L'ultima vera barzelletta

L'ultima vera barzelletta  - Last of the Practical Jokers

(testo bilingue-bilingual text)

Valentina Biasetti, Millimentri (sensazioni di cose minime) #4, tecnica necessaria su carta-matita e pastelli a olio, mm750x750, 2015

Chiudevano i migliori negozi. Posti dove cercavo libri e LP usati, cantine che potevano essere gallerie d’arte o negozi della carità, rifugi funky che permettevano una tregua dal mondo in giornate uggiose volgevano occhi spenti alle strade che prima avevano mantenuto in morbosa vita.

I bottegai sono mortali. Si portano all’oltretomba le cianfrusaglie della vita che intendevano mettere al mondo. Se non trovano eredi o apprendisti cui rifilare saperi e ciofeche, il loro essere commerciale appassisce e smette di esistere.

La Buffa Bottega era più fragorosa dei suoi vicini e colleghi. Lampadine multicolori scintillavano anacronisticamente dentro forme di lettere di latta, contorte e di varie dimensioni, l’equivalente di una cravatta psichedelica ultra-larga, o di un cuscino whoopee infilato sotto le mele di un tetro isolato. Quella vetrina afferrava per il bavero i passanti, gli spruzzava in faccia saliva calda e alito cattivo, e sbraitava con un accento assurdo barzellette senza senso.

Oggetti sprovvisti di inerente giocosità—bombe puzzolenti, polvere prurito, parrucche per simulare la calvizie, occhiali distorsori con attaccati nasi finti e grottesche sopracciglia, sigaroni di gomma, finti polli morti e spennacchiati, vomito posticcio e stronzi di cane artificiali—attiravano l’occhio come i coltelli a scatto e le riviste di donne nude nelle vetrine di altri squallidi negozi del quartiere.

C’era uno scaffale di riviste per soli adulti nel retro de La Buffa Bottega. Immaginai che fosse quella la sua vera fonte di guadagni. Un impiegatuccio in cerca di emozioni forti entra e prende l’ultimo numero di Troie e Sciattoni. Mentre il commerciante infila il lerciume dentro la busta di asettica carta marrone, chiede anche una bombola di spray-scoreggia. Tipi come lui comprano bicchieri-sbrodolo per prendersi gioco delle segretarie al lavoro, sistemano sistole schizza-mutandine sulla linguetta delle scarpe. La vita domestica è meno divertente. Sfigato single in mutande sul divano che si gode la nuova rivista porno mentre la tivù sussurra un vecchio episodio di una serie comica che ai suoi tempi forse faceva morire dal ridere.

Il venerando commerciante de La Buffa Bottega lavorava solo, notai. Cercavo lavoro. Guardavo la vetrina colma di risate liofilizzate come i barboni guardano le vetrine delle rosticcerie. Un teschio di plastica in posa sopra un finto cesso da salotto che strabordava di finti stronzi mi diede una scossa d’ispirazione. Entrai.

“Cosa ti fa pensare che sei qualificato?” Sembrava che il gestore del negozio mi volesse prendere per il culo. Non era così. Ascoltò la mia storia.

Molti lavori, a lungo andare, si rivelano essere delle barzellette poco divertenti. Sam il commerciante della comicità mi prese in prova. Voleva tenere aperto fino a mezzanotte per servire fantomatici turisti nottambuli, ma voleva anche poter tornare a Weehawken per la cena. Un fesso da minimo stipendio gli avrebbe permesso di realizzare questo grandioso sogno.

L’ultima intervista per un lavoro era stata più interessante. Mi ero presentato a un grattacielo anonimo, dove parlai con diverse persone. Quando chiesi che sorta di lavoro offrivano, farfugliarono in modo ambiguo di analisi di foto satellitari. L’ufficio del direttore sfoggiava foto della luna scattate da astronauti Nasa, abilmente incorniciate. Gli faceva gola che parlassi il tedesco. Era un grande ammiratore di Thomas Mann. Discutemmo del suo romanzo Il cigno nero, anziché di ciò che avrei dovuto fare nell’ufficio attualmente vuoto al piano di sotto.

Forse mi assunsero. Non aprii la lettera che mi inviarono, non la volli quasi toccare. Chissà dove finirono le mie impronte quando la buttai in un cassonetto a molti isolati da casa mia.

Sam il commerciante della comicità mi guardò senza espressione. “Sai passare il cencio, laureato del tubo?”

Pulire pavimenti di linoleum disegnati apposta per sembrare tollerabilmente sporchi conferisce una sorta di pace. Il turno serale a La Buffa Bottega era sereno, se non altro. Un cliente regolare, che indossava completi sartoriali di tessuti sgargianti da mozzare il fiato, finiva una bombola di scoreggia-spray a settimana. Non degnò mai nemmeno di uno sguardo la libreria porno.

Lo sgabello girevole dietro la cassa nichelata che sembrava il modello di un grattacielo Art Déco era comodo. Quando finivo di sperimentare scenografie di vetrina, o di stabilire gerarchie dei prodotti-gag in base all’indice di divertimento dentro le teche illuminate, mi sedevo a leggere. Thomas Mann, più che altro.

La sera della prima nevicata di quell’autunno, entrò una donna. Pestò lo zerbino per levare neve fresca dagli stivaletti scamosciati, scosse il trench, inspirò il caldo profumo del negozio, e si diresse verso lo scaffale delle riviste zozze.

Sam il commerciante della comicità di solito vittimizzava nuovi clienti con dimostrazioni pratiche di prodotti-gag, oppure raccontava barzellette indecenti. Era bravo, faceva colpo, di solito vendeva. Preferivo un approccio minimalista. I clienti sognano. La mercanzia sparge la propria magia risogenica. Intervengo solo dietro richiesta. Vendevo finto vomito a galloni. Le cifre mi fruttarono fischi d’ammirazione dal capo.

La Buffa Bottega era attrezzata di specchi deformanti antifurto. Potevo tener d’occhio tipi sospetti mentre spiegavo, per esempio, la preparazione di cubetti di ghiaccio raffiguranti donne nude a nonnine ansiose di sedurre decrepiti stalloni. Finsi di essere rapito dalla maestrale prosa di Mann sul soggetto dell’amore e la salute polmonare mentre lei sfogliava Stròzzami, una rivista per feticisti. 

Il suo cappotto era da film noir, oppure da film rose, persino rouge. Le guardavo le mani. Esiste una sottospecie di ladri prestigiatori che indossa impermeabili. Li sgamo subito.

Un tratto di banco privo di vita si estende a sinistra della cassa. I clienti che entrano sono sbalorditi dalle finte carogne di polli, e dalle false teste rimpicciolite di un realismo agghiacciante nel display centrale. “Dacci dentro coi capelli,” aveva detto Sam all’artigiano. “Cazzo, usa pure capelli veri. Rimpicciolisci qualche testa genuina. Ti pagherò extra. I fessi li compreranno.” E infatti li comprarono.

Il mio sogno era di creare un microcosmo di magia dentro la zona morta de La Buffa Bottega. Inutile dire che questa impresa illusionistica fu ispirata da Mann, anche se il personaggio del racconto Mario e il mago non ha bisogno di marchingegni kitsch.

Misi mentalmente a punto un trucco per far sparire le mutandine della nuova cliente, a patto che ne portasse.

Sogni commerciali e montagne incantate fecero puf! quando sbatté sul banco la sua selezione di riviste porngrafiche. Aveva sul viso un’espressione di sfida: compro riviste segaiole pur essendo una donna, e con ciò?

Mi sarei preso a calci che non mi metto mai la cravatta. Avrei potuto praticarle la gag della cravatta che si rizza. Ma non avevo niente. Niente!

“Ehm, le teste rimpicciolite sono in offerta speciale, visto che è giovedì.”

“Passo già abbastanza soldi al mio psicanalista, grazie.”

Mi feci apparire sul naso degli occhiali effetto strabismo. “Ti farò pagare solo la metà di quanto gli dai,” dissi, massaggiandomi pensierosamente il mento.

“La masturbazione mi mantiene sana di mente,” disse.

Potevo solo battere i tasti della cassa per concludere la transazione. Tolsi gli stupidi occhiali-gag. Le piacevano riviste bondage, dalla roba leggera tutta sculaccioni fino a quella più dura e scura che Sam il commerciante della comicità riusciva a sopportare. Cioè non troppo hard. Niente sangue, o altre scorie umane.

“Che diresti di un paio di manette velcro per accompagnarle?” dissi.

“Sono entrata solo perché la tua stamberga è leggermente meno minacciosa degli altri cessi della zona.”

“Scusa. Serata lenta, e solitaria.”

“Meglio così,” disse. Pagò le riviste con un biglietto da cento dollari fresco di zecca, intascò le sudicie banconote di piccolo taglio che le porsi, afferrò la sua meravigliosa busta da sditalino, e si perse nella finta scoreggia che suona ogni volta che qualcuno esce dal negozio. Strinsi il bulbo di un finto klaxon, una gavia che richiama l’anima gemella in una notte metropolitana nella quale nessuno capiva le sue barzellette. Andai a spolverare lo scaffale del fluido glaciale, sperando in un soffio del suo profumo, o del suo odore ascellare.

‘Torna, per favore.’ Una silenziosa preghiera rivolta alle teste rimpicciolite, che non avevano bisogno di essere spolverate. ‘Ti prego, torna.’

La magia tsantsa funzionò. Ricomparve a La Buffa Bottega mentre praticavo un trucco per far sparire finti stronzi. Non salutò. Non sganciò una fialetta puzzolente. Si diresse dritto al retro del negozio, verso lo scaffale porno-anche-per-donne.

Era vestita in modo più femminile, a parte il trench. Feci scomparire altre finte feci, e la persi di vista nell’infinità degli specchi distorsori.

“Niente male,” disse, proprio al momento cruciale del passaggio alla mano sinistra. “Mi sembrò praticamente di sentire quella merda fare puf! Rifallo, dai.”

Mi spinsi un pugno metafisico in bocca per non blaterare, “Speravo che dicessi proprio così.” Materializzai una discreta busta di carta marrone con uno svolazzo dietro la schiena.

Aveva cambiato gusti. Tenere gnocche, Fregna acerba e Lolite implumi erano tra le riviste che avevo convinto Sam il commerciante della comicità a esporre. Vendettero parecchio, e quel successo mi fruttò una certa libertà nella scelta di materiale per soli adulti. Lubrificò la vendita di sterminati microfoni del ventriloquio, e intere macellerie di finti pollici insanguinati.

Tenni chiusa la bocca. Diressi uno sguardo da cinema muto verso l’orologio psichedelico con sagome della Kama Sutra al posto dei numeri, come stessi implorando. Mi mostrò pietà, abboccò.

“A che ora smonti?”

Materializzai una testa rimpicciolita sul banco. Lei non portava l’orologio, o gliel’avrei sfilato per farlo riapparire sotto il finto collo insanguinato, con le mani a indicare la mezzanotte delle streghe. “All’ora di chiusura,” dissi.

“Non fare il furbo,” disse. “O forse non vuoi uscire con me per fare del safe sex.”

“Stasera chiudiamo presto.”

Cercò di pagare le riviste con delle banconote finte, poi propose di vincermele al gioco usando una finta moneta a due teste. Stavo per dirle che il sudiciume era un omaggio della ditta, quando tirò fuori dalla borsa un autentico biglietto da cinquanta dollari.

“Una copia gratis di Screw con l’acquisto di dieci riviste patinate,” dissi.

“Affare fatto,” disse. “Stringimi la mano.”

Com’era prevedibile, mi fece sobbalzare con un anello elettroshock—un nuovo modello che sprigiona voltaggio da far traballare i denti del giudizio. “Ahio,” dissi.

Finse di rubare occhiali a raggi X mentre passavo il cencio. “Non sei Rocco Siffredi,” disse.

“Beh, tu non sei Albert Einstein. Quei cosi lì fanno vedere ologrammi di donne nude solo sotto luce ultravioletta.” Spensi tutto, e appesi alla porta il cartellino Closed, un gesto stupido perché poi tiravo giù il bandone stile carcere, a prova di bomba. 

“Non potresti trovare un lavoro migliore?”

“Come, mollare il mondo dello spettacolo? E poi... tu che lavoro fai? Sei per caso la direttrice del Metropolitan Museum?”

Sbottonò il trench, rivelando una T-shirt con la scritta Sindacato Raccoglitori Marijuana. “Lavoro in pubblicità,” disse. Immaginai che fosse una direttrice d’agenzia, con diritti d’elicottero.

“E quindi hai problemi a fare amicizie,” dissi.

“Hai indovinato. Ma sto meditando di cambiare mestiere, fare la comica,” disse. “Potrebbe aiutarmi a essere meno timida.”

Girato l’angolo c’era un nuovo locale dove si esibivano comici professionisti. Era stato un teatro porno. Ora i gestori trasmettevano risate registrate per attirare gli stessi impiegatucci che prima entravano per una lesta sega prima di montare sulla corriera diretta in periferia.

“Che buffo,” dissi. “Io mi sto esercitando per diventare mago. Potrebbe compensare la mia totale assenza di fascino.”

“Fai un trucco,” disse.

“Tirami il dito.” Il finto dito che avevo preparato si stacca e sprizza sangue finto a fiotti. Stavolta non abboccò. Non insistetti.

Prese il comando della passeggiata senza meta. Non ci dirigemmo, come pensavo, verso la zona dei moribondi club per scambisti e voyeur.

Appuntamenti galanti safe sex nell’appartamento di una donna solitaria che vive in un quartiere noioso sono più belli di quanto possa sembrare, specialmente quando la tipa in questione sa cucinare eccezionali polpettoni.

Una bandiera americana invertita, col simbolo della pace al posto delle stelle, attaccata alla finestra per guastare la festa ai vicini guardoni, conferiva un’arcaica vibrazione rivoluzionaria. Attaccò il fantastico trench su un chiodo ingrossato da parecchi strati di vernice, accanto a un altro chiodo che reggeva un giaccone da marinaio. Le piaceva contemplare vestiti di seconda mano, disse. Non c’erano foto, quadri o poster. La cucina non vantava pretenziose caffettiere, frullatori o fornelli micro-onde. Non fumava, ma chiaramente avrebbe voluto. Rubava posaceneri da defunti ristoranti e locali che una volta andavano di moda.

Nella sua camera da letto, mi chiese di fare un trucco di magia.

“Fammi riprendere,” dissi. “L’ultimo trucco mi ha sfinito.”

“Fai scomparire qualcosa.”

“Ci hai già pensato tu, ma guarda... eccolo di nuovo.”

“Le barzellette lasciale raccontare a me, Mandrake.”

“Scusa. Fai pure.”

Non aveva la tivù davanti al letto. L’abat jour illuminava un romanzo di Thomas Bernhard, preso in prestito dalla biblioteca comunale. Si alzò, mise le mutande stile ragazzo adolescente e una T-shirt grigia da palestra, e fece un numero sulla sua breve carriera di spruzzatrice di profumi in un grande magazzino. Ma non faceva ridere. Non aveva il dono della comicità, oppure stava tentando un genere del tutto inesplorato, un numero da acrobata senza la rete. La feci finire, applaudii sommessamente stile safe sex, visto che era tardi e nell’appartamento accanto magari c’era chi dormiva. Come finale, fece un breve strip tease.

“Bene, ti ho fatto vedere la mia,” disse. “Ora mostrami il tuo.”

La stanza da letto era tanto spoglia e spartana com’erano il salotto e la cucina. Mi trovai in difficoltà, ma come un angelo apparve un’idea.

“Bellissimo romanzo,” dissi. “Anche se parecchio deprimente. Me lo passi?”

Fece per prendere la copia de Il soccombente, con sulla copertina un dignitoso ritratto in bianco e nero di Glenn Gould, ma invece agguantò L’ultimo vero bacio, di George Crumley. La copertina raffigurava, a colori violenti, un nudo ventre di donna e una calibro .38.

Aveva guardato dove volevo che guardasse quando uscii dal letto. “Guarda che coincidenza,” dissi. “Lo sto leggendo anch’io. Scrive peggio di un cane, ma è deliziosamente privo di pretese.”

Mollò l’immondo giallo, che avevo trovato in un romantico negozio di libri usati, ormai scomparso. “Ehi, ma cosa ne hai fatto del mio libro?”

“Quel tuo libro è anche mio, visto che appartiene alla biblioteca comunale, e io le tasse le pago. Ma se guardi dentro quelle mutande piene di buchi e patacche che hai appena buttato per terra... ” Abboccò, alla stragrande. “Sto scherzando, è sotto il tuo cuscino. La fatina dei denti gli dà pieni voti safe sex.” 

“Però avresti potuto farlo riapparire dentro le mie mutande, vero?”

“Forse. Ma non ripeto trucchi davanti allo stesso pubblico, se non me la sento. Dove hai comprato il tuo perfettissimo trench?”

“A un claustrofobico negozio della carità dove sciamano omosessuali bramosi di strusciarsi addosso. Quindi ci vado anch’io.”

Quel negozio reggeva sempre, anzi andava forte. Forse un consorzio di arredatori l’aveva comprato, per preservarne l’atmosfera furtiva e soffocante.

“Senti,” dissi, anche se mi trovavo nudo sotto una nuda lampadina nella stanza da letto di una donna che conoscevo appena. “Mi sposeresti? Vuoi essere mia moglie, e aiutarmi a mandare avanti La Buffa Bottega quando Sam il commerciante della comicità darà un calcio al secchio sbrodoloso?”

“Sarebbe una barzelletta?”

La magia non è sempre un trucco. Anni dopo, mi confessò che la sua intenzione originale era stata di farmi pagare cinquanta dollari per quel primo romantico appuntamento.

Matthew Licht

 

Last of the Practical Jokers

All the best shops were closing down. Places to troll for used books, second-hand LPs, basement joints that could’ve been art galleries or thrift stores, funky bomb shelters where you could catch a breather from the world on dreary days—shuttered, black-eyed to the streets they once morbidly enlivened.

Shopkeepers are mortal. They take with them the crap of life which they’d intended to put out into the world, at a price. Unless they find heirs or apprentices on whom to foist their commercial knowledge and wares, the constructs of their shops wither fast and are no more.

The Joke Shop was louder than its fellows and neighbors. Multi-colored incandescent bulbs blared anachronistically across tin-type letter-forms set jumbled and askew in a truncated marquee, the equivalent of an extra-width psychedelic tie, a whoopee cushion under the ass of a grim city block. The show-stopper shopwindow grabbed innocent pedestrians by the lapels, if they had any, sprayed their faces with hot spit and bad breath, brayed a nonsensical one- or two-linerin a heavy Outer Borough accent. Yaah! Honk-honk!

Objects bereft of inherent funniness—joy-buzzers, boxes of frosty fluid, piss-colored stink-bomb ampules, itching powder, skinhead wigs, fake nose n’ mustache eyeglasses, oversized rubber cigars with which to gesture and guffaw, fake puke and artificial turds—hooked roving eyes like the switchblades and split beaver on the dismal stretch of knives-and-porno dives around the corner.

There was an Adults Only rack at the back of The Joke Shop, which I always suspected was the place’s genuine money-maker. Bus station-bound galoot wants a lonely thrill, but is worried that someone from his office will spot him. In he goes, selects the latest issue of Sluts & Slobs. While the clerk discreetly sleight-of-hands the filth into an antiseptic brown envelope, the customer shmo asks for a can of fart-smell. He’s the kinda guy who’ll use a dribble glass on a secretary, or put a bulb n’ tube pocket-squeeze squirting device on the tongue of his 2-for-1 closeout sale office-brogues. The scene at home’s not nearly as funny. Unattached goof in his underwear on an easy chair, enjoying his new magazine while the TV whispers a sitcom that might’ve been considered hilarious, in its long-dead day.

The venerable Joke Shop clerk worked alone. I needed a job. I stared into the laff-packed shopwindow the way bums look into cozy diners. On a flash of inspiration from a hinged plastic skull perched on a fake livingroom toilet that overflowed with pressed-sawdust shit, I went in and made my plea.

“What’re your qualifications?” Sounded like he was setting me up for a dead-end career punchline, but I told him straight, such as they were.

Most jobs are jokes that never quite hit. Joke-Man Sam took me on a trial basis. He’d been hatching a plan to keep the place open till midnight, to cater to phantomatic after-dark wandering tourists. He wanted to get back to Weehawken in time for dinner, though. A minimum-wage sucker had waltzed in off the street to make this lavish dream possible. The 6:02 Jersey Transit bus blazed with renewed life, in the joke-man’s mind.

The last job interview had been more interesting, but proved less satisfactory, in payload terms. The men I’d spoken with were vague on exactly what sort of work was on offer, but it involved satellite-photo analysis. They knew I spoke German before they scoped my CV, and for some reason this knowledge made them hungry, eager. The man whose office featured expensively framed NASA photographs from the moon was a Thomas Mann enthusiast. We discussed The Black Swan, instead of what I might be doing in the currently empty office on the floor below, in a decade or so.

Maybe I got that job. I didn’t open the letter, didn’t even want to leave fingerprints on the envelope when I tossed it.

Sam the Joke Man shot me a dead pan. “Know what to do with a mop, college boy?”

Peace comes from cleaning linoleum floors designed to look tolerably dirty at best. The lobster’s graveyard shift at The Joke Shop was nothing if not serene. The door buzzer never set off the stacks of joy-buzzers by comedic-timing accident. One regular late-night customer, who wore custom-made suits in astonishing color-and-pattern combos, went through a spray-can of fart-smell a week. He never even glanced at the porno rack next to the janitorial closet where I hung my jacket. 

The high-rise swivel-action clerk’s stool behind the nickel-plated Art Deco cash register, which Sam had scored at a Salvation Army store in Newark, was supremely comfortable. Whenever I was done jazz-riffing on the window-display, or establishing yock-hierarchies in the illuminated glass counters, I could just sit and read. Thomas Mann, mostly.

One first snowfall of autumn night, a woman came into The Joke Shop. She stomped her suede chelsea boots, shuddered her gabardine epaulets, took in the humorous fug, and headed towards the skin-mag rack.

Sam the Joke Man usually hit new customers with a product demonstration, or a one-liner. He was skilled, often killed, and sold. The subtle approach worked better, for me. Let the customer dream alone, let the merch twist its knee-slapping magic. I’d slide in a set of Bubba teeth and act natural if and when the questions came. Wull yuh fee, mifner, for mack-fimum fake vomick effeckniveneff, yuh gotta plan ahead. I moved solid gallons of fake puke. The numbers got me approving slide-whistles from the boss.

The Joke Shop was rigged with cannily placed loss-prevention fisheye mirrors. The Zen was to keep one eye on a raincoat—Joke Shop slang for shoplifter—while explaining Nudie Girl ice cube preparation to the anxious grandma planning a hot date. I pretended utter absorption in Mann’s take on love and lung health while she skimmed a fetish rag called Choke.

Her outerwear was straight out of a noir movie flickering in an uptown arthouse, on a double bill with something rose, or even rouge. Watch the hands. Some raincoats are also amateur magicians, with the chops to steal stuff faster than the eye can see. I know the type, and can spot them instantly.

A lifeless expanse of counter stretched to the left of the cash register. Customers on the way in were dazzled by fake dead chickens and disturbingly life-like shrunken heads on the main rack. “Go lavish on the hair,” Sam had told the manufacturer. “Hell, use real hair. Shrink some real heads. I’ll pay extra. The suckers’ll buy.” And buy they did.

My retail dream was to create a magic world-within-a-world in the Joke Shop’s dead zone. Needless to say, the illusion venture was inspired by the main Mann, although the Mandrake in Mario and the Magician doesn’t rely on hokey props.

 I was thinking of ways to make the mysterious customer’s panties disappear, unless she wasn’t wearing any.

Magic dreams and mountains went poof! She slammed her slick smut selection on the counter. Yeah I buy stroke-mags even though I’m a woman what’s the big deal. Mentally kicked myself for not wearing ties to work. Coulda hit her with the squeeze-bulb hard-on tie gag. Instead, I had nothing. Nothing!

“Uhhh...we got a special on shrunken heads, since it’s Thursday.”

“Thanks but I pass my headshrinker enough moolah as is.”

Deftly slipped Crosseyed Spex onto my shnozz. “I’ll only charge you half of whatever you give him,” I said, and rubbed my chin in meditation.

“Masturbation keeps me sane,” she said.

Not much left to do but ring up her purchases. I took off the dumb joke glasses, did the transaction straight. Her taste in fuckbooks was strictly bondage, from light spanky stuff to dark action as heavy as Joke Man Sam could bear to carry. That is, not too heavy. No blood, or other human waste products.

“How ‘bout a pair of EZ-Off handcuffs to go with these?” I said.

“Look dude I only came in here cuz your dump’s less threatening than most of the scum-pits around here.”

“Sorry. Been a slow night. Lonely, too.”

“Better that way,” she said. She paid with a factory-fresh $100 bill, accepted the forlorn low-denomination notes that were all The Joke Shop had to offer as change, grabbed her wonderful bunny-pat brown paper package and was gone, lost in The Joke Shop closing-door fart fanfare. I honked a punchline horn, a loon silently calling his soul-mate in a big city night when no one was getting any jokes. Then I went to straighten the joy-buzzer aisle, hoping for a breath of her perfume, or body odor.

“Please come back,’ I prayed to the shrunken heads, who didn’t really need dusting. “Please, come back.”

Tsantsa magic works. Better than Magic 8-Ball Mystic Oracles, even. She returned to The Joke Shop while I was practicing a disappearing fake turd illusion I’d dreamed up. She didn’t say hi, or hotcha. She didn’t drop a smoke bomb or do anything novelty shop-appropriate. She headed straight to the back of the store, and hit the female-friendly skin rack.

She was dressed more womanly: black lo-stack pumps, tawny stockings, sensible knee-length navy blue wool skirt. The cool touch was a CPO jacket that whispered, Hello, sailor!

The Joke Shop welcomes Fleet Week! That cloth banner languished in the mop closet 51 weeks of the year. 

Had to be a Fleet Enema gag in there somewhere. I made a few turds vanish, lost sight of her in fish-eyed loss-prevention mirror infinity.

“Pretty good,” she said, at the crucial instant of a left-hand pass. “I almost heard the turd go poof! Do it again.”

Stuffed a metaphysical fist in my yap so I wouldn’t blurt out, “I was hoping you’d say that.” Materialized a discreet brown paper envelope with an across-the-breast flourish.

Her taste in frig-mags had changed. Tender Twats, Barely Beaver and Snizz Shavers were all titles I’d convinced Sam the Joke Man would move in quantity, and in a hurry. Their success earned me a free hand in the field of wholesale spank merch. Nubile porn lubed the sale of tons of throw-your-voice microphones, armies of fake severed thumbs.

My trap stayed shut. I shot a Silent Screen glance at the numbers on the register, as though begging.

She had mercy, took the bait. “What time do you knock off?”

A shrunken head was suddenly on the counter. She wasn’t wearing a watch, or I would’ve tried a swipe-and-conjure under the shrunken head’s hideous sawn, shriveled neck, surreptitiously set the hands to point at the witching hour. “Closing time,” I said.

“Smartass, do you not want to go on a jack-and-jill-off date with me?”

“We’re closing early, tonight.”

She tried to pay for her magazines with phony-baloney simoleans, then offered to flip me for the total with a two-headed heads-up quarter. I was about to tell her the smut was on the house when she whipped out a genuine $50.

“Free copy of SCREW with every purchase of ten slicks,” I said.

“Cool deal,” she said. “Shake.”

Predictably, she shocked me with a joy-buzzer—a new, improved model that delivered sufficient voltage and joltage to set phantom wisdom teeth swimming. “Ow,” I said, shaken, stirred.

She mock-shoplifted a pair of X-Ray Spex while I mopped the floor. “You’re no John Holmes,” she said.

“Well you ain’t Sherlock Holmes, neither. Those things only show nekkid lady holograms under high-beam neon.” I doused the lights and hung up the sign that said Closed, which was kinda dumb, cuz the next step was always to pull down the bomb-proof folding-metal gate and apply the prison-grade padlocks.

“How come you can’t find a better job?” she said.

“What, and give up show biz? Besides, what’re you, the director of the Metropolitan Museum or something?”

She unbuttoned her CPO jacket to reveal a Marijuana Pickers Union, Local #13 T-shirt. “I work in advertising,” she said, and I figured her for a high-powered exec, a name partner with helicopter privileges.

“And you have trouble meeting people,” I said.

“You got that right. But I’m thinking of a career change, to professional comedy,” she said. “Should help me overcome my shyness.”

A professional comedy club called The Laugh Track had opened where Peepland once stood. Management thought it a good idea to broadcast mirth-free canned yocks from a place where office workers on their way to the Port of Authority Bus Terminal had once stopped in for a quick jack before heading back to the ‘burbs.

“That’s funny,” I said. “I’m branching out into magic, to get over my lack of charm.”

“Do a trick,” she said.

“Pull my finger.” The finger I’d prepared comes off when pulled, and oozes appallingly life-like fake blood. She didn’t bite. I didn’t insist.

She took the lead in our aimless stroll. We didn’t head, as I half-expected, towards the moribund downtown sex club scene.

A jack- and jill-off date at a lonely girl’s dull-neighborhood pad is more fun than you might think, especially when the lonely girl in question knocks up a way better than average meatloaf.

An upside-down, backwards American flag taped to the window as a screen against a nosy neighbor gave off groovy revolution vibes. She hung her gumshoe trench on a heavily painted nail left over from previous tenants because she liked looking at old raincoats, she said. No etchings, no paintings, no useless gourmet chef items on display. She didn’t smoke, but obviously sort of wished she did. She stole ashtrays from deceased, formerly hot restaurants and nightclubs.

She asked me to do a magic trick in her bedroom.

“Give me five more minutes,” I said. “That last one really took it out of me.”

“Make something disappear.”

“You already took care of that, but look: here it is again.”

“Better let me tell the jokes, Houdini.”

“Sorry. Go ahead.”

She didn’t have a TV anywhere near her bed. Just a lamp, which shone on a Thomas Bernhard novel, borrowed from the local Public Library branch. She got up, pulled on her Boys’ Dept. underwear and a gray T-shirt, and launched into a routine about her brief stint as a professional perfume-sprayer on the ground floor at Saks Fifth Avenue. The bit was depressing. She either wasn’t funny, or was attempting something new and different, a high-wire tummler act without a safety net. I let her finish, gave her a silent round of Jack-and-Jill applause. It was late. There might’ve been people sleeping next door. She did a strip-tease finale.

“OK, I showed you mine,” she said. “Let’s see yours.”

The bedroom was as bare as the livingroom and kitchen, but an idea came, like an angel.

“Great novel, but what a downer...”

She reached for her copy of The Loser, which sported a classy B&W portrait of young Glenn Gould, but came up with George Crumley’s The Last Good Kiss, its cover splashed with a lurid close-up of a headless female abdomen and a snubnose .38.

She’d looked where I wanted her to look when I got out of bed. “Hey that’s funny,” I said. “I’m reading that one too. He writes worse than a dog, but delightfully unpretentious.”

She dropped the pulpy paperback, fruit of a trade-in at NRS Used Books, RIP. “Hey whudja do with my book?”

“Well it’s also sorta mine, cuz I pay my library tax, but if you look in those skidmarked boy-briefs you just dropped...” She fell for it, hook, line and sinker. “Just kidding. It’s under your pillow. The Tooth Fairy gave it a two-handed Jill-off thumbs-up.”

“You could’ve made it appear in my undies though, couldn’t you.”

“Maybe. But I don’t repeat tricks in front of the same audience, unless I feel like it. Where’d you get your El Perfecto trenchcoat?”

“At a claustrophobic thrift shop called Out of Our Closet, on the Upper East Side,” she said. “Lonely guys cop homo thrills sliding past each other in the back room, so that’s where I go.”

The place was hanging on, even prospering. Maybe a consortium of interior decorators had bought the joint, to preserve its furtive, suffocating atmosphere.

“Listen,” I said, even though I was standing nude under a bare bulb in the bedroom of a woman I barely knew. “Will you please marry me, be my wife, and help me run The Magic Joke Shop when Sam the Joke Man kicks the dribble bucket?”

“This some kinda joke?”

Magic’s not always a trick. But years later, she told me her original scheme was to charge me charge me $50 for the Jack-and-Jill-Off date.

 

Matthew Licht (story)