Four Guests

Benjamin “Ginger” Lord Norton resolutely and methodically burnt his inheritance. He booked entire hotels at the beaches, watering holes and ski resorts where those of his class converge, and broadcast open invitations to all who wanted to join the party. He dispatched fleets of limousines, private jets, helicopters and horse carriages to round up the homeless but cheerful, the terminally ill, the beautifully unhappy, and the talented few who might make some record of whatever happened. 

His last penny spent, shortly before check-out time at his final hotel, he took a razor to his long copper locks, and then to his wrists and throat. In his suicide note, he left his platinum wristwatch, diamond cufflinks and his fabulous clothes to whoever had to clean up the gory mess.  

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The stoned life isn’t a good life, in the end. Jeremiah “Cokey” Easton scored whatever was available wherever he could, and holed up in cheap hotels to enjoy the parade of artificial paradises. Here he is, at some point in his last months on Earth, in his favorite Rive Droite fleabag’s Bar and Grille, wondering where his next ball of opium’s gonna come from. In the background, bartender Lemmy Cautionary knocks up an extra-strong “Pink Lady” for the old guy.

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Derry “Peaches” Salvages fervently believed in life after death. When she heard that the abandoned Dryden West hotel was haunted, she moved right in. No rent, no noisy live neighbors, no hot water or electricity were all conditions that packed heavy romantic appeal, to her. The resident spirits tolerated her nude presence at first. Derry’s personal warmth and abundant flesh sent nostalgic shudders through their ectoplasm. Her tendency to whistle and tap-dance in the echo-prone penthouse ballroom, however, set them against her. 

One morning she found herself out on the street again. Then a garbageman found her and called the cops.

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Giddy little Miss Narfooz wrote the best novel ever written, in four days, while ensconced in the Gertrude Stein Suite at Hotel Kranepool. A poet at heart, she weighed every word, felt every emotion, brought each fascinatingly unlikely episode alive. When the final full stop clacked on the Olive Drab IBM Selectric provided by Room Service, she gathered her (few) things in a pigskin suitcase, rode the elevator down to the lobby, and settled her bill with the Night Porter. 

He noticed the thick wad of inked paper she held cradled in her graceful arms. She noticed that he’d noticed. 

“My masterpiece,” she said. “On your hotel’s stationery.”

With that, she sashayed out the revolving door and deposited her manuscript in the garbage dumpster at the end of the street. She rounded the corner swinging her suitcase and disappeared over the curvature of the next block. 

The Night Porter nearly shouted.

The reception desk’s phone rang at that moment. It was a guest with a complaint about vibraphone music coming in over the Muzak. 

“But we don’t have Muzak here at the Kranepool, sir,” the Night Porter said.

“It’s madam,” the guest said. “And those chilled, haunted tones are quite distinct. I’m not deaf, yet.”

“I’ll be right up,” the Night Porter said. And right up he went, duty-bound. There was no music on the floor the guest had specified, nor on any of the other floors.

By the time he returned to the ground floor and rushed out to recover Miss Narfooz’s magnum opus, the garbagemen had already come and done their dirty job. Their truck was equipped with a grinder-compactor in the back. 

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Quattro ospiti

Benjamin “Rosso Malpelo” Lord Norton scialacquò con metodo e risolutezza la sua eredità. Prenotò interi alberghi nei luoghi balneari, termali e da sci dove sono soliti aggregarsi quelli del suo ceto sociale, e vi invitò chiunque volesse unirsi alla festa.

Fece spedire flotte di limousine, jet privati, elicotteri e calessi per rimorchiare gli allegri senzatetto, i malati moribondi, i belli e malinconici, e quei pochi talentuosi che magari avrebbero immortalato in qualche modo gli avvenimenti.

Avendo bruciato l’ultimo centesimo, poco prima del check-out al suo ultimo hotel, lavorò di rasoio prima sulla propria ramata chioma e poi sui propri polsi e carotide. Nella nota di suicidio lasciò a chiunque sarebbe toccato pulire il cruento casino il suo orologio di platino, i suoi gemelli incrostati di diamanti e il suo favoloso guardaroba.

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La vita sballata alla fine non è bella. Jeremiah “Cokey” Easton si procurava qualunque roba fosse in giro e si rifugiava in hotel di infima categoria per godersi i paradisi artificiali. Eccolo ritratto negli ultimi mesi di (mala)vita, nel Bar & Grill della sua stamberga preferita della Rive Droite. Sembra che stia cercando di capire da dove potrebbe arrivare il prossimo grumo di oppio. In sottofondo, bartender Lemmy Kautionary gli prepara un’ennesimo doppio “Pink Lady”.

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Derry Salvages credeva con fervore nella vita dopo la morte. Quando sentì che il vecchio Hotel Dryden West, in stato di abbandono da decenni, era popolato da fantomatiche presenze, vi si trasferì subito. Niente affitto da pagare, niente vicini rumorosi, niente luce né acqua calda le sembravano delle condizioni romantiche. I fantasmi residenti dapprima la tollerarono. Girava nuda per le suite e i corridoi, e il suo calore umano trasmetteva loro un brivido nostalgico per tutto l’ectoplasma. La sua tendenza a fischiettare e ballare il tip-tap nella Sala da Ballo del Penthouse, regno degli echi, invece li irritò. 

Una mattina Derry si ritrovò per strada. Poi la trovò un netturbino. Chiamò la polizia.

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La scintillante piccola Miss Narfùz scrisse il miglior romanzo di tutti i tempi, in quattro giorni, isolata nella Gertrude Stein Suite di Hotel Kranepool. Poetessa fino al midollo, dava il giusto peso a ciascuna parola e fece risuonare di vita ogni episodio. Quando batté l’ultimo punto sull’IBM Selectric grigioverde che La Gestione le aveva fatto portare su in camera, raccolse le sue (poche) cose e scese in ascensore verso la hall per saldare il conto col portiere di notte.

Lui notò il pacco cartaceo che lei reggeva in braccio. Lei notò che lui l’aveva notato.

“Il mio capolavoro,” disse. “Scritto sulla cancelleria del vostro albergo.”

Con ciò, uscì dalla porta girevole e depositò il manoscritto nella pattumiera in fondo alla strada. Attraversò, girò l’angolo e scomparve.

Il portiere di notte quasi urlò.

Il telefono del banco della reception suonò in quell’istante. Era un ospite che si lamentava della musica di vibrafono che si udiva dal corridoio.

“Ma non abbiamo il Muzak qui al Kranepool, signore,” disse il portiere di notte.

“Signora, prego,” disse l’ospite. “E sento distintamente quegli spettrali toni. Non sono mica sorda, o non ancora.”

“Arrivo subito,” disse il portiere di notte. E doverosamente salì le scale. Non c’era musica nel corridoio che l’ospite aveva specificato, né negli altri corridoi.

Il portiere di notte ridiscese di corsa a pianterreno e uscì nella notte per recuperare l’opera di Miss Narfùz. Ma nel frattempo erano passati i netturbini per fare il loro sporco ma dignitoso lavoro. Il loro camion era munito di un macinatore-compressore.

matthew licht