Commercio con gli alieni - Luca Bernardi
In esclusiva per la Stanza 251, Luca Bernardi presenta il suo nuovo libro "Medusa", Tunué, 2016.
Il protagonista di Medusa intrattiene con la realtà un rapporto personale. Si obietterà che ciò è vero per chiunque; eppure tale assunto è forse più valido in taluni casi rispetto ad altri, per esempio qualora il soggetto in questione passi le giornate a intervistarsi da solo o sia convinto di barattare con extraterrestri azzurrognoli le proprie emozioni in cambio di conoscenze metalinguistiche. Durante una vacanza nello stabilimento balneare di tutte le estati, le voci che da anni il ragazzo sente rimbalzare nella testa innescheranno un caleidoscopio di ricordi angosciosi. Un mistero, forse una colpa mortale, attende il protagonista al centro di sé.
Sono nel ramo del commercio con gli alieni.
Un aprile di diversi anni prima, entrando in una zona liquida, scorsi un uovo metallico davanti a una montagna. Era immobile, come incollato. Chiusi gli occhi. Li riaprii. C’era ancora. Alzando lo sguardo lo vidi fluttuare verso sinistra. Andai a pisciare dietro un albero e lo battezzai per traveggole o fosfeni.
Al ritorno, però, era ancora lì. Provai a sbattere una sessantina di volte le palpebre. L’uovo si era avvicinato a terra. Il sole calante, rifrangendosi sulla carenatura, spandeva riflessi argento. Scartai la penultima gomma del pacchetto. Rialzando lo sguardo avevo l’impressione che l’uovo mi tenesse d’occhio e sorridesse nel sorprendermi ad allentare la tensione con cui le mie cavità oculari guizzavano verso la sua porzione di cielo. Alzai la mano. L’uovo brillò.
Dei corvi, uno due tre quattro cinque sei, volarono da un abete a due pini gemelli. Anche se non mi scappava andai di nuovo dietro un mugo, certo che nel voltarmi non avrei scorto più nulla. Invece vidi un essere azzurro alto due metri e mezzo con arti cilindrici e un cranio enorme senza occhi né naso né bocca. Strinsi i denti. Inclinò il testone e lo sfiorò con una delle estremità superiori.
Amore, disse una voce metallica. Di nuovo allungò uno degli arti.
Vuoi… Vuoi una Vigorsol alla menta edizione deluxe? Avanzò di un altro passo e con un arto sfiorò la gomma che in un raptus di cortesia isterica avevo spinto nel cappuccio del pacchetto. Non appena venne a contatto con il corpo azzurrognolo, la Vigorsol vi restò attaccata come a un magnete. Sparì e ricomparve nel collo, visibile per la trasparenza della carne.
Mangiare, disse, e questa volta avvertii una nota di esitazione.
Stringendo gli occhi distinguevo l’intaccatura della mia unghia sulla gomma che scendeva dentro l’azzurro diafano fino al centro del corpo.
Mangiare, disse la voce, amore.
Frugai nell’altra tasca. Vidi la cosa oscillare avanti e indietro, inclinare il capo verso sinistra e scoppiare in suoni cavernosi. Barcollando venne verso di me e con lentezza assordante sollevò l’arto destro fino a sfiorare la forcina che tenevo tra indice e medio.
Tornare, disse, scomparendo.
Piegai la testa. Al posto dell’uovo c’era la luna. Una stella scintillava. In fondo non era successo niente.
Ripreso fiato nuoto tra le meduse (mi piace che la gente non faccia il bagno per paura delle meduse, eccole, come va?, bene voi?, si pulsa…, forse ho trovato l’editore per il dizionario, ah bello poi faccelo leggere, certo, a presto). L’autointervistatore tace, i respiri scivolano invece di inciampare. A capofitto nel vegetale, nella putredine in disgregazione, giù nella fessa del mare, cassetti spinti uno dentro l’altro, ragnatele da cui pendono sintagmi invisibili. Cataclisma che investe la nozione di luogo, sparizione nei flussi. Il mare è una zona liquida.
Alle docce la Elena finge di rinfrescarsi, pietosa pantomima, le gocce che luccicano e ammiccano sui colli parlanti.
Vuoi giocare a carte?
Non sono in grado, dico, il respiro già intaccato. Ti insegniamo noi!
Noi chi? Le amichette culi dislessici? I compagnucci analfabeti? Annaspo all’idea di quali orrori possano sprigionar-si da tre lettere. Di ogni parola sempre ho sospettato, diceva il mio mentore Scardanelli, ma su tutte quelle che risucchia-no i più nell’uno. Noi amici, noi nemici, noi buoni, noi cattivi, noi neri, noi bianchi, noi maschi, noi femmine, noi scemi, noi svegli, noi padri, noi figli? Noi scarafaggi? Noi studenti, noi parenti, noi serpenti? Noi assassini, noi bambini? Noi tigri eucarioti? Noi eumetazoi, noi bilateri, noi deuterostomi, noi sensi scordati, noi vertebrati, noi gnatostomi, noi tetrapodi, noi uova impazzite di scienziati celesti? Noi terii, noi euterii, noi euarchontoglires, noi fiori incancreniti nel liquido amniotico, noi euarchonta, noi primati, noi aplorrini, noi simiiformes, noi catarrini, noi ominoidi? Noi hominina, noi homo, noi homo sapiens? Noi gesticolanti in parchi pubblici davanti a postere folle? Noi che camminando tra i bucaneve guardiamo per terra? Noi che vediamo una lucertola infrascarsi e il nostro odio sventola occhiuto sopra la spiaggia? Noi Senza-volto sfacciati? Noi? Chi? Io? Tu? Lei? Quando?
Lei copre la bocca con il mazzo, sposta lo sguardo da me all’amica spilungona. Stropiccio l’ennesimo due di picche e fingendo di scrocchiarmi vigilo lo scomporsi del cuore a ogni sussulto della parlante che accavallando le gambe lascia pio-vere il Re Bello.
Scopa!
Fra i gongolamenti del Cicisbeo vinco la mano successiva. L’amica ossuta propone di andare in acqua per uno schiaccia-sette e spedisce il Cicisbeo a chiedere in prestito il pallone.
Il gioco langue, si è sempre troppo distanti o vicini, una grassona galleggia in ombra, la pertica si lamenta. Faccio die-ci bracciate verso il largo. Ad attendermi non c’è nessuno.
Perché siete uscite così presto?, chiedo poi alle docce. Aveva freddo, dice Elena indicando l’ossuta.
Il primo pomeriggio scema nel ping-pong. La mia morte non c’è. Da anni ormai gioco solo al Verdone, di cui rimango campione al punto che godono a perdere con me come a farsi impallinare da Federer. Anche la predilezione della Elena credo derivi dalla mia maestria, oltre che dall’avere un cugino famoso tra i ragazzini. Chiede se le insegno a schiacciare di rovescio.
Vediamo, dico scartavetrando un lungolinea.
La pallina finisce oltre il cancello e ho tutto l’agio di guardarla mentre si piega a raccoglierla.
Siamo…, geme battendo, tredici a quattro per te, no?
Lo scemo si fa largo a sputacchi. Caritatevole la Elena gli lascia il tavolo.
Ci vediamo stasera alla notte bianca?
Palleggio con l’idiota. Un bambino biondo osserva. Dopo un paio di partite scappo, all’ombrellone chiacchiero con gli Obsoleti, dicono di aver visto passare uno che faceva la mia scuola. Mi disinteresso e mi avvio ansimando verso sud.
Non dimentica forse un paio di cosucce?
Luca Bernardi
Luca Bernardi, nato a Varese nel 1991, è cresciuto a Bolzano. "Medusa", suo primo romanzo, è uscito per Tunué, nella collana di narrativa diretta da Vanni Santoni. Ha tradotto due romanzi di prossima pubblicazione per Longanesi. Vive a Milano.