Materia oscura – Le rovine di Luciano Funetta
Già a partire dall'epigrafe collocata in apertura di Dalle rovine, Luciano Funetta - giovane autore di questo sbalorditivo romanzo - dichiara molti dei suoi intenti e ci lascia spiare in anticipo molti dei suoi demoni. Si tratta di una frase di Joseph Conrad (“Non c'è uomo qui – mi segue? non c'è uomo che reggerebbe a una vita fatata”) che unisce un tema esistenziale ormai classico della modernità, la fatica di vivere, ad una corrente magica, con una domanda interna relativa al seguire un pensiero, il tutto in forma di dichiarazione negativa rivolta ad un ipotetico interlocutore.
A lettura conclusa del libro, mi sono reso conto che la citazione di Conrad contiene in pratica tutto il nucleo incandescente, e molti degli interrogativi (elegantemente non espliciti) che Funetta, con sottili (ma dirompenti) manipolazioni delle strutture narrative espone poi al lettore durante lo scorrere della storia. Questo lo osservo rimanendo sulla citazione letterale, esaminando un elemento diretto. Su un piano più indiretto, ma credo non meno significativo, torna utile considerare che Conrad è l'autore di Cuore di tenebra (Heart of Darkness) e La linea d'ombra (The Shadow Line: A Confession). Dunque un creatore di cuori pulsanti ma circondati da una materia oscura, lo scrittore capace di confessioni che vanno a toccare quella linea – dolorosamente invisibile - che separa giovinezza e maturità. Siamo tutti obbligati a varcarla, ma dopo saremo anche esposti a cadute e maledizioni di vario genere.
Per entrare nel paesaggio mentale, nell'atmosfera febbrile, nel teatro di Dalle rovine, devo rimanere in tema di oscurità, ancora dentro la lingua inglese, ma vado indietro nel tempo. Ho trovato - per felice combinazione, lo sto leggendo proprio in questi giorni – in un saggio di Nadia Fusini dedicato alla Tempesta di William Shakespeare, una frase di Prospero che si adatta secondo me perfettamente a questo romanzo: “This thing of darkness, I acknowledge mine”. Ecco la descrizione che cercavo. Questa frase Prospero la pronuncia riferendosi a Calibano, mi scuserete se la strappo al suo contesto originale per definire questo libro: una cosa di tenebra. E questa cosa di tenebra io la chiamo mia.
La storia del protagonista, il collezionista di serpenti velenosi Rivera, è narrata da una prima persona plurale: da un noi corrispondente a non identificate entità. Sono questi spettri parlanti - invisibili a tutti gli attori principali coinvolti nell'azione – a raccontarci la vicenda. Sono fantasmi custodi che osservano tutta la vita di Rivera e la restituiscono ai lettori.
E' un libro di grande esattezza ma scritto come tracciando allucinazioni. Molto denso di materie diverse, davvero multidimensionale perché attraversato da temi differenti che si sovrappongono a creare una allegoria complessa. Dichiaro qui tre elementi, tre linee portanti che mi hanno colpito più profondamente (ma molte altre se ne potrebbero individuare).
ARCHITETTURE AL LAVORO. Considero in questa categoria i tagli del racconto, i montaggi successivi delle voci narranti (i fantasmi, abbiamo detto) utili a costruire, aggiunta dopo aggiunta, l'intero lo sviluppo della vicenda. E poi le strategie messe in opera dall'autore per la creazione di strutture narrative ingannevoli, con false prospettive, deviazioni, citazioni (evidenti o nascoste) destinate a moltiplicare gli scenari ed i riferimenti, in un gioco di specchi virtuosistico, celato sotto una apparente fluidità del dettato. Ma troviamo anche in Dalle rovine (a partire dal titolo!) vere architetture, non linguistiche ma pure strutture visive. La forma-città: il parco pubblico, le torri, i viali con scorci prevalentemente notturni, colti attraverso finestre o finestrini di automobile, con aperture su una periferia minacciosa, fantascientifica, opprimente. La forma-casa: innanzitutto l'appartamento in cui vive Rivera, una casa-prigione dove lo spazio (fisico e psichico) viene scolpito e qualificato soprattutto dalla presenza delle teche in cui sono custoditi i serpenti; ma è importante anche la villa di Jack Birmania, una scatola popolata da ombre e memorie, con le persiane delle finestre chiuse, gran parte dello spazio interno trasformato in una sala cinematografica domestica (al primo incontro tra Rivera e Birmania è in corso la proiezione di Freaks di Tod Browning).
PORNOGRAFIA MEDITATIVA. Rivera scopre di poter fare sesso con i serpenti come se fosse un monaco che vuole perfezionare una tecnica di meditazione. Le intimità con i rettili si svolgono sempre, paradossalmente, in una atmosfera de-sessualizzata, tutto accade sotto una luce fredda di laboratorio, nessuna descrizione è morbosa. Qui è in gioco più che altro il passaggio ad uno stadio di coscienza superiore. La trance in cui entrano l'umano ed i suoi animali si configura proprio come un esercizio spirituale, serve ad accendere una tonalità emotiva di fondo, quasi l'attesa di ricompense future e sviluppi possibili. Forse questi accoppiamenti animaleschi di Rivera (che vengono filmati, diventeranno cinema) alludono ad una promessa di maggiore consapevolezza e tutta la messa in scena funziona come una sorta di schermo su cui, come nel film Solaris di Andrej Tarkovskij, a partire dal desiderio e dallo sguardo si materializzano le inquietudini dei lettori.
DERIVA CONTROLLATA. A partire dalla metà del libro, dopo che Rivera ha inaugurato una specie di anomala carriera da pornodivo, Funetta cambia il ritmo della trama, gli sviluppi della storia ci sono, va tutto avanti, ma in modo sempre più enigmatico, come se si verificasse una perdita nella messa a fuoco. Mi pare una strategia precisa: mentre i dialoghi si infittiscono facendosi sempre più stringenti, le situazioni si accumulano ma sfumano dentro un arabesco complicato e sfuggente. La narrazione crea un montaggio di eventi, conversazioni frammentarie, illusioni: una densa materia romanzesca dove è più significativo quello che non viene detto rispetto a ciò che viene raccontato. Comunque una forza inesorabile trascina il protagonista verso l'epilogo. E' la gravità di un destino, la cifra di una ossessione.
Dopo avere terminato la lettura di Dalle rovine ho avuto l'impressione di essere stato catturato in un labirinto di specchi le cui pareti restituiscono, con simboliche alterazioni, l'immagine di chi lo percorre. Ho subito desiderato di ricominciare a leggerlo: magari la seconda volta sarebbe arrivato un angelo, diciamo un Kafka, ad indicarmi una via di uscita. Così ho fatto.
Stefano Loria
Luciano Funetta, Dalle rovine,Tunué, 2015.