Sciogliere il ghiaccio
Lorenzo era un ragazzo e faceva la comparsa nel teatro lirico, quello in cui i cantanti cantano e l'orchestra suona e gli abiti e le scene danno vita a un regno incantato. In quel caso particolare andava in scena la Turandot di Puccini. La storia di una principessa orientale bella e gelida, “bianca al pari della giada, fredda come quella spada”. Questa donna mette a morte tutti i pretendenti, chiedendogli di rispondere a tre enigmi: quelli risultano impreparati, non riescono a rispondere e lei appunto li fa uccidere (“chi affronta il cimento e vinto resta porga alla scure la superba testa”). “Mai nessun m'avrà” assicura. Arriva il principe Calaf e anche lui si innamora di lei, così, di lontano e al buio (“si profuma di lei l'oscurità”). C'è anche una schiava, Liù, che non è gelida e ama il principe Calaf e si sacrifica per lui. Addirittura a un certo punto dice a Turandot “Tu ,che di gel sei cinta, da tanta fiamma vinta, l'amerai anche tu”.
Questo in breve. Insomma Lorenzo faceva la comparsa e, insieme al suo amico Nicola (un tipo pieno di iniziative), durante la rappresentazione stava spesso accanto o dietro a Liù, sul palcoscenico. La cosa interessante è che Liù è un personaggio tenero e appassionato, ma la cantante nel mondo reale era gelida e distante tipo Turandot. Viceversa la cantante che impersonava Turandot risultava, nel mondo reale, abbastanza comunicativa e pronta ai rapporti con gli uomini e con le donne, a prescindere dagli indovinelli.
Il tema centrale dell'opera Turandot è: come trasformare una donna fredda e sanguinaria in una pupa calda e innamorata.
Lorenzo era molto interessato al tema centrale. Dunque era molto interessato alla cantante che impersonava Liù: una donna distaccata, e inoltre lontana socialmente da lui. Forse le due cose erano collegate. Quando sei una famosa cantante tendi a distaccarti dalle comparse.
Lui pensava spesso a Liù, chissà se lei era era come lui la sognava. A un certo punto nell'opera i ministri della principessa cercano di scoraggiare il protagonista ricordandogli che il mondo è pieno di donne vere, mentre quella che lo fa impazzire è una proiezione della sua mente: “Oh ragazzo demente, Turandot non esiste”.
Eppure Lorenzo se la immaginava talmente bene la sua Turandot, che poi era Liù. Per cui esisteva di sicuro.
Una sera Lorenzo e Nicola si trovavano in un bar all'aperto. Erano con delle ragazze. Nicola, convinto che l'amico dovesse essere guidato nelle faccende della vita, nel pomeriggio gli aveva raccomandato di evitare quei suoi ragionamenti astrusi che tendevano ad allontanare le donne.
Solo che Lorenzo non parlava proprio.
“Va bene evitare i ragionamenti astrusi ma ora esageri, qualcosa devi dire” gli sussurrò Nicola esasperato
Quando Lorenzo ci provò, dallo sguardo severo dell'amico capì che non stava andando bene.
Nicola cercava di coinvolgerlo in giochi sociali tipo andare a distendersi in quattro sulla spiaggia ma lui non afferrava l'essenza di quelle proposte.
“Sei distratto” lo rimproverò Nicola in un momento in cui le ragazze erano andate al bagno per tornare più vivaci.
“Eh?”
“Non ti vedo sull'obbiettivo” alludeva alle ragazze.
“Quale obbiettivo”.
“Appunto”.
Improvvisamente Nicola fece la voce comprensiva:
“Pensi a lei, eh?”
“Chi”.
“A Liù”.
“Che dici”.
“Lasciala perdere. Non pensarci. Chissà che ti immagini in quel cervello contorto di segaiolo”. Parlava come i ministri di Turandot.
“Se ti dico che non ci penso”.
In realtà ci pensava di continuo. Quel distacco da soprano lo ipnotizzava. E' vero che era gelida, ma aveva gli occhi fiammanti, da rapace erotico, o da sirena predatrice, una chiara promessa sessuale, a saperli leggere.
Del resto anche nel cartone di Biancaneve aveva sempre trovato più sexy la matrigna regina, rispetto alla protagonista allocca: lo sguardo intensa di quella donna (prima dell'invecchiamento chimico) era tutto un programma. Dalle un letto a quella poi lo vedi. Disprezzava lo specchio orbo e mentitore.
Nicola gli disse: “Allora, se è così, le facciamo un bello scherzetto a Liù”.
“Quale”.
E Nicola, sempre molto vivace e pieno di iniziative, spiegò la sua idea. Lorenzo non poté tirarsi indietro.
Ho notato che nella società contemporanea il pizzicotto sul sedere non è considerato un bel gesto. Piuttosto, è visto come un atto volgare e antiquato. Ci si immagina che l'artefice debba essere un individuo di una certa età, retaggio di un tempo giustamente dimenticato. Un vile, perché si suppone agisca nell'anonimato, per esempio sull'autobus. Qui si parla invece di un pizzicotto coraggioso.
La sera dopo c'era la rappresentazione. Immaginiamo un teatro all'aperto, estivo. Lorenzo, sul palco, immerso nella musica, provava un'emozione indescrivibile. Lì tutto era meraviglioso. Trasfigurato. Uno straccio diventava un drappo trapunto d'oro, come aveva detto il regista. Ma Lorenzo aveva fatto una promessa al suo amico, aveva preso una decisione, e non poteva tornare indietro. Richiamò a sé tutto il coraggio che rispose al richiamo e si preparò. Il momento si avvicinava.
Quando Liù cantava “Te che di gel sei cinta, da tanta fiamma vinta, l'amerai anche tu” i due ragazzi erano posizionati dietro la cantante. E l'idea di Nicola era stata: “In quel momento le diamo un pizzico sul sedere, tu sulla chiappa destra io sulla sinistra”.
E così fu: in concomitanza della pausa che segue la parola “vinta” i due amici presero possesso della chiappa assegnata e dettero un pizzico.
La pausa si protrasse un attimo più del previsto. Lorenzo si preparò alla catastrofe. Avevano interferito manualmente con un momento cruciale nella carriera di una cantante. Ora Liù avrebbe smesso di cantare, schiaffeggiandoli di fronte alla folla. O come minimo avrebbe stonato. Invece quel “l' amerai anche tu” si levò straziante e meraviglioso nel cielo notturno, sollevando l'intero anfiteatro pieno di gente dal suolo.
L'oscurità si profumò di lei, di Liù.
Dopo la rappresentazione Nicola disse: “La vacca non si è accorta di nulla, aveva troppi vestiti su quel sedere piatto”. Era deluso.
“Secondo me invece se ne è accorta e ha continuato lo stesso. E non ha il sedere piatto. Che vacca sarebbe”.
Liù uscendo dal camerino non li degnò di uno sguardo, non disse niente, come nulla fosse.
“Hai visto?” chiese Nicola
“E' che è arrabbiata”.
La notte, fosse il piacere per l'atto coraggioso o il rimorso per la sfumatura discutibile, Lorenzo dormì poco. Il pomeriggio successivo capitò per caso nel bar dove sapeva che lei andava sempre a quell'ora per bere la tisana da cantante.
Si avvicinò pronto a tutto, ma non a quello che avvenne.
Lei gli sorrise per la prima volta e fece cenno di sedersi al suo tavolo. Gli parlò, perfino.
“C'è voluto un bel coraggio” disse.
Lui cercò di far finta di niente.
“Come?”
“Dico per darmi quel pizzico. Che roba”.
Alessandro sentiva una sensazione strana che non riusciva a identificare.
“Allora te ne sei accorta, nonostante i vestiti”.
“Me ne sono accorta eccome. Stanotte ero arrabbiatissima. Poi ho riflettuto: quel pizzico mi ha fatto cantare meglio”.
In effetti quando era arrivata al punto in cui morendo dice “Io chiudo stanca gli occhi... per non vederlo più” Lorenzo si era commosso più delle altre volte, nonostante l'emozione eroica del pizzico appena inferto fosse molto viva in lui e, in teoria, divergente rispetto alla commozione amorosa.
Parlarono come non avevano mai parlato. Interi minuti. Lui le raccontò che faceva la comparsa per immergersi nelle opere, dato che voleva diventare compositore.
Anche lei raccontava di sé.
A un certo punto Lorenzo capì l'origine della sensazione strana. Liù, quella creatura da fiaba orientale, che ora era diventata meno algida, parlava con un forte accento di qualche provincia agricola italica. Quasi in dialetto.
Era per questo che di solito parlava poco: per non rivelare quella che ai suoi occhi doveva essere una pecca. Fortunatamente mentre cantava non si notava niente.
Comunque quando si sentiva libera di parlare era una donna allegra e comprensiva. Discorrevano di questo e di quello ma tornavano sempre al pizzicotto, al coraggio che c'era voluto, al significato di quel gesto.
“Ho sempre pensato che fosse un gesto greve, volgare, disse Liù. Certo questo è un caso diverso dal solito”.
Lui si sentiva incoraggiato da come lei si era aperta e si lanciò. Disse che a volte la volgarità è una difesa. Magari uno dice “che gnocca” perché è troppo tenero: si rende conto che la malia d'amore sta per farlo impazzire e allora dice “che gnocca” come fosse una formula magica, per confinare quel potere infinito da cui si sente minacciato in un contenitore, una definizione chiara che ne disinneschi il mistero.
Finito quel discorso si pentì di averlo fatto: era uno di quei ragionamenti astrusi che il suo maestro di vita, Nicola, gli sconsigliava perché confondono.
Pentendosi guardava gli occhi di Liù, fiammeggianti. E tutto il resto del suo corpo, diventato più morbido.
Lei però non sembrava confusa. Disse:
“Ti devo far vedere il livido”
Fu così che grazie a quel pizzicotto eroico il ghiaccio di lei si sciolse e divenne una donna e stettero insieme per pochi, bellissimi giorni.
Cosa rimane di quei giorni? Le ondate di piacere che sentivo quando ero immerso in quella musica, mentre lei cantava e io le era accanto, si rinnovano ogni volta che ascolto Turandot. Vive, possenti, a distanza di molti anni. Forse la donna che mi ha segnato era quella che sorgeva dalla musica, come una Venere dei suoni. Quella che non esisteva. Eppure non mi sento demente. Sono felice di tutto quello che è accaduto.
Enzo Fileno Carabba (testo e voce)
Testo tratto da: "Enciclopedia dell'amore" di Enzo Fileno Carabba (in corso di pubblicazione in formato ebook presso Bookabook, sito di editoria attraverso il "crowdfunding": http://www.bookabook.it )
Frammenti musicali tratti dalla Turandot di Giacomo Puccini (dir. Herbert von Karajan, Wiener Philharmoniker. Deutsche Grammophon, 1990)