Un posto nel tempo
Angelo meraviglioso. Isabella si sveglia.
Sopravvive con pazienza, in mezzo al disincanto generale, nella frenesia dell’arricchimento rapido diffuso intorno a noi, seguendo una regola di sincero disprezzo per i tempi correnti.
Le ho telefonato anche troppo spesso negli ultimi giorni, mal consigliato dai fantasmi privati che di sera mi parlano dallo specchio piazzato sul soffitto della camera da letto.
Mi ero ripromesso di disturbarla il meno possibile. Non volevo ferire il suo isolamento.
Isabella detesta le idee troppo logorate, quelle sculturine usa e getta che ci trasciniamo dietro, dalle quali l’abitudine ha scavato via ogni senso. E’ convinta che l’elaborazione dei concetti mantenga un’energia espressiva solo a patto di inventarsi scansioni irregolari, con accelerazioni e rallentamenti imprevisti.
Quando stiamo insieme – può essere una passeggiata nel bosco o un percorso davanti alle vetrine dei negozi, nel centro di una grande città – non parliamo molto. Camminiamo a lungo senza fare conversazione. Se vedo che è assorta, la lascio tranquilla.
Cerchi concentrici in apertura ed allontanamento sulla superficie del lago.
Dopo avere saltellato quattro o cinque volte la pietra si è inabissata fulminea. Il gesto di Isabella è stato regale. Una falce scolpita nell’aria del pomeriggio ancora luminoso.
Più tardi, con lo sfumare dei raggi del sole dentro una scatola di oscurità, siamo tornati nella sua casa bianca. Il salotto è spazioso e poco arredato. Un grande divano rivestito di velluto giallo, il tavolo metallico con il piano di plexiglas, le due lampade che emettono attraverso i paralumi di stoffa un’incandescenza trattenuta. Lei sfiora con la punta delle dita le pareti lisce. Mette abbondante legna nel camino. Le fiamme alte accendono una piacevole colonna sonora di crepitii e schiocchi. Isabella si sposta lungo i grandi vetri quadrati che segnano il confine con l’esterno. Osserva gli alti alberi lussureggianti, l’inizio del sentiero, il piccolo pontile che si slancia nelle acque.
Non aspettava visite quella sera Isabella.
Ma quando mi ha visto si è subito illuminata con un’espressione di felicità bambinesca sul viso. Ero andato lì a sorprenderla nella sua vacanza forzata. Avevamo il tempo dell’autunno a disposizione.
Abbiamo ascoltato i rumori della legna secca mangiata dal fuoco, guardando le decorazioni carbonizzate sbocciare in quello spazio moderno. Anche facendo affettuose chiacchiere, Isabella mi accusava di non viaggiare mai. Diceva sorridendo: sei pigro, sempre incollato ai marciapiedi della città, obbligato a girare in eterno dentro il medesimo reticolo di strade. Ti senti depresso per errori compiuti in un tempo così remoto da appartenere quasi ad un’altra esistenza, è logico, i progetti che hai cullato troppo a lungo si sono rivelati impossibili da portare a termine.
Mi sono difeso. Le ho ricordato che amo soprattutto compiere viaggi mentali. Mi piace spostarmi attraverso racconti, immagini, forme di cose che verranno. Malgrado la mia ripugnanza per il luogo in cui sono nato, devo però ammettere di avere disteso radici di pensiero a penetrare il suolo. In casi rari e fortunati ho toccato mondi possibili.
Mi piace questa conversazione con Isabella. Le nostre parole lasciano affiorare tanti modelli del passato, esperienze che ritenevo perdute fioriscono e si espandono in scenari.
C’è la stanza dei giochi che abitavo da piccolo, con la cesta dei balocchi in cui calavo le zampine per afferrare l’orsacchiotto. E più tardi la camera di adolescente con le pareti coperte dalle immagini di gruppi rock ritagliate dalle riviste, il tavolo da lavoro ricoperto con il panno verde scuro, ingombrato di fogli e matite. C’è la strada elegante in cui Isabella ha vissuto gli anni giovanili, rivediamo l’appartamento in cui abitava da ragazzina con il fratello ed i genitori. Facciamo risorgere un intero quartiere della nostra città: le case, le stanze che ci ospitavano, gli arredamenti. Rivediamo i libri più amati.
Studiavamo Catullo al liceo classico. Le sue invettive ci apparivano fresche come se fossero state scritte il giorno prima, pensavamo alle sue poesie anche mentre facevamo finta di ascoltare i discorsi dei protagonisti dell'assemblea studentesca, quella spettacolare arena scolastica governata dagli estremismi politici.
Di notte sopraggiungeva, scivolando sulle onde della radio, una nebbia carica di turbamenti elettrici.
Posati i volumi dei poeti maledetti francesi, Baudelaire, Verlaine, Rimbaud, studiavamo il Verlaine americano - Tom Verlaine - chitarrista fondatore del gruppo rock Television. Ricordo quanto piaceva ad Isabella la copertina del loro primo album, l’atmosfera febbrile trasmessa dai colori acidi.
Gli aquiloni lanciati nel cielo di New York - a metà di un decennio incandescente – erano ben visibili anche nel cielo di Toscana. Il ritratto in bianco e nero di Patti Smith - magra, l'espressione seria- si imprimeva a sigillo di Horses, un disco epico. Isabella era conquistata da questa ragazza fotografata dallo sconosciuto Robert Mapplethorpe come fosse una santa in preda a visioni del futuro.
Il fuoco dentro il caminetto langue. Fiamme in disintegrazione formano un tenue alone di luce intorno ai legni anneriti.
Apriamo la porta. Abbandoniamo il tepore della casa.
Uscendo all’esterno l’impressione iniziale è quella di un gelo al quale non sapremo resistere, ma percorrendo la stradina verso il lago ci sentiamo rinforzati e determinati.
I passi sopra le tavole di legno del pontile producono un rumore sordo. Ci fermiamo arrivati all’estremità. Isabella per prima inizia a spogliarsi. Lasciamo cadere i cappotti, le sciarpe, il maglione, i guanti.
Ci sporgiamo a fissare la lastra scura dell’acqua. Nonostante il freddo siamo decisi.
Isabella si butta. Nuda, è bianca, sospesa in superficie.
Mi getto anch’io.
Ci ritroviamo insieme nell’acqua alta, sbucati dalla profondità per prendere una boccata di aria fredda. Dopo un carosello di rapide bracciate cominciamo a stare meglio. La temperatura dell’acqua adesso ci sembra quasi piacevole.
Nuotiamo veloci. La notte è senza luna. Cerchiamo di fare poco rumore.
Ci allontaniamo dalla riva, raggiungiamo un punto al largo, dal quale il margine della foresta risulta impreciso, sfocato. Succede una cosa strana. Vediamo una scia di puntini luminosi, vacillanti al bordo del lago. Una segreta processione notturna che si perde poco a poco rientrando nel fitto degli alberi.
Incuriositi ritorniamo indietro. Nuotiamo fino al pontile. Le luci sono scomparse. Tutto è esattamente come prima. Indossiamo i nostri vestiti ghiacciati. Via di corsa fino alla casa.
Davanti ai tizzoni che crepitano nel caminetto, avvolta in una grande coperta di lana pesante, con i capelli ancora gocciolanti, Isabella mi dice che ha visto a sufficienza. Ricomincerà presto a scrivere.
Stefano Loria