La bibbia francese
Per il secondo pomeriggio di seguito mi ritrovai di fronte alla chiesa barocca intitolata al santo di cui porto il nome, o dal nome uguale al mio come preferisco pensare, perché i santi di un nome al più possono essere i testimoni, nell'accezione strettamente pubblicitaria del termine intendo. Lo diffondono, su mandato di qualcuno ne sono diventati i rappresentanti, i promotori.
L'edificio mette fine a una lunga stradina lastricata di basole lucenti e levigate dalle mole e dai passi, e guarda dritto in faccia il castello e il cielo che nel vicolo non era niente di più che una striscia su in alto.
Mentre entravo, mi resi conto che questa volta era stato solo per il tempio che avevo deviato dal mio itinerario solito. Il giorno prima era sembrato un caso; ma il caso evidentemente non esiste, mentre il destino sì e così la visita adesso non era un imprevisto ma era stata promossa a tappa. La chiesa era vuota a eccezione di due uomini aggrappati ai banchi e ai pensieri. Non vagai lungo i camminamenti laterali, ma affrontai la navata e mi sedetti a uno dei primi banchi, in un punto dove l'unica lampadina dell'enorme lampadario che pendeva dal centro della volta a botte mi avrebbe consentito di scrivere. Sentii progressivamente un peso gravare, ma non con prepotenza o durezza; si trattava piuttosto di qualcosa di insito negli oggetti, nelle singole parti, nell'intera struttura della chiesa e che si concentrava in quel lampadario precipitato a pochissimi metri dal suolo. Quella non era una delle nostre chiese spoglie e chiare e orientali, ma era ingombra, riempita dalle diverse sovrapposizioni che dovevano essersi succedute nello spazio di pochi secoli. Pensai al dio in cui non credo più da molto tempo e su cui spesso rifletto (per spiegarmelo sono giunto alla conclusione arbitraria che dio e la spiegazione di dio siano materia per gli atei non per i fedeli) e pensai alla commovente grandezza e alla sostanziale vacuità del mondo che mi ha partorito. Restai qualche minuto a prendere appunti proprio su ciò che sto scrivendo in questo preciso momento, con il piacere di un taccuino che attendeva il suo tempo e di una penna nuova, e del silenzio e dell'ombra. Poi uscii.
Mi piace credere che fu quel brevissimo viaggio nell'occidente, un viaggio che probabilmente ripeterò molto presto, a far cadere il mio sguardo sulla piccola bibbia francese imboscata tra i tomi di medicina ordinati nella libreria dello studiolo della casa dei miei genitori, due giorni dopo. Era una domenica. Avevo sempre saputo dell'esistenza di quella bibbia. Il padre di mio padre me ne aveva parlato, forse me l'aveva anche mostrata, ma non posso dirmene certo, molti anni prima, più o meno al tempo in cui mi insegnò a giocare a scacchi (l'altro mio nonno si sarebbe occupato invece del mio addestramento a poker, proprio nella stanza in cui mi trovavo in quel momento, su un tavolo coperto da un panno verde che veniva assicurato alle gambe di legno elegantemente ricurve con delle cordicelle bianche, cucite due a due a ogni capo di quel pezzo di tessuto, che continuo a usare io, così come continuo ad amare entrambi i giochi a cui fui introdotto e la cui pratica ha saltato una generazione, perché prevedono una messa in scena, un canovaccio, una trama e un finale mutevoli, e soprattutto l'alternativa tra una sconfitta senza riserve e una vittoria effimera e senza gloria come si conviene).
Quanto alla bibbia, sapevo bene che si trattava dello strano bottino di guerra che mio nonno, un maresciallo di artiglieria, un militare di professione (rifletto in questo istante sul fatto che in definitiva è proprio a lui e alla sua insistenza che devo il mio nome di battesimo) aveva portato via da una casa abbandonata, in Albania, durante la guerra. La aprii quella volta, o la aprii con un animo differente rispetto alle altre. Dopo, la mia curiosità fece da percussore e le poche parole che trovai vergate a mano sul frontespizio del libro, da innesco. I proiettili come quello che partì quella mattina da quella strana pistola, non sono assoggettabili alle regole della balistica classica, hanno un'inerzia che si estende illogicamente nel tempo, seguono una traiettoria variabile, colpiscono quasi a caso eppure con rara precisione. La data del novembre 1940, e Premeti, il nome del luogo in cui si era consumato il piccolo saccheggio, diedero il via a una caccia che avrebbe riempito delle caselle ancora vuote e disegnato altre, non previste. Adesso ho maggiore consapevolezza della carne mandata al macello contro la Grecia da uomini ridicoli e senza animo, figuri dritti e lucenti come bandiere listate a lutto; ho l'immagine di stivali affondati nel fango dei Balcani nell'autunno del 1940 e del natale dello stesso anno che mio nonno passò a casa sua e non dall'altra parte dell'Adriatico, con il ricordo ancora vivido dei parassiti che gli infestavano la divisa e di un pezzo di artiglieria che a ottobre era stato orgoglio e a novembre un peso.
Non so bene per quale motivo decisi di mostrare il libro a mio padre. Per metterlo alla prova, credo. Certo non per ricevere una vera risposta, qualcosa di risolutivo o illuminante. La mente di mio padre da tempo è diventata una landa inesplorabile. Non so se la causa di ciò sia legata a un processo costante di cancellazione o all'essere entrato in un terreno e in un tempo preesistenti ma occultati, un luogo ignoto a cui si può accedere solo quando la ragione è persa. Il viaggio che mio padre ha intrapreso da 6 anni a questa parte sembra quello di una barca nella nebbia; incrocia in acque improvvisamente diventategli sconosciute e quando si imbatte, per avventura o antica tenacia, in un ricordo, gli rimane appigliato per un tempo indefinito, prima di riprendere il suo cammino che ormai è più vagabondaggio di un cieco o di un bambino che percorso. Quel pomeriggio non chiesi mio padre se avesse memoria del libro o di chi l'aveva portato al di là del mare, ma mi limitai a mostrarglielo, aperto sul frontespizio. Lui senza esitare, disse che si ricordava molto bene della firma che mio nonno aveva lasciato sotto le due righe in cui collocava la magra conquista nel tempo e nello spazio. “L'ho imitata tante volte quella firma, per il libretto delle giustificazioni, a scuola” questo disse più o meno, sorridendo.
Mi ripresi allora il libro per guardare meglio la scrittura. Avevo già notato una certa familiarità in quel tratto. Il mio e quello di mio nonno si somigliavano ma come da lontano. Era come se ai dettagli in comune - la doppia consonante, la "g" un po' plateale, forzatamente elegante - se ne alternassero altri più vaghi se non profondamente distanti. Ebbi la sensazione, forse il sospetto, che dovesse esserci una tappa intermedia e pensai subito alla firma di mio padre, di cui la mia è indubbiamente debitrice. E pensai alle innumerevoli volte in cui avevo tentato di riprodurla, prima sui ricettari intestati in blu che teneva nella scrivania del suo studio, a casa, dai fogli bianchi che all'ennesima prova strappavo e giravo dall'altra parte per ricominciare. La firma l'avrei poi riportata, nei pochi frangenti in cui decisi di servirmene, nella ripetizione di ciò che aveva fatto anche mio padre a quanto pareva. E in quel momento sulla bibbia trafugata, incongruamente, ho intravisto la mia firma e l'asse che forse è destinato ad allungarsi. Il motivo principale per cui la bibbia francese l'ho presa io, per tenerla con me.
Domenico Caringella