Chiaroveggenza

 

C’è una cosa che mi ha sempre colpito nei diversi comportamenti rituali e nei tabù delle culture degli esseri umani, soprattutto le più distanti dalla mia: l’uso del nome e dei nomi. 

 

È arcinoto che la parola sciamano provenga dal tunguso šamān (nonostante le diverse e intriganti teorie circa l’intreccio linguistico che ha composto questa parola); si tratta di una figura peculiare, l’unico “originale” sciamano in senso stretto. Detentore di un linguaggio segreto, il linguaggio degli spiriti, dei vegetali e degli animali, egli deve conoscere le parole degli Altri per poter negoziare con loro in favore del suo popolo, della sua comunità. Tuttavia, «resta da sapere fino a che punto lo sciamano si riservi il monopolio di tale scienza» scrive la grande antropologa Éveline Lot-Falck parlando del linguaggio che i cacciatori dei popoli siberiani dovevano utilizzare una volta entrati nello spazio sacro dedicato alla caccia. 

Nel suo monumentale I riti di caccia dei popoli siberiani questa eccezionale studiosa ci introduce al complesso sistema di divieti e gesti rituali – che precedono, accompagnano e concludono la caccia – nelle diverse popolazioni indigene vissute nell’estremo nord dell’Asia orientale. Lot-Falck illustra l’idea della caccia tra le popolazioni siberiane con rarissima lucidità e immenso impegno, grazie alle sue qualità sovrumane, qualità che Claudio Rugafiori definisce, nell’appassionata nota conclusiva all’ultima edizione de I riti di caccia dei popoli siberiani: «chiaroveggenza» e «chiarudienza», capacità tramite le quali «ha saputo restituirci non l’ombra ma la realtà stessa o, se si preferisce, l’idea adeguata» di quell’«ambiente misterioso» che è «il mondo dello spirituale ma anche quello degli spiriti, perché, essendo tutto spirituale, tutto vi può diventare spirito». 

 

Tornare agli studi di Éveline Lot-Falck significa quindi, in qualche modo, avere la possibilità di sentire e forse comprendere l’attitudine che i cacciatori siberiani dovevano adottare durante la loro attività principale: l’atto sacro del cacciare. 

La moltitudine di regole e tabù che circondano l’attività della caccia, nelle culture dei popoli siberiani, è immane. I cacciatori di alcune comunità negano ritualmente e simbolicamente di aver ucciso l’animale, per esempio. Oppure ancora: i cacciatori non possono usare i nomi degli animali, per non destarne lo spirito. Il lupo allora si chiamerà «coda lunga», «colui che ha una coda», «cane o figlio di dio», «occhi azzurri», «l’ululante», «il fulvo». I cacciatori, pur avendo delle nozioni di scienza sciamanica, si guarderanno bene dal richiamare gli spiriti oscuri della foresta; tratteranno con gli animali una negoziazione perpetua, regolata da una delicata e complessa diplomazia, che si riverbera in ogni ambito della vita dell’intera popolazione. Il cacciatore può inoltrarsi e intraprendere la sua missione solo «riparato da molti divieti», «dopo aver spezzato i legami con la vita ordinaria, la vita profana, per penetrare nel dominio della caccia, con la sua identità camuffata, protetto dal suo anonimato come uno scudo, il cacciatore si avvia ad affrontare le forze misteriose della foresta».

 

Quanto ci ha raccontato Éveline Lot-Falck, con una precisione e una generosità senza pari, ci aiuta oggi a comprendere cosa possa davvero intendere Baptiste Morizot quando ci invita all’inforestamento e alla metamorfosi.

«Seguire la pista di un animale, vedere con gli occhi di un altro: se guardiamo con attenzione, tutto questo ha quasi a che fare con la magia o con quelle metamorfosi all’opera nei rituali sciamanici, in cui lo sciamano arriva a trasferire il suo spirito nel corpo di un animale». Forse, come suggerisce Éveline Lot-Falck, la scienza sciamanica, la magia, non era e non è solo appannaggio degli sciamani, degli stregoni, dei saggi. Se, come dice Byung-Chul Han, «oggi al tempo manca una struttura stabile» a causa della scomparsa dei riti (idea con la quale non sono del tutto d’accordo) allora è proprio da queste storie, da queste leggende senza tempo, che potremmo cominciare a ripensare al rituale, ai divieti, ai tabù, all’importanza dei nomi e alla sacralità degli spazi. Potremmo ritrovare il contatto con quel regno che Éveline Lot-Falck definiva come un sovrappiù, ovvero «l’invisibile, il meraviglioso, lo spirituale, e insomma lo spirito, in cui risiedono ogni efficacia, ogni vita».

 
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Per approfondire

Bibliografia parziale 

Éveline Lot-Falck, Il tamburo dello sciamano.

Éveline Lot-Falck, I riti di caccia dei popoli siberiani.

Éveline Lot-Falck, «Religioni dei popoli altaici della Siberia», in: Le religioni dei popoli senza scrittura (a cura di Henri-Charles Puech).


Tutte le immagini di copertina di questa rubrica sono opera di Nunzio Bonina.

Andrea Cafarella