Presentando "Un'altra cena" a Stanza251
Un'altra cena (Effequ, 2018) è un romanzo che, guarda un po', parla di una cena.
Tuttavia, oltre a descrivere le avventure dei quattro protagonisti, quello che ho cercato di fare è stato effettuare il carotaggio di una cena.
Carotaggio?
Con carotaggio gli attenti lettori di Stanza251 non penseranno alla radice tuberosa di colore arancione, che pure su quella tavola imbandita vi si potrebbe addentare, quanto al termine usato dai geologi per descrivere le differenti stratificazioni nel terreno. Così nel romanzo si esplorano i diversi “strati” di una cena: dai preparativi febbrili fino all'arrivo degli ospiti, per finire con il momento dei saluti e ciò che succede ancora dopo.
Va bene, diranno gli scrupolosi lettori di Stanza251, ma quindi questo romanzo è una specie di ibrido sperimentale tra un libro di cucina e uno di geologia?
Non esattamente, rispondo io, è invece un romanzo abbastanza classico, che parla di due coppie, di amicizia, di cose che finiscono, di paure, nella cornice di una cena, coi suoi discorsi specifici, con le sue contingenze. Tuttavia da questo carattere specifico il romanzo, io credo, si allontana (ed ecco qui il senso di quel termine geologico) per arrivare a parlare di una cena assoluta, di “una cena in cima al mondo”, o sotto, o tra parentesi.
Infine i lettori di Stanza251 apprezzeranno (è la mia speranza) l'ambientazione del romanzo, che ha luogo tra le diverse stanze di una casa, e come questa geografia interna, la cucina, il bagno, il salotto non sia solo lo spazio in cui si muovono e agiscono i personaggi, ma anche un elemento che determina gli eventi, quasi che questi luoghi avessero un loro intimo carattere.
Simone Lisi
da: Un'altra cena, di Simone Lisi, edizioni Effequ, 2018.
Nel mese di giugno dell’anno precedente lui abitava ancora in una casa bella, ma che sembrava dovesse crollare, o inabissarsi, o che si potesse sciogliere da un momento all’altro. Una casa non lontana da quella attuale. Scendevi le ripidissime scale e ti trovavi nella piazza dove non incontravi mai nessuno.
Era stato a quel tempo che gli avevano dato da tenere un canarino.
«Tienilo tu per favore»
E lui del resto avrebbe detto di sì a tutto quello che Adelaide e Marcello gli avessero domandato
«Sì»
SI' A TODO
Ci accompagni in un giorno lavorativo a girare il nostro prossimo video?
Certo.
Potresti fare da aiuto macchinista e attrezzista?
Con piacere, come si fa?
Da autista?
Sì.
Da comparsa nel video?
Va bene.
Puoi venire al nostro concerto con dieci persone a centinaia di chilometri da qui?
Bene.
Vuoi fare tardissimo di mercoledì notte bevendo fino a stare male anche se poi il giorno dopo lavori alle nove?
Sì, mi sembra un ottimo programma.
Martedì sera un cacciucco a Livorno?
Sì a todo.
Adelaide e Marcello gli avevano lasciato da tenere il canarino ed erano partiti, ma la prima volta non era stato a giugno, era il Natale dell’anno precedente. Loro tornavano alle loro case del nord, dai parenti, per le vacanze invernali. Tienici questo canarino, si chiama Sono Gay, anzi, siccome erano due e sono del tipo Inseparabili, lui si chiama Sono, l’altro è morto. Si chiamava Gay, ma forse non c’è mai stato.
Come scusa? chiedeva lui.
Erano una coppia di canarini inseparabili di cui uno non è nemmeno mai esistito, ma siccome questo è inconcepibile, considera che quello assente fa comunque parte di lui, come lo Spirito Santo.
Anzi, vedi te come preferisci chiamarlo che tanto non ti risponde, coglione! Argomentava Marcello, spiegando frettolosamente queste cose, lasciando il canarino e poi del cibo per canarino e poi un altro sacchetto contenente cibo umano che nel loro frigo sarebbe andato a male.
E grazie.
L’avevano ringraziato o se lo immaginava soltanto?
Adelaide sì: Grazie mille, grazie davvero davvero. Mille.
Adelaide sì. Era molto nordica e dura, ma educata. Non come Marcello, che invece nel suo non esserlo ci faceva il marchio della sua educazione. Non essere mai cortese è un modo di non risultare falso, artefatto? Chissà, pensava mentre gli amici uscivano dalla porta di casa, magari è solo un cafone.
Ma te mi sembri scemo, diceva Livia quando poi si ritrovava nella lavanderia quell’uccellino. Loro ti possono chiedere qualsiasi cosa, perché poi non l’ho capito, diceva.
Sì a todo, pensava lui.
E neanche ti ringrazia quel maleducato di Marcello.
Sì a todo, ma non le diceva nulla.
Al mattino quando albeggiava il canarino si metteva a cantare e si alzava e c’era il freddo inverno nella piazza, così chiudeva tutte le finestre, le tapparelle, e tornavano a essere le ore notturne per la mente del canarino, e nella casa il silenzio.
Doveva restarci una settimana, poi era rimasto tre. Non venivano più a riprenderlo. Livia si muoveva nella casa disciolta e commentava come da programma: certo simpatici i tuoi amici a lasciarti questo canarino così amabile per... quante settimane sono passate adesso, quattro? Ma no Livia, sono venti giorni appena. Ma che noia ti dà poi, guarda come è amabile, come è poco antropomorfo.
È solo al mondo. Diceva lei
Dov’è Gay? Non dovrebbero essere due inseparabili?
Non so.
Mi sembra di una tristezza indicibile.
Livia, proietti categorie umane che non gli appartengono affatto, ti dico, non vedi come è poco umanizzato? Guardalo, non desidera quello che desideriamo noi. Non desidera niente, è come un cinese, è completamente oscuro a se stesso, come una birra ambrata, e avanti con questi discorsi.
Dopo una serie di telefonate minatorie Marcello era ripassato a prendersi l’uccello, una sera qualsiasi, lui non si ricordava nemmeno bene. Era passato, aveva ripreso la gabbietta e il sacchetto con il cibo speciale, non quello antropomorfo. Marcello era di fretta, aveva l’auto parcheggiata in fondo alle scale, sul marciapiede, nella piazza dove non poteva stare e bloccava il traffico. Riprendersi quel canarino, pensò lui, gli era costato incasinare non solo la sua vita già altamente complicata, ma l’intera vita stradale del quartiere, anzi dell’intera città.
Lui lo giustifica anche adesso.
Non c’era il tempo di pensare al doppio movimento di accuse e contro accuse, Marcello già se ne andava con quell’uccello che era stato con loro venti giorni di dicembre. Venti giorni, che saranno mai? si ripeteva un’ultima volta, mentre l’altro sbatteva la porta e se ne andava a riprendere la macchina tra i suoni dei clacson e le offese degli automobilisti.
Poi era arrivata l’estate, era arrivato il mese di giugno, dietro un palo c’era luglio e aveva telefonato Adelaide, con una voce strana che uno potrebbe riconoscere tra le voci strane del mondo, una voce richiedente, o forse nemmeno chiamò, la incontrarono una sera, un martedì notte al Bar Volume, e disse: ci sarebbe il canarino, Sono Gay, da tenere. L’ho chiesto anche alla mia amica Mariagrazia, quindi quasi sicuramente non ci sarà bisogno che tu... ma nel caso estremo che ci fosse un’emergenza, potresti per caso ospitarlo tu?
No, Dio, aveva pensato lui, questa cosa finirà male, me lo sento. E aveva forse pensato a una qualche sensazione che aveva sempre provato fin da quando era bambino e poi anche una volta diventato adulto, sempre, giorno e notte, mattina e pomeriggio, la sensazione che si ha quando devi buttare una cosa nel cestino e non fai la raccolta differenziata: che il tuo gesto creerà una catena di eventi drammatici, un’escalation di azioni sempre più catastrofiche fino a condurre alla completa distruzione del mondo come oggi lo conosciamo. E così quel giorno di fine luglio lui pensò alla raccolta indifferenziata e a quanto sarebbe costato loro tutto ciò.