Diario argentino
La ragazza del bus
Alessandro ha conosciuto una ragazza sul bus notturno per Mendoza. Lei stava tornando a casa sua, a San Luis. Era il suo primo viaggio. Ha deciso di farlo da sola, a Buenos Aires. Lei era bella, dice lui. Lui le ha fatto un ritratto sul suo taccuino, la prospettiva era sbagliata, lei gli ha fatto una foto di nascosto, col cellulare. Hanno iniziato a parlare quando tutti dormivano. Lei gli ha chiesto se “teneva ninos”. Lui con tono allarmato ha risposto che no, non ci pensava neppure ad avere figli. Lei lo ascoltava ammirata mentre lui le parlava di viaggi, dell’università, di Firenze. Lei invece “tiene una nina”, Abril si chiama. Gli dice che ha undici anni la sua bambina, lei invece ne ha ventisei. Alessandro fa i conti nella sua testa. Lei ha anche un tatuaggio che le parte dalla coscia e le arriva fino alla spalla, glielo mostra. Gli chiede se ha tatuaggi. Lui risponde che non può, è troppo peloso. Lei è scesa che il sole non era ancora sorto e ha dato un bacio sulla fronte ad Alessandro portandosi con se il disegno che le aveva fatto.
Hector
Nel deserto del Leoncito c’erano due macchine e un furgoncino. La nostra macchina era quella con un cerchione in meno. Nel furgone c’erano tre ragazzi che bevevano mate. Nell’altra macchina una coppia, lui palestrato, l’occhiale d’aviatore, lei piccola, tutta curve, vestita di tuta nera dai polpacci in sù, con una criniera di capelli riccioli biondi tenuta in ordine da un paio di occhiali da sole saldi sulla testa. Inizia a parlarci nel suo italiano, quello che ha dovuto imparare per lavoro, non sappiamo che lavoro. È espansiva. Decide che abbiamo assolutamente bisogno di una foto di gruppo nel deserto, come ricordo. Ce la fa controluce. Ci invita a seguirli in macchina, loro sono diretti all’osservatorio che si trova poco distante.
Così dal deserto iniziamo a salire per uno dei tanti crepacci dove scorre un fiume e poi improvvisamente dal deserto compaiono pioppi in filari, salici piangenti, campi con bestie al pascolo, alberi da frutto. Ci fermiamo davanti ad una casa, anni ’70, porte a vetri, il prato curato sul davanti, una fila di panni stesi in ordine dietro, uno sdraio, un forno per il barbecue. Dentro, nell’ingresso, fra le piante da interni troppo rigogliose sta un tavolino con qualche brochure dell’osservatorio e un piccolo Budda che regge degli incensi accesi. La signora intraprendente decide per noi che faremo la visita dell’osservatorio, noi ci lasciamo fare. Hector è lì che ci aspetta. Hector è un fisico specializzato in astronomia, ha un paio di baffi bianchi e folti sul viso abbronzato e sorridente, spiega l’astronomia in uno spagnolo così chiaro e didattico che pare di sentire la nostra lingua. Ci interroga come un docente nella sua classe, guidandoci nell’osservatorio. Lui sta lì, nella casa dell’osservatorio, nel deserto del Leoncito dove la notte la via lattea forma un anello che va a chiudersi su di noi.
Indios
Sotto la pensilina dei bus aspetta con noi una donna con sei bambini, i tratti indios, gli zigomi alti, la pelle bruciata dal sole, gli occhi neri e stretti. Si copre la bocca col collo della sua felpa per non farci vedere che le mancano due denti. Il più piccolo dei bambini è avvolto in una coperta sulle sue ginocchia. Le due bambine più grandi, al massimo di dieci anni, ci guardano incuriosite, ogni tanto bisbigliano tra di loro e ridono. La maggiore delle due porta ai piedi delle zeppe di almeno sette centimetri, da donna adulta, ci dondola impacciata, ma con noncuranza, come fosse normale camminare così, strusciando il tacco di legno sul pavimento, abbassandosi come un equilibrista a raccogliere ogni tanto uno dei fratelli minori che gioca per terra. La più piccola delle sorelle srotola i filtri delle sigarette che trova sotto la panchina dove sta seduta la madre. La madre è stanca e silenziosa. Non dice niente.
I cani randagi continuano a farci compagnia.
Café Bar los Tribunales
Alle tre del pomeriggio, sotto il sole del tropico del capricorno, a Salta fa troppo caldo. Nel Café Bar los Tribunales tutto è rimasto come negli anni ’60: il vecchio frigo in legno arancio e verde, i tavoli sbilenchi in legno scuro, gli specchi con scritte in corsivo di bibite ormai in disuso. Il bar è quasi vuoto se si escludono i due giovani che bevono una birra in un angolo e un vecchio ingobbito e piccolo, col viso all’altezza del tavolo che sfoglia il giornale. Accanto al bancone, sulla parete, sta una foto immensa della vittoria italiana dei mondiali 2006. Una ragazza arriva per prendere la nostra ordinazione. Intanto noto una vecchia così piccola che quasi scompare dietro al bancone nel tentativo di pulirlo. Ha le mani di una bambina, il viso indio e gli occhi ingranditi dalle spesse lenti degli occhiali. Dopo svariati disguidi linguistici riusciamo a ottenere dalla ragazza otto succhi di pera avendone chiesti solo quattro. Duecento pesos di succo di pera per aver detto “uno mas por favor”. In un angolo del bar sono appesi dei fogli di giornale in cui si parla del bar, fondato negli anni cinquanta da Carlo, un ragazzo di ventidue anni, immigrato italiano da Trento. Il bar è stato per anni il ritrovo di tanti giudici e magistrati le cui foto stanno appese lungo tutto il muro. Dopo un’ora, quando ormai siamo gli unici clienti ci alziamo con la vescica piena. La vecchia ci viene dietro per pulire il tavolo e timidamente aspetta un nostro sguardo per rivolgerci la parola. Con uno strano italiano ci chiede di dove siamo. “Mio marito era di Trento” ci dice, indicando una foto del marito appesa sopra il bancone. Pietro lentamente le dice che anche suo padre è di Trento. Sorride e sembra essere contenta che il padre di Pietro sia di Trento oppure che ancora una volta abbia potuto parlare la lingua del marito morto.
Il taxi
Quando il tassista è arrivato per portarci all’aeroporto ci ha detto con faccia afflitta che gli zaini li dovevamo tenere con noi. Alessandro indicava innervosito il bagagliaio. Il tassista di rimando sconsolato ha aperto il bagagliaio mostrandoci la bombola che lo occupava praticamente del tutto. Ci siamo stretti nell’abitacolo con tutte le nostre borse. Avevo un unico spiraglio di finestrino aperto da cui respirare e guardare fuori con un occhio solo: strade assolate, case basse in uno stile coloniale rivisitato, studentesse in divisa scolastica che si guardano nel riflesso delle vetrine, cani stanchi, sdraiati nelle piazze, cani a salsiccia che corrono goffi nella polvere, insegne della coca cola dovunque e nell’orecchio sinistro le cover spagnole di successi pop 2015, gli occhi rossi del tassista nello specchietto retrovisore. La strada non è breve fino all’aeroporto: periferia, cavalli sul ciglio della strada, santini addobbati con stracci rossi e scritte elettorali dovunque col nome del presidente a ripetizione “Macri Macri Macri…”.
Sulle Ande nell’ombra blu delle montagne ho salutato un gaucho a cavallo, vestito come in un sogno, col cappello nero dalla tesa larga e il poncho colorato. Lui mi ha salutato di rimando, con la mano aperta e ha continuato a salire sulle sue montagne conquistate dove nelle piccole chiese intonacate gli arcangeli in cornici fiorite, con gli abiti dei conquistadores, caricano l’archibugio e le madonne si vestono di coperte ricamate di fiumi, alberi, lama e viandanti, come montagne.
Isabella Soulard (testo e immagini)