz era morto egli si trovava a parecchie miglia di distanza da Hesperillo. Tornò una notte con i vestiti laceri e uno strano odore addosso, un aroma pungente e ferroso che Hosè Santiago Diaz non aveva mai sentito prima. Le donne del villaggio gli corsero incontro per soccorrerlo. Lo fecero stendere su un letto di foglie di palma, che sua madre aveva intrecciato giorno e notte, convinta che qualcuno prima o poi ne avrebbe avuto bisogno. Era ferito e sanguinava e quello fu il secondo ricordo indelebile e diverso da gli altri che Hosè Santiago Diaz ebbe della sua vita. Da quella notte il vecchio non si riprese più. Spesso lo si poteva udire mentre farneticava rivolto al soffitto, con gli occhi fissi e sbarrati che hanno alcuni pesci di fiume quando vengono issati fuori dall’acqua e lasciati morire al sole. Ma il vecchio non moriva, poiché la morte è alla base d’ogni cambiamento e ad Hesperillo non c’era modo di cambiare. Nessuno riuscì a capire che cosa gli fosse accaduto, anche se gli anziani del villaggio si ritirarono nella capanna sull’altopiano per tre giorni e tre notte, discutendo sui provvedimenti da prendere. Quando tornò al villaggio, Josè Martinez aveva un grosso sacco con sé, il quale gli fu requisito e poi restituito al termine dell’assemblea sull’altopiano. Anche quel sacco era sporco di sangue. Il pesante armadio che il vecchio aveva in camera da letto conteneva proprio quegli indumenti che aveva trascinato nel sacco per miglia e miglia, finché non aveva fatto ritorno, mezzo morto, al villaggio. Qualcuno li vide, prima che venissero sigillati dietro le pesanti ante dell’armadio e andò a riferire a tutto il villaggio che di vestiti così complessi e colorati non se n’erano mai visti ad Hesperillo. Ma la curiosità non ebbe mai il sopravvento sul timore della novità. In fondo si trattava soltanto di indumenti, per quanto belli potessero risultare, la loro utilità non era diversa da quella che già avevano le tradizionali vesti di lino e cotone, che gli abitanti del villaggio indossavano. Ci aveva provato un giorno Hosè Santiago Diaz a sbirciare dentro quell’armadio, ma gli era bastato toccare appena la chiave perché il vecchio si svegliasse e prendesse a mugolare come un ossesso. Dopo il ritorno di Josè Martinez al villaggio la gente prese a mormorare. In giro si cominciarono a sentire strane storie. Qualcuno sosteneva che il sacco di Josè Martinez contenesse molto più di quattro stracci variopinti e ben ricamati, ma nessuno riuscì a determinare con esattezza il contenuto. Alcuni incolparono gli anziani d’aver sottratto il tesoro con l’intenzione di tenerlo per sé. Ma nessuno aveva beni propri ad Hesperillo, men che meno gli anziani, che vivevano in uno stato di assoluta povertà, in capanne di pelli e corteccia, alla base dell’altopiano. Questi predicavano il digiuno, l’astinenza e l’eremitaggio, non per sentirsi più vicini a Dio, ma per essere più simili all’ uomo, quando è ancora bambino, puro e libero da condizionamenti esterni. Il contenuto del sacco doveva dunque essere stato nascosto da qualche parte. La voce fece il giro di tutto il villaggio. Per non insospettire gli altri abitanti ci fu chi indusse i propri figli a scavare fosse profonde almeno mezzo metro nei punti più strategici e meno in vista di Hesperillo, così, giusto per gioco, per imitare le talpe e i lombrichi e fuggire il caldo torrido. Nel giro di pochi giorni le strade di Hesperillo erano ridotte ad un colabrodo. Il villaggio sembrava una luna coperta di sabbia rossastra. Nessuno trovò quello che stava cercando, anche perché nessuno sapeva cosa dovesse cercare. Il tesoro poteva essere lì, sotto il loro naso, ma come fare a riconoscerlo? Non v’era una persona in tutto il villaggio ad averlo visto con i propri occhi, anche se in molti si ostinava a sostenere il contrario. Uno dopo l’altro gli abitanti di Hesperillo si videro costretti a desistere e a ricoprire le grosse buche che i bambini avevano scavato, fingendo di rimproverare i figli per evitare brutte figure. Fu così che la storia del tesoro di Josè Martinez venne gradualmente dimenticata e la gente smise di interessarsene una volta per tutte. Il giorno in cui Hosè Santiago Diaz posò il ricevitore e sentì tre gocce di sudore scendergli sulle guance e sul collo, Josè Martinez s’era addormentato da poco. Erano circa le quattro di un pomeriggio straordinariamente caldo, i cedri di nonna Suarez si tenevano stretti il loro profumo, perché di vento non ce n’era. Morirono sei muli quel giorno per via dell’afa, e una donna si sentì male e cacciò un grido terribile. Hosè Santiago Diaz lo sentì, quel grido, venire dalla strada e sovrastare gli schiamazzi dei ragazzi, intenti a rincorrere la loro palla bitorzoluta, ma non poté accorrere, poiché il suo dovere era di vegliare il vecchio. L’aveva appena lavato e girato e si lasciò cadere esausto su una vecchia sedia di corda intrecciata, nella penombra della stanza. Ogni gesto comportava uno sforzo sovrumano, l’aria doveva essere spinta con forza fuori dai polmoni e spesso lo costringeva a tossire. La stanza di Josè Martinez era spoglia, totalmente priva di orpelli. Niente su cui posare lo sguardo, niente in cui trovare conforto, una qualche distrazione dalla noia che puntualmente lo assaliva una volta terminate le sue mansioni. La noia, lei, deve vivere proprio qui, nella camera da letto di Josè Martinez, pensò Hosè Santiago Diaz. Era sul punto di addormentarsi, o di svenire, con la camicia di lino che gli si appiccicava alla schiena e alle ascelle, quando uno strano suono catturò la sua attenzione. Somigliava al canto di certi uccelli, quel suono, era acuto e vibrante. Hosè Santiago Diaz trovò che avesse qualcosa di sinistro, ma anche di fastidioso ed esasperante. Corse alla finestra e perlustrò la strada con sguardo attento, tendendo l’orecchio dentro l’incavo della mano. Ma il suono non veniva da fuori. Ricacciò la testa nella stanza e si sforzò di ascoltare meglio. Il suono cessò per qualche istante, poi riprese con la stessa prepotenza di prima. Lo seguì, con molta cautela, mettendo un piede avanti all’altro, poggiando prima la punta e poi il tallone. Si avvicinò al letto del moribondo. Che fosse Josè Martinez ad emettere quel suono? Avvicinò la testa al petto del vecchio ma il rumore non cambiò, allora si abbassò ancora e scese giù giù, fino al pavimento, dove la coperta ricadeva con un’onda morbida e bianchissima. Da quella posizione il rumore era più intenso. Hosè Santiago Diaz se ne sentiva irrimediabilmente attratto. Per quanto ne fosse spaventato non riusciva a smettere di cercarlo. Sollevò il lenzuolo e si sdraiò su un fianco per sbirciare meglio sotto al letto. Fu allora che la vide, la sorgente di quel rumore tanto insistente. L’oggetto somigliava ad una pesante scatola di metallo, gli sembrava scintillasse, anche se immerso in quel buio così fitto era impensabile che la luce potesse raggiungerlo. Lo tastò con una certa diffidenza, poi lo tirò a sé per osservarlo alla luce. Mai in vita sua s’era trovato ad avere a che fare con un tale prodigio e come biasimarlo, del resto nessuno degli abitanti di Hesperillo aveva mai visto un telefono. Nessuno tranne il vecchio Josè Martinez, che Hosè Santiago Diaz si apprestò subito ad interrogare sulla natura di quell’oggetto. Cos’è?! Che cos’è, signore?! Domandò che quasi gridava, la prego, me lo dica! Ma Il vecchio non rispose. Hosè Santiago Diaz poggiò nuovamente l’orecchio sul petto del vecchio, allora estrasse un fazzoletto logoro e sfibrato dalla tasca dei pantaloni e lo adagiò sul viso dell’uomo. Così facendo dissipò ogni dubbio, José Martinez era morto. Hosè Santiago Diaz non si scompose, la sua attenzione era tutta protesa verso l’oggetto misterioso che aveva trovato sotto il letto del vecchio. Fece per tirarlo a sé, ma notò che un lungo filo bianco, come la coda di un roditore, lo teneva ancorato al muro. Convenne che fosse più saggio non forzarlo, temeva di romperlo. Si sedette a terra, di fianco al letto su cui giaceva la salma di Josè Martinez. Ad una seconda occhiata notò che ’apparecchio era quasi completamente nero, fatta eccezione per alcuni dettagli, che aveva un cerchio al centro e su quel cerchio tanti altri piccoli fori simili ad occhi spalancati su dieci numeri. Non fece in tempo a proseguire la sua analisi che quel marchingegno riprese a squillare. Per lo spavento fece un balzo e quello gli cadde dalle mani e si divise in due parti. Hosè Santiago Diaz credette di averlo rotto e si sentì molto triste e terribilmente in colpa. Sperava di mostrarlo anche a Maria Do Carmo Esquivel e ai suoi tre figli, ma era stato stupido ed incauto e adesso non c’era più nulla da fare. Fece per alzarsi da terra, quando udì la voce di un uomo gridare, pronto! pronto! Generale Martinez, mi sentite?! La voce proveniva da quell' apparecchio assurdo, Hosè Santiago Diaz non aveva dubbi. Pronto! Generale! La voce continuava a ripetersi, e Hosè prese coraggio, perché le cose che si ripetono non erano temute da nessuno ad Hesperillo. Chinò la testa verso l’oggetto ignoto, come un cane che beve da una ciotola e grido, pronto! emulando la voce severa che gridava dentro l'apparecchio. Che quest’ uomo sia veramente imprigionato qua dentro? Si domandò, e fece per interrogare direttamente la voce, ma quella non gliene diede il tempo. L’abbiamo trovato signore, ma non c’è stato niente da fare, disse l’uomo cambiando tono, il colonnello Ferdinando Diaz è morto questa mattina, all’alba, gli hanno sparato un colpo alla testa. Lei è l’unico sopravvissuto del reggimento di Hesperillo, signore. La salma dovrebbe aver già raggiunto il villaggio. L’umo si congedò con parole di cordoglio e il telefono non squillò più. Hosé Santiago Diaz fece altrettanto, con una naturalezza tale che sembrava non avesse maneggiato altro che telefoni in vita sua. Fu allora e solo allora che tre gocce di sudore freddo e cristallino gli scesero sul viso. Si sentì mancare. Non riusciva a capacitarsi di ciò che era appena successo. Gli sembrò che la stanza si restringesse, che diventasse angusta e nera come la tana di un serpente. Gli parve che il cadavere di Josè Martinez emanasse una puzza insopportabile, gli venne da vomitare e si portò una mano alla bocca e prese a morderla per la rabbia, poi si rivolse al vecchio avvolto in quel sudario aspro di succo di cedro e fuliggine, provò a dire qualcosa, ma non trovò le parole. Terrorizzato corse fuori dall’abitazione, lasciando le porte spalancate al suo passaggio. Con la gola secca, bruciata dal caldo inflessibile, provò a gridare il nome di sua moglie, ma produsse un suono frivolo e acerbo, una voce di bambino. La sabbia gli entrava nei sandali, nella camicia di lino e poi su, fin dentro le narici, per riempire gli alveoli di tarsie rosse. Attraversò il villaggio di Hesperillo in quello stato, senza accorgersi dell’anomala condizione di desolazione in cui versava. La strada era deserta, i bambini avevano smesso di calciare il pallone, i vecchi di consultare le carte e giocare a gli scacchi sotto i glicini, le vedove di curare i giardini e accudire gli animali domestici. La campana suonò due rintocchi. Qualcuno deve aver trovato il cadavere di Josè Martinez, pensò Hosé Santiago Diaz, mentre correva a perdifiato col deserto in gola. Sognava di riabbracciare sua moglie al più presto e di liberarsi la coscienza dal peso opprimente di quel sortilegio cui aveva assistito. La strada cominciò a restringersi, pronta a tuffarsi nella vallata di sassi bianchi, lì dove era casa sua. Tutta Hesperillo aveva smesso di respirare, incluso Hosè Santiago Diaz, cui il fiato prese a mancare, finché non ne ebbe abbastanza per continuare. Allora poggio le mani sui fianchi, stremato per lo sforzo. Rughe ampie come ali gli si scolpirono in fronte. Si asciugò il sudore con la manica della camicia. In quella posa molle, fermo sull’orlo del dosso, udì una voce profonda e cupa pronunciare le seguenti parole: Mario Garcia, Pedro Rodriguez, Benito Hernandez, disse la voce. Hosè Santiago Diaz trovò la forza di avanzare ancora qualche passo, quanto bastava per scoprire il dosso. Un plotone di uomini in uniforme cerulea sfilava in rassegna davanti a casa sua, in fila retta, attraverso gli anelli di sassi bianchi e concentrici. Quattro di loro sorreggevano un feretro all’altezza della spalla, mentre un quinto soldato scavava una fossa. Ven’ era infine un sesto, il quale chiamava quei nomi che Hosé Santiago Diaz non aveva mai smesso di udire, mentre scendeva nella valle. Antonio Flores, Pablo Jiménez, Miguel Gomez, continuò a scandire la voce. Quei nomi li conosceva bene, Hosé Santiago Diaz. V’era un tempo in cui non era difficile sentirli risuonare per le strade di Hesperillo, pronunciati da voci di donna tenere, appassionate, furiose, isteriche, accorate. Ma di quel tempo ormai nessuno ricordava più niente. Adesso quei nomi tornavano, scanditi dalla voce arida d’un miliziano con la blusa sbiadita, che ignorava pressappoco ogni cosa di Hesperillo e dei suoi abitanti. Il feretro venne calato nella fossa. Seguì una lunga pausa. Ferdinando Diaz, disse allora il soldato con voce arida, appuntò il nome su un taccuino nero come la notte, e si tolse il cappello in segno di cordoglio. Vennero sparati tre colpi in aria e il cielo l’ ingoiò. Poi, su quei nomi, scese il silenzio, e sulla valle di sassi bianchissimi, e sulla sierra che era una scacchiera di orme e di ombra. Quel giorno il reggimento di Hesperillo spariva sotto un metro di polvere rossa, e il viso di Hosé Santiago Diaz si bagnava di lacrime per la prima volta.
Tommaso Ferrara
Tommaso Ferrara è nato a Firenze nel 1991. Nel 2011 ha vinto il premio Mario Luzi nella sezione dedicata agli studenti. Attualmente studia a Torino sceneggiatura e regia cinematografica.